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Da Conakry a Monrovia

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La foto sopra è un albero, è il “cotton tree” di Freetown, non un albero qualunque. Era alto 70 metri poi un fulmine nell’agosto del 2023 l’ha sventrato: lui è ancora vivo perché per la Sierra Leone è sempre stato vivo, era già enorme quando gli inglesi iniziarono a mandare gli ex schiavi che avevano combattuto la guerra civile americana come uomini liberi. Su quell’albero furono stabiliti confini, furono date sentenze, furono legati gli schiavi, furono prese decisioni, quell’albero è la Sierra Leone. L’albero è al centro dell’itinerario da Conakry in Repubblica di Guinea a Monrovia in Liberia, un percorso che ha due costanti il mare e gli schiavi: abbiamo viaggiato quasi sempre con il mare sulla destra, con barche e bus, da nord a sud, attraversando 3 Paesi, lungo la “costa del Pepe” dalla “melegueta” il pepe tanto ricercato in Europa. Ma oltre al pepe dalle navi salivano e scendevano, schiavi ed ex schiavi: partivano per le Americhe destinati alle colonie della South Carolina, Georgia e Virginia poiché bravi coltivatori di riso; oppure tornavano in Africa perché durante la guerra d’Indipendenza Americana avevano guadagnato la libertà ma in patria erano solo “negri” di troppo, quindi perché non rispedirli da dove erano venuti?

Giorno per giorno

Mercoledì, 16 aprile: giorno di partenza, ne abbiamo 3, da Roma, Milano e Bologna, per poi riunirci tutti a Casablanca con la Royal Air Maroc. Destinazione Conakry, in Repubblica di Guinea, arrivo puntuale alle 01.30am

Giovedì, 17 aprile: è l’01:30 di giovedì, le pratiche di visto sono piuttosto veloci per un motivo: non hanno l’adesivo da applicare quindi devono solo mettere un timbro, ma dobbiamo comunque tornare in aeroporto per l’adesivo! Purtroppo mancano tutti i bagagli provenienti da Milano, ben 5, quindi tutto si incastra, visto e bagagli, venerdì mattina saremo di nuovo qui. Andiamo all’ Hotel “Onomo” sul mare al centro di Conakry, e il tempo risparmiato in aeroporto lo recuperiamo qui, in un check-in infinito. Andrò a letto attorno alle 04:00am.

Appuntamento alle 09:00, sarà una giornata bella, intensa, la stanchezza delle poche ore di sonno sarà superata dall’adrenalina e dall’entusiasmo del primo giorno di viaggio. Ci muoviamo con il pulmino, siamo in 13, con noi si è aggiunto anche Antonio, “il personaggio” della giornata, un italiano che vive a Conakry. Cambiamo i soldi, chi non ha la valigia compra ciabatte e dentifricio e poi andiamo al molo di Sandervalia dove ci aspetta una piroga motorizzata. Destinazione arcipelago di Loos, composto da tre isole: Tamara, Room e Kassa più qualche isolotto disabitato. Ci fermeremo su tutte e 3, la prima, quella più lontana è Tamara distante circa un’ora con il villaggio di Fotoba, arriviamo che dei ragazzi stanno inchiodando delle barche, tutto è lento e rilassato, un ragazzo dipinge di giallo il muro della sua casa, una donna frigge il pesce, i bambini giocano e ridono come sempre, arriviamo a passeggiare fino alla chiesa anglicana. L’isola di Room, la più piccola ma la più bella, ci sono strutture ricettive per dormire, le spiagge sono meravigliose, sembra un angolo di paradiso, da segnalare la baia del governatore (qui infatti era consentito l’accesso ai soli bianchi poiché residenza del governatore inglese fino al 1905). Infine l’isola di Kassa dove ci fermiamo a mangiare e fare il bagno: un bel tavolino sulla spiaggia e un pesce arrosto indimenticabile. Torniamo a Conakry alle 16:20 e con il nostro bus ci infiliamo per le stradine strette di un quartiere popolare fino ad arrivare ad una piazzetta dove sono in scena due spettacoli: una partita di calcetto femminile con le maglie della Juve e innumerevoli bambini e un gruppo di percussionisti molto famoso non solo in Guinea ma anche all’estero. Peccato che suonano i loro tamburi dentro un capannone e i suoni non sono eccellenti, tuttavia è un’esibizione da applausi, trasmettono energia e afrore di corpi sudati. Torniamo in hotel e poi a cena usciamo al “Jardin de Guineé”, un’attesa lunghissima che occupiamo a conoscere un paio di lavoratori italiani lì a Conakry.

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Venerdì, 18 aprile: dopo la bella colazione dell’Hotel, partiamo riposati alle 08:30. Primo stop alla grande Moschea, ma nonostante avessimo i permessi del ministero del turismo non ci fanno entrare, lo stesso vale per il mausoleo di Seko Touré il padre della patria e Samori Touré l’eroe della Patria, ma qui riesco ad essere più veloce del guardiano e riesco ad entrare. Tutto il complesso della moschea e mausoleo fu costruito grazie ai soldi sauditi, ovunque si vede il simbolo della famiglia Saud: la palma con le sciabole incrociate. Quindi andiamo alla cattedrale cattolica dove di interessante c’è il trono con zanne di elefante e pelle di bufalo e l’elenco degli arcivescovi di Conakry, tra questi il penultimo è Robert Sarah, uno dei papabili al conclave dei prossimi giorni. Di fronte la Banca di Guinea e dietro le botteghe degli artigiani scultori del legno: hanno dei pezzi veramente belli ma purtroppo intrasportabili, soprattutto oggi che siamo al secondo giorno di viaggio. Sono le 11:30 e finalmente torniamo in aeroporto, abbiamo il nostro appuntamento: dei bagagli ne sono arrivati 4 su 5, bene ma non benissimo, mentre il VISA ce lo appiccicano a tutti molto lentamente. La soluzione per il bagaglio mancante, sarà quella di prenderlo domenica mattina, inviarlo al traghetto per Freetown domenica pomeriggio, quindi riceverlo a Tacugama lunedì mattina, io ci credo, perché in Africa questi passaggi arzigogolati avvengono. Torniamo in hotel a pranzo per chi vuole e alle 14:30 andiamo al molo di Boulbinet dove ci aspetta il catamarano per Freetown, la corsa dura 3 ore abbondanti e c’è solo il venerdì e la domenica. Alle 16:10 partiamo, con abbracci sinceri e commoventi, legami brevi, solo l’Africa fa queste magie.

Il mare è calmo e resto sul ponte a prendere il sole, piuttosto che il gelo dell’aria condizionata in cabina. Navighiamo da nord a sud in mare aperto tra le solitarie piroghe dei pescatori, a bordo mi sembra di vedere un cassone per il ghiaccio, chissà quanti giorni rimangono la in mezzo. Arriva anche il tramonto, scompare il sole e compaiono le luci di Freetown all’orizzonte: la costa è montagna a picco sul mare, quel giorno del 1492 il navigatore portoghese Pedro de Sintra la chiamò “Serra Leoa” perché la sua fantasia vedeva un leone accovacciato. Freetown è così, è tutta una ripida salita e una vorticosa discesa: finalmente sono in questa città, affascinato dal nome così forte nel suono e libero. La logica suggerisce che il nostro catamarano attracchi, invece si ferma a qualche centinaio di metri, arriva una chiatta in legno, la legano a noi, poi arriva un altro motoscafo più piccolo, e tutti dobbiamo passare dall’altra parte per poi finalmente scendere nella notte serraleonense al porticciolo in legno. Saliamo ed ecco la dogana marittima, la mia prima dogana marittima: un ufficio anni 60’ con i vetri opachi di salsedine e il legno vecchio, i funzionari burocrati automatizzati con il timbro in mano. La fila non esiste, è un ammasso di gente che spinge, ma con 12 passaporti in mano è dura passare avanti, infatti ne usciamo per ultimi. Il pulmino è fuori ad aspettarci, ma continuiamo ad aspettare anche noi perché è in arrivo Marco, atterrato all’aeroporto Lungi di Freetown. Noi eravamo stupiti del passaggio sulla chiatta in legno, per chi arriva in aereo invece è molto peggio, poiché hanno pensato bene di costruirlo dalla parte opposta di un’enorme baia, così larga che raggiungere Freetown con la macchina è improponibile, quindi c’è il traghetto, quello di terza classe un rottame di ferro tutto aperto che impiega qualche ora oppure il catamarano più veloce, entrambi attraccano al porto di Aberdeen. Alle 22:00 arriviamo allo Swiss Hotel, stanchi e affamati, mangiamo uno shawarma e poi a letto.

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Sabato, 19 aprile: bella colazione e partenza per le 9, sulla strada cambiamo i soldi, riempiendoci gli zainetti di carta banconota consunta e sporca. Oggi abbiamo il giro delle isole: Bunce Island e Tasso Island, quindi partiamo dallo stesso molo di ieri sera. Queste due isole stanno all’interno della grande baia quindi per arrivarci passiamo davanti a tutta Freetown, baracche, grosse navi cargo e un mare pieno di plastica, talvolta dobbiamo fermarci per rimuovere l’immondizia che si arrotola sull’elica.

Bunce Island è il primo sito di interesse storico della Sierra Leone e monumento nazionale del Paese. Gestita dal 1670 da due compagnie di commercio schiavista la "Gambia Adventures" e la "Royal Africa Company England" fino all'abolizione della schiavitù nel 1808. Era una delle 60 stazioni di commercio schiavista di tutta l'Africa occidentale, un luogo che conserva ancora oggi il ricordo di quelle malvage disumanità. Infatti trovandosi alla foce del fiume Roken intercettava tutte le barche negriere dell’interno, inoltre piccolissima era facilmente difendibile. Bunce Island contribuì in modo unico al commercio di schiavi. Nel 1700, quando la Carolina del Sud divenne uno degli stati più ricchi in America, la sua economia si basava in modo prevalente sulla coltivazione del riso. Al centro della strategia dei proprietari di piantagioni di riso in Carolina del Sud e nella vicina Georgia c'era l'insistenza nell'utilizzare schiavi che avessero competenze ed esperienza nella coltivazione del riso. I coltivatori di riso della Carolina del Sud e della Georgia iniziarono a preferire gli schiavi della regione che si estendeva dal Senegal fino alla Liberia, che era chiamata Rice Coast. Nel 2001 Judith Carney, una geografa dell'Università della California a Los Angeles, pubblicò Black Rice, spiegando i contributi degli africani della Rice Coast allo sviluppo dell'industria del riso in Carolina del Sud e Georgia. Alle aste di schiavi a Charlestown (ora Charleston), Carolina del Sud e Savannah, in Georgia, gli annunci di vendita di schiavi riportavano i nomi di Rice Coast, Sierra Leon e Bunce Island come garanzia dell'esperienza degli schiavi nella piantagione del riso. Infatti in South Carolina e Georgia ci sono molte comunità Gullah che conservano ancora le tradizioni culinarie della Sierra Leone e sono molto legate all'Africa. "Amazing Grace" uno degli inni più famosi della storia e più conosciuti al mondo fu composta da John Newton uno schiavista che aveva la base sull'isola di Bunce. Una volta abbandonato il suo infame lavoro divenne un devoto cristiano e compose l'inno. A differenza di Elmina in Ghana, Goree in Senegal, St.James in Gambia, Bunce ha un legame diretto con una comunità ben specifica di ex schiavi, cioè quelli della South Carolina. Oggi il sito è rimasto così com'era allora, non sono stati fatti interventi di ripristino ma si è preferito rispettare la struttura originale; infatti sono solo rovine avviluppate dalle radici degli alberi, 3 cannoni rimasti, il camino dove arroventavano il timbro della RAC, Royal Africa Company, e soprattutto la caverna nera, un buco nella roccia dove buttavano i puniti, ancora oggi infestato dai pipistrelli e sentirne il verso sinistro mi ha impressionato, poiché è sempre lo stesso da secoli. Dalla struttura del Fort, a qualche centinaio di metri nella foresta è rimasto il vecchio cimitero, lapidi spezzate, nomi quasi illeggibili consumati dai licheni, l’abbandono di un tempo che fu.

Dopo Bunce Island andiamo a Tasso Island, molto più grande e abitata, qua una comunità ecosostenibile locale gestisce dei lodge sul mare e un ristorante, tutto molto modesto e spartano. Mangiamo riso, cassava, pollo e pesce, poi relax in spiaggia per un’ora anche se il mare non è bellissimo, sotto ai piedi non c’è sabbia ma una fanghiglia vulcanica, quindi si affonda e l’acqua essendo mescolata a quella dolce del fiume è piuttosto torbida, sicuramente non invitante per fare un bagno.

Torniamo a Freetown alle 16:30, il ritorno in barca è stato più movimentato, il mare nel pomeriggio più mosso. Arriviamo in hotel alle 17:20, relax in camera e poi a cena alle 19:00. Stasera andiamo nel locale più famoso di Freetown, lo conoscono tutti: “GigiBontà”, ristorante e gelateria. Mangiamo spiedini di carne proprio sulla spiaggia, certo se la musica del locale a fianco fosse stata più bassa avremmo sicuramente goduto meglio della serata.

 

Domenica, 20 aprile: domenica di Pasqua, ho l’idea di una foto ad effetto con le uova mentre faccio colazione credendole sode, in realtà erano fresche e grazie al cameriere evito una potenziale gag! Comunque, si parte dallo Swiss Hotel dopo un’antipatica discussione con il personale reception, che pretendeva un pagamento nonostante avevo la fattura in mano già pagata, negavano l’evidenza.

Ci muoviamo alle 09.30 direzione leggermente verso l’interno da Freetown ma la morfologia del terreno non cambia, sempre un ripido saliscendi tra ripide colline, più simili a piccole montagne. Questa zona è completamente abitata da “Kriol” ex schiavi liberati nelle Americhe e riportati in Africa. Passiamo per Leicester, Regent e ci fermiamo a Charlotte: fondata nel 1817, il nome è in onore della principessa Charlotte del Galles figlio del Re Giorgio IV che morì improvvisamente durante il parto proprio quell'anno. Arriviamo che stanno celebrando la messa della domenica di Pasqua, entriamo in chiesa e all’improvviso potrei trovarmi nel sud degli Stati Uniti: vestiti eleganti e canti gospel, un’aria di giubilo e musica. Diventiamo noi l’attrazione per loro e passiamo una piacevole mezz’ora, poi passeggiata per le vie rosso sterrato del villaggio fino alle cascate, adesso in secca perché la stagione delle piogge sta per partire. A 10 minuti da Charlotte, dopo ripide salite (così ripide che gli ultimi 100 metri dobbiamo farli a piedi) arriviamo al “Tacugama” il santuario degli scimpanzé , pubblicizzato ovunque in Sierra Leone come una delle maggiori attrazioni turistiche del Paese. Il posto è molto bello, completamente immerso nella foresta, gli ecolodge sono costruiti sfalsati lungo un crinale e si raggiungono attraverso dei sentieri, alcuni sono degli appartamenti. Mangiamo cous cous con qualcosa di piccante e poi relax fino alle 16:00, per l’incontro con gli scimpanzé. Il “Tacugama” è un centro di recupero degli scimpanzé, quest’animale simbolo della Sierra Leone, si è ridotto del 90% negli ultimi 30 anni, diventando soprattutto vittima di bracconaggio e cibo per gli affamati durante la lunga guerra civile che ha devastato il Paese. Quindi vengono accolti scimpanzé rimasti orfani, feriti, oppure usati per gioco da piccoli e poi abbandonati, quindi sono tutti individui che hanno dell’uomo un pessimo ricordo, come giusto che sia. Quelli più giovani e tranquilli stanno in una specie di parco recintato con giochi, mentre quelli più adulti e aggressivi dietro le sbarre, e qui, più che uno zoo sembra di osservare pazienti di un ospedale psichiatrico, tanto la loro disperazione sembra umana, urla lancinanti, botte tra loro, mozzichi, e poi effusioni amorevoli. Nel complesso, seppur la missione del Tacugama a prima vista sembra nobile, a me ha lasciato un profondo senso di disgusto, le sbarre fanno sempre schifo.

Prima di cena, nel mezzo della foresta c’è uno spettacolo di danze e balli locali, giusto per passare una mezz’ora, poi mangiamo e molto presto, come al solito, a letto.

 

Lunedì, 21 aprile : risveglio nella foresta del Tacugama, dopo una notte tra il sogno delle formiche che mi risalivano sulle cosce e le urla delle scimmie fuori sugli alberi. E’ pasquetta, e la prima notizia della giornata è la morte di papa Francesco assieme all’arrivo dell’ultima valigia per Gloria, ci ho creduto, sapevo che sarebbe successo, perché in Africa l’impossibile accade sempre. Oggi torniamo a Freetown, a circa mezz’ora di pulmino e iniziamo con le visite del city tour. La prima è i vecchio college "old Fourah bay college" Il Fourah Bay College aprì nel 1827 come prima istituzione di istruzione superiore nell'Africa subsahariana moderna dopo il crollo di quella di Timbuktu. Fino alla seconda guerra mondiale, il Fourah Bay College offrì l'unica alternativa all'Europa e all'America per gli abitanti dell'Africa occidentale delle colonie britanniche che desideravano una laurea universitaria. Oggi è un rudere dove si distingue ancora lo stile vittoriano nella porta principale e all’interno sulle bifore in alto e una vecchia croce. Poi al museo della Ferrovia, questo decisamente più interattivo: dopo la chiusura delle linee ferroviarie nel 1975, alcuni volenterosi ferrovieri salvarono le locomotive dallo sfascio nascondendole in dei capannoni. Durante il periodo della guerra civile le stesse locomotive servirono da rifugio e case per le famiglie sierraleonesi. Dopo la pace nel 2002, in Sierra Leone arrivò un contingente di peacekeeping inglese, e tra questi c'era il colonnello Steve Davis appassionato di ferrovie che, saputa la notizia, volle ad ogni costo riesumare queste vecchie locomotive. Davis contattò il presidente Kabbah e in poco tempo in diretta tv fu dato l'annuncio del nuovo museo, subito si misero a lavoro soldati del battaglione di Davis ed ex Ferrovieri che ripulirono tutto. Il museo fu inaugurato nel 2005, e il pezzo più bello è la carrozza della regina Elisabetta II°, anche se non è mai salita a bordo. Fuori dal museo ci sono 4 insegne delle stazioni, e tra tutte, naturalmente mi colpisce quella di “Waterloo”, erano proprio quelli gli anni della gloria inglese dopo aver battuto Napoleone.

Segue la “Marron Church” fondata da giamaicani Maroon provenienti dalla Nova Scotia nel 1800, è una chiesa metodista tra le più antiche del Paese. (il termine "maroon" significa fuggiaschi, schiavi dallo spagnolo "cimarron" selvaggi), l’elemento più particolare è il soffitto, poiché fu costruito con il legno della nave che dalla Jamaica li portò qui. A 40 metri dalla chiesa c’è il “Cotton Tree” il confine da qui a Waterloo dei cosiddetti “20 miles” la terra che spettava agli afro americani lungo la costa: l'albero acquisì importanza quando nel 1792 ex soldati lealisti neri dopo la guerra di Indipendenza Americana, provenienti dalla Nova Scotia, fondarono Freetown. Già nel 1792 l'albero era già grande, tanto che il popolo Temne segnava il proprio territorio in base alla visibilità dell'albero da lontano. Questi ex schiavi provenienti dalla Nova Scotia si riunivano sotto il grande albero per ascoltare il sermone del reverendo Natalien Gilbert. Alto 70 metri e largo 15 divenne un vero e proprio simbolo e monumento di Freetown, secondo la leggenda il suo seme fu piantato da schiavi che ritornarono in patria e il seme se lo portarono dai Caraibi. L'albero è apparso su francobolli, banconote, oggetto di filastrocche per bambini, poesie, insomma il simbolo della continuità di un popolo, dal passato verso il futuro. L'albero è stato oggetto di numerose cure a dimostrazione dell'affetto che la popolazione nutre per esso, però la notte del 24 maggio 2023 un'alluvione ne portò via i 3/4 ma la restante parte rimasta ancora in piedi è comunque in buona salute! Ne raccolgo una foglia e me la porto gelosamente a casa. A 20 metri all’albero il Museo Nazionale, molto misero nel suo insieme, di esso ricorderò l'unica foto di Bai Bureh (1898) un capo musulmano locale, eroe della guerriglia contro gli inglesi. Davanti al museo, il monumento alla pace, che, a parte la guida che lo illustrava non me lo ricordo più. Pranziamo in un fast food di Freetown non proprio velocemente, poi direzione York al “Fabolous Village” al mare, ma prima di arrivare ci fermiamo in un mercatino dell’artigianato per turisti. Arriviamo all’hotel, a picco sul mare e ci accoglie un’atmosfera di festa, la piscina è invasa da bambini che giocano, il bar pieno di birre e musica alta, mentre sotto alla spiaggia non c’è nessuno, ed è lì che trascorriamo le ultime 2 ore prima del tramonto, un bagno meraviglioso e sole arancione. Cena con pesce naturalmente, la scelta era essenzialmente tra due: barracuda e red snapper.

 

Martedì, 22 aprile: partiamo presto da York, subito dopo colazione, e alle 08:00 siamo già tutti sul pulmino direzione Kenema dove arriviamo alle 13:15, sulla strada ci fermiamo a “Bo” e a “91 Miles” il paese della nostra guida Ousman, esattamente 91 miglia da Freetown. Kenema è la città dei diamanti ed è l’unica tappa di tutto il viaggio dove ci allontaniamo dalla costa; dove giri gli occhi uno store che vende diamanti, tutto gestito dai libanesi, che sono i veri podestà da queste parti, ognuno di essi ha una concessione di terreno da parte del governo, su di essa paga le tasse e ha il diritto allo sfruttamento del sottosuolo con manodopera locale sottopagata e gentilmente ma non direttamente schiavizzata. Sono concessioni tramandate di generazione, i padri, i nonni degli attuali erano coloro che sparavano e scannavano il primo “negro” che si permetteva di nascondere un diamante nell’ano. A noi tocca Mohamed, un libanese dagli occhi azzurri che è stato in Libano solo una settimana, è nato e cresciuto qui a Kenema, e porta con sé il proprio figlio, la sua fotocopia, affinché sia come lui. Innanzitutto ci mostra i diamanti e della polvere d’oro nel suo ufficio, ci spiega tutta la filiera e poi ci offre il pranzo, entriamo come ospiti nella sua casa, comunque molto gentili e affabili. Dopo il pranzo andiamo al villaggio all’interno della sua concessione di estrazione, mi colpisce perché l’ambiente, le foglie, i laghetti, le cave sembrano le stesse, identiche, del film “Blood Diamond”. Andiamo prima al villaggio, sotto il caldo infernale del primo pomeriggio africano, le donne e i ragazzi mettono in scena sotto ad una tettoia dei balli piuttosto frenetici con l’entrata di una maschera golì, ci intrattengono piacevolmente per una mezz’ora, poi andiamo alla cava dei diamanti. Sicuramente una delle esperienze più interessanti del viaggio: si parte innanzitutto dallo scavo, solitamente sul letto di un fiume o vicino, fino a trovare uno strato di ghiaia a granulometria grossolana che non interessa più, circa 3 o 4 metri di profondità. La terra estratta viene quindi lavata in un macchinario a motore che separa le pietre in funzione del peso, quindi il materiale rimasto è quello che effettivamente po' contenere il diamante, viene preso e setacciato nel fiume, come per magia il diamante si posiziona sempre al centro del setaccio, anche una piccola pietra grande come una zanzara viene ritrovata.

Torniamo a Kenema, andiamo in hotel e poi cena dallo “zozzone” della Sierra Leone, cioè un barbecue sulla strada con il retrobottega dove sedersi, che cuoce ottimi spiedini di manzo, e basta. Andiamo a letto che minaccia il temporale e infatti sarà una notte di acquazzone, si dorme meglio.

 

Mercoledì, 23 aprile: ci svegliamo con la pioviggine, colazione all’Hotel Paloma e partenza alle 08:30, prima di lasciare Kenema ci fermiamo alla moschea, bianca e blu, che sembra uscita da una cartolina di Santorini. Il viaggio verso la frontiera prosegue sotto un’incessante acquazzone, solo quando arriviamo nei pressi di Gonghu, l’ultimo centro abitato della Sierra Leone, smette. Il confine tra i due paesi è fluviale, c’è il fiume Mano che li divide e la terra di nessuno è costituita dal “Mano Bridge”. Le pratiche in Sierra Leone sono piuttosto veloci e controllano il certificato febbre gialla anche se stiamo uscendo, poi in Liberia dove ci accoglie la nuova guida, si chiama Dolo e assomiglia ad Ousmane che salutiamo. Anche in Liberia le pratiche di ingresso non sono così lunghe, il giusto della burocrazia africana, qualche piccolo intoppo, un funzionario che trascrive, un altro che interviene e tutto si risolve. Il problema invece è con il mezzo che ci è stato inviato per prenderci, un GMC Savana da 13 posti, più l’autista e naturalmente Dolo che non è stato considerato e tutti i nostri bagagli, evidentemente pensavano che saremmo arrivati con una bustina in mano, non so. Così, anche abbastanza celermente viene trovata una macchina, un taxi di supporto che si carica Dolo e tutti i nostri bagagli, direzione Robertsport finalmente. E’ un viaggio della speranza, perché ben presto lasciamo l’asfalto percorrendo una pista rossa, ma fortunatamente dura nemmeno due ore: ecco Robertsport la sua baia e il lago dal lato opposto, un villaggio di baracche di pescatori, e tutti noi siamo alla ricerca del “Sea Monkey Resort”, ma non vediamo nemmeno un’indicazione. Il nostro GMC supera Robertsport ed inizia ad inoltrarsi nella foresta, un saliscendi vorticoso nel fango ed ecco un’enorme gate in legno, con sbarra e sopra scritto Warkolor Jungle Lodge, non è il Sea Monkey. Quindi dopo le premesse del pulmino non ero affatto tranquillo sul nuovo lodge, anche perché la strada tutto faceva pensare tranne che al mare, sempre più stretta, fangosa tra gli alberi tropicali. Invece, dopo 20 minuti di percorso accidentato, tra dubbi e congetture, ipotesi e perplessità, ecco il Warkolor, un lodge meraviglioso sul mare, con la piscina a sfioro, le stanze sono chalet che danno direttamente sulla spiaggia, un luogo incantevole completamente fuori luogo a Robertsport in Liberia. Quindi l’incertezza diventa sorpresa, sorrisi e felicità di trovarci veramente in un angolo di paradiso, una spiaggia completamente selvaggia tutta per noi. Quindi relax, cena a bordo piscina ed una notte passata ad ascoltare le onde direttamente sul mio letto.

Giovedì, 24 aprile: oggi giornata intera al Warkolor, sinceramente se non fosse stato nuvoloso l’idea di rimanere in spiaggia era piuttosto suadente. Naturalmente i ritmi della giornata sono lenti, non abbiamo orari se non quello del pranzo. Andiamo a passeggiare a Robertsport che dal lodge sta a circa 30 minuti: il villaggio è diviso in due parti perché sorge su una lingua di terra affacciata sul mare da un lato e sul lago Piso dall’altro, nella zona marina ci sono le baracche dei pescatori che troviamo a stricare le reti verdi smeraldo, poi c’è il pesce ad essiccare e il vento dell’Atlantico. L’altra Robertsport invece è sul lago Piso, l’aria è più ferma, c’è un lungo viale con le case dell’epoca coloniale che segue il lungolago, mi piace di più Robertsport Marina. Ci fermiamo anche alle chiese, c’è quella cattolica con un’iscrizione bellissima sul frontone: San Giovanni Pescatore, poi quella Battista e quella Metodista, che in Liberia sono sempre l’una vicina all’altra. Pranzo al Warkolor, con gli hamburger divisi a metà e poi relax fino alle 16:00, l’ora dell’altra escursione. Andiamo al relitto “Tamaya 1” spiaggiato qui nel 2016, era una nave cinese che trasportava petrolio. Tamaya in linea d’aria è vicina al nostro lodge, la vediamo, e via spiaggia sarà a 20 minuti di cammino, però ci sono le rocce e l’alta marea, quindi dobbiamo aggirarla e passare attraverso un trekking nella foresta. Prima di lasciare il lodge ci fanno indossare stivali in gomma, io mi aspettavo sabbie mobili o almeno fango fino al ginocchio, ed invece è un semplicissimo trekking e gli stivali sono assolutamente inutili. Andare e tornare sono 2 ore, il relitto è un pezzo di ferro arrugginito ma è sempre affascinante pensare alla storia di quel naufragio, a quel giorno di tempesta in mare.

 

Venerdì, 25 aprile: la sveglia è poetica, come sempre dovrebbe essere: le onde del mare, e i pescatori tutti in fila che ritirano la rete sulla spiaggia, mi precipito in spiaggia e perdo quell’attimo di assoluta pace con me stesso, mi precipito a far foto e tutto sfuma, avrei dovuto contemplare e basta. Facciamo colazione, poi il manager del Warkolor ci regala una borraccia e partiamo, direzione Monrovia. I posti posteriori del GMC Savana sono pessimi, si sente tutto, ogni buca, quindi ci alterniamo. A soli 10 minuti da Robertsport sosta cambio gomme, non perché abbiamo forato ma perché la ruota si è proprio aperta, il bello è che quella di scorta è nelle stesse condizioni, per fortuna i pulmini sono due e prendono quella del secondo. Si riparte. Alle 12:30 arriviamo al villaggio di Bai T.Moore il più famoso scrittore liberiano, c’è la sua tomba, un mini museo nella sua casa e le copie di “Murder in the cassava patch” il suo libro più famoso che riprende il canovaccio di Romeo e Giulietta. Al villaggio mettono in scena una danza, molto frenetica, i bambini sono bravissimi.

Nel pomeriggio arriviamo alla periferia di Monrovia, all’Hotel Africa, o meglio allo scheletro di quello che era l’Hotel Africa. Essendo la Liberia la Repubblica più antica d’Africa, negli anni ’70, venne frequentata come esempio da molti leader africani delle neonate repubbliche e questo era il punto di incontro. Prima visitiamo la Sala delle Conferenze abbandonata da decenni, ci siamo noi e l’eco dei nostri passi, poi lo stesso Hotel, classico esempio di architettura brutalista, completamente sventrato al suo interno. E’ un luogo particolare, non posso dire che sia bello ma va apprezzato in funzione del suo passato: un hotel a 5 stelle, costruito con elementi moderni di architettura che ospitava leader da tutta l’Africa che facevano a gara a mostrare il loro oro. Sotto all’hotel i ragazzi giocavano a calcio, tutto molto tranquillo a parte il solito che pretendeva offerte per la comunità visto che siamo turisti e dobbiamo pagare per vedere l’hotel.

Direzione Monrovia, traffico intenso e arrivo al Murex Hotel alle 17:00, prima però ci fermiamo in agenzia per una foto ricordo tutti insieme al personale. Cena in hotel, molto buona con quantità enormi di “hummus” in quanto il ristorante è gestito da un druso libanese. Per me una giornata particolare, riesco finalmente a rasarmi a zero la testa, erano anni che volevo farlo e solo in Africa poteva succedere.

 

Sabato, 26 aprile: l’ultimo giorno in Liberia, sarebbe dovuto essere il più bello, con l’incontro a pochi passi con gli scimpanzé ed invece anche qui si dimostrano impreparati e molto ignoranti in materia turistica. Da Monrovia direzione Marshall verso sud, sul fiume Farmington dove su sei isole sono distribuiti 110 scimpanzé recuperati da situazioni difficili, premetto che lo scimpanzé per sua natura non nuota. L’ambiente è molto bello, sull’incrocio di 3 fiumi siamo in una zona di mangrovie, un ecosistema fluviale labirintico. Ci imbarchiamo sull’ennesima ed ultima barca del viaggio ma quando siamo a bordo ci comunicano che la marea è bassa, non possiamo avvicinarci troppo alle isole e gli scimpanzé al momento non si vedono. Allora, entriamo tra canali di mangrovie e arriviamo ad un molo in legno, ci fanno scendere e nel frattempo si scatena un temporale. Aspettiamo sotto alla tettoia e poi delle macchinette elettriche ci portano al Kokon Ecolodge, un altro luogo fantastico praticamente nel nulla. Non sapevo di questa visita, e prima di arrivare attraversiamo un campo aperto con delle fortificazioni americane della II° guerra mondiale, che poi erano quelle che mi furono mostrate in foto dall’agenzia prima di partire ma localizzate, secondo loro, a Robertsport. La sensazione generale è che sono talmente inesperti da non farlo nemmeno apposta, non sanno semplicemente dove vanno. Il Kokon ecolodge, che è parte della stessa catena di Warkolor è sul mare e li mangiamo o un pesce alla piastra o un fishburger, lodge sul mare, spiaggia bellissima, piscina, insomma qualcosa di incredibile per la Liberia. Alle 14:00 iniziano a mettere fretta, dobbiamo sbrigarci ad andare perché le scimmie ci stanno aspettando, tutti speranzosi ci alziamo al tavolo ma in realtà gli scimpanzé li vediamo da almeno 300 metri, c’è un guardiano che gli sta dando da mangiare e ci impreca contro, perché non possiamo avvicinarci. Quindi la nuova versione è che il governo della Liberia non vuole che i turisti si avvicinino, così diventa veramente difficile. Insomma questo equivoco rappresenta in sintesi un po' tutto il viaggio, dove l’imprevisto, sia positivo che negativo, è sempre pronto, basta saperlo.

Ultima visita del viaggio è la piantagione di gomma più grande al mondo, quella della Firestone ad Harber, praticamente attaccata all’aeroporto, poiché lo stesso ed unico aeroporto internazionale del Paese, fu costruito completamente a spese della Firestone. All’interno c’è un vero e proprio villaggio degli operai con le proprie famiglie, una chiesa, la scuola, il parco giochi, il supermercato e il mercato dove ci fermiamo noi. Anche qui, sarebbe interessante organizzare una dimostrazione su come viene estratta la gomma e a seguire tutta la filiera fino al pneumatico, un piccolo museo, uno shop, niente. Quindi all’Hotel Farmington, accanto all’aeroporto e ultima cena tutti insieme.

 

Domenica, 27 aprile: sveglia alle 02:45, alle 03:00 giù nella hall e andiamo in aeroporto con lo shuttle bus che in realtà potrebbe anche non servire, a piedi si fa prima. Voli regolari, prima per Casablanca e poi per Roma, Milano e Bologna.

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