Madagascar, la grande Ile
La grande isola, è Africa o non è Africa? È importante rispondere? Quando nel 1963 nacque ad Addis Abeba l’ “Organizzazione dell’Unità Africana (OUA)”, la proposta del Madagascar fu quella di aggiungere il proprio nome per distinguersi, non fu accolta e credo che da sempre si sia parlato di Madagascar e di Africa allo stesso modo: sicuramente la razza malgascia è diversa da quella “negroide” o “nilotica” o “bantù”, gli studiosi la fanno risalire a dei popoli della Micronesia che a bordo di piccole imbarcazioni, piano piano nei secoli e di isola in isola, siano arrivati fin qui. Anche la lingua malgascia è molto particolare, ha una sua propria onomatopeica e un suo modo di costruire un sostantivo, nei parchi non ci sono i celebri “big Five” ovvero i grandi animali che tutti si aspettano di vedere in Africa, tuttavia c’è molto altro.
1°GIORNO: notte disgraziata quella appena trascorsa all’aeroporto di Parigi, fuori c’è la neve, non ho trovato meglio che sdraiarmi a dormire in una nicchia davanti all’ufficio postale, non c’erano poltrone, non c’era nulla, ed ho sofferto un gran freddo. Parto al mattino con un airbus enorme, direttamente ad Antananarivo, l’aereo è mezzo vuoto, metà malgasci, qualche suora, qualche turista e qualche affarista. Arrivo ad Antananarivo alla mezzanotte, c’è una pioggerellina fittissima, l’aeroporto è modesto, c’è molto legno, il timbro che mettono sul passaporto invece è bello, rosso e verde. Sudo, mi sento tutto appiccicoso, davanti al nastro bagagli, ad aspettare e aspettare la mia valigia che non arriva, niente da fare ed è come se avessi avuto il presentimento da subito (scoprirò poi che è stato dovuto ad uno sciopero a Roma del personale Alitalia). Esco fuori e un autista qualsiasi mi porta in un albergo qualsiasi, mi butto sul letto senza nemmeno lavarmi.
2° GIORNO: c’è un sole che illumina tutta la stanza, riscalda giallissimo. Ignoro il nome dell’albergo, ignoro in quale parte di Antananarivo mi trovo, ignoro cosa devo fare e riprendo sonno finché squilla il telefono, è Bebè, il mio amico quaggiù, mi vesto al volo e lo raggiungo. Bebè mi darà importanti notizie sul suo paese, e diversi consigli sull’itinerario da seguire. Fuori c’è un caldo che toglie il respiro, così umido che sembra cotone bagnato in bocca, in cielo grossi nuvoloni verticali, telefono da un banchetto con un grosso ombrellone giallo, poi passeggio lungo un viale alberato che termina con un imponente costruzione, potrebbe essere il palazzo del governo o qualcosa di simile. Vecchi palazzi coloniali, lunghi porticati pieni di bancarelle che vendono cianfrusaglie di qualsiasi genere e mi compro qualche vestito: un paio di mutande acriliche cinesi, un paio di calzini di spugna, una maglietta, un dentifricio con spazzolino e un caricabatterie che non funzionerà. I visi malgasci sono mulatti, mai neri neri, lineamenti gentili e tra le donne se ne trovano anche di portamento elegante, anche se chiedono e chiedono continuamente di comprare. I nuvoloni neri sono ancora là all’orizzonte ma non scaricano, intanto non ho il bagaglio ma ho le tasche piene di banconote, 4 euro corrispondono al taglio più grande di 10.000 ariari. Ceno in un ristorante pakistano, il riso è buono e fluorescente, ma anche le pareti del locale hanno colori shockanti, arancio, verde, blu e giallo che insieme ai neon sul soffitto mi sembra di stare in un negozio di dischi. Le strade di Tanà sono buie, due taxisti chiacchierano seduti sul cofano di una macchina, “Bonsoir Amigo” , “Bonsoir”.
3° GIORNO: come in tutti i tropici il sole sorge sempre poco dopo le sei del mattino, bevo un aranciata e salgo su una vecchia auto cinese che puzza di gasolio e in circa 3 ore mi porta al “Parc National Mandiba” ad Andasibe dove mi affido a Step, una guida vestito di verde, in divisa, basso e giovane, la faccia nera e schiacciata, quando parla, quanda spiega, quando sorride, sembra molto buono. Durante la camminata di tre ore mi mostra la “ravinala” o palma del viaggiatore, un grosso insetto simile alla cicala, un gejko dai colori perfettamente mimetici, una rana che vive negli incavi degli alberi colmi d’acqua dove aspetta che il cibo venga da lei, un ragno granchio che ne riprende forme e colori e infine i lemuri. L’ “Indri Indri”, la specie di lemure più grande, mi offre un lungo spettacolo insieme ai suoi 3 o 4 amici, per minuti e minuti saltano, si muovono, si aggrappano sugli alberi e sui rami sopra la mia testa. La passeggiata prosegue, ogni tanto attraverso ponti in legno, piccoli ruscelli d’acqua, e soprattutto passo del tempo in zone d’ombra poiché stare al sole è veramente difficile e la mia pelle è ancora molto bianca, quasi cadaverica con tutta questa luce. Tornato ad Antanarivo passeggio sulla città alta, un dedalo di viuzze che terminano in cortili, vecchie mura intorno, cosa alquanto insolita per una città africana avere un centro pseudo - storico, costruito dai francesi un centinaio d’anni fa. Dopo un ottima cena su un ristorante balconato sulla piazza, mi coglie la pioggia, un violento temporale con tuoni e lampi, è tutto buio e nella corsa di ritorno all’albergo devo fare attenzione alle buche e voragini sull’asfalto malgascio.


4° GIORNO: prima di lasciare Tana e il suo caldo inquinato mi compro uno zaino cinese che inizia a rompersi da subito e un tagliaunghie, poi da un taxi mi faccio accompagnare alla stazione dei Taxi Brousse, ovvero i pulmini che trasportano tutto il Madagascar, da Nord a Sud. Questi pulmini partono quando sono pieni, il mio parte alle 10:48 e arriva ad Antsirabe alle 15:00, un intenso odore di pannocchie arrostite ci accompagna, faccio tutto il viaggio compresso in un sedile e prendo aria solo durante le soste, quando la gente che scende è subito sostituita da altrettanta, se non di più, che sale. Ad Antsirabe finisco nel primo albergo che trovo, e quasi subito inizia a piovere e presto torna il sereno. Passeggio fino al mercato e alla zona artigianale, un lungo stradone rosso, fangoso e pieno di pozzanghere: c’erano galli, vendevano frutta e verdura, qualche arrosticino, e di artigianato pochissime cose, tranne dei bei ricami su tovaglie di lino fatti da una nana, vecchia e secca. Mi fermo in una birreria, mentre fuori ha ripreso a piovere, ne prendo tre e ceno con pollo, verdure lesse ed una salsa piccante che mi ustiona il palato, torno in albergo con il
solito buio pesto dove si distinguono solo i lumini delle candele che accompagnano la scalinata di legno grigio e pesante che porta alla mia stanza.
5° GIORNO: Ieri non avevo fatto caso che sul pavimento c’è il parquet con le listarelle saltate e sotto sterrato: mi vesto, scendo a fare colazione e mentre fumo mi studio la situazione taxi brousse pronti a partire per Ambositra: c’è ne è uno dove mancano solo 3 passeggeri, ora 2. Salgo a bordo e butto lo zaino sul tetto, deve esserci qualche gallina e una mamma allatta il proprio cucciolo seduta accanto a me, speriamo che dopo non piange. Il paesaggio che scorre fuori è inaspettato: pinete, cascate, saliscendi, tornanti, risaie ovunque anche terrazzate. Arriviamo ad Ambositra alle 11:00, una piccola città agreste, polverosa dove tutti gli edifici sono in completa decadenza. Mi sistemo in albergo e mangio un bel mango, poi esco ma è più il tempo che mi fermo seduto nelle botteghe degli artigiani e dei venditori di cianfrusaglie piuttosto che quello che spendo a camminare, tanto è il caldo. Compro qualche regalo, per me prendo un anello in corno di zebù che ancora indosso. Quando ad Ambositra inizia a piovere la strada si trasforma in fiume di color ocra, provo lo stesso a prendere un pouss – pouss che mette un telo di plastica ma ho l’impressione di essermi bagnato di più.
6° GIORNO: parto presto da Ambositra, qua non c’era altro da fare. E lo “chauffeur” del Taxi brouss per Fianarantsoa mi recluta ancor prima di arrivare alla stazione, mi sistemo in un pulmino mezzo vuoto che dopo pochi km inizia a riempirsi così tanto che faccio tutto il viaggio guardando la giacca di qualcuno o una busta di mercanzie, in un tanfo incredibile a cui non ci si abitua. A metà strada l’omone che guida il pulmino fa perfino una deviazione per un mercato nel mezzo di una foresta dove non me lo sarei mai aspettato, arrivo a destinazione alle 12:30, stavolta mi sistemo in un albergo completamente cinese. Devo annotare che il Madagascar è praticamente una colonia cinese in una maniera spudorata. Qualche ora prima del tramonto vado a passeggio nella “città alta” dove troneggia in cima a tutto un imponente cattedrale e delle bambine tentano di vendermi delle cartoline, parlano un po’ di italiano perché studiano dai salesiani. Dalla Cattedrale salgo fino al belvedere, una bella parte della città, vie acciottolate, case in mattoncini rossi ed aiuole con i fiorellini viola. Come al solito si alza un vento forte che annuncia il temporale, nel frattempo conosco un italiano con cui vado a cena, mi racconta di aver vinto un cinghiale vivo in una lotteria e lo ha messo nell’orto, una storia bizzarra.
7° GIORNO: ho conosciuto Alain, un tipo che oggi mi accompagnerà con la sua auto al Parco Nazionale di Ranomofana, c’è un ora e mezza di strada e prima di entrare mi prendo una guida, di nome Nono, che mi accompagna nella foresta pluviale, non piove ma l’umidità è talmente alta che le gocce d’acqua ti cadono addosso dalle foglie. Camminiamo parecchio ma nessun lemure, dei funghi chiodini rossi, un grosso ragno, dei formicai, mantidi, e sanguisughe che mi camminano sul collo, sono piccole pronte a gonfiarsi di sangue. Nono mi mostra anche i “Fady” o tabù, essi non vanno indicati, sono pietre quasi fagocitate dalla foresta, che custodiscono i resti degli antenati. Nei saliscendi del sentiero si fatica non poco, è pieno di pietre umide e radici, accellero il passo per controllarmi dentro all’anfibio dove Nono mi aveva detto di fare attenzione: infatti in un punto di bellavista dove si apre la foresta mi controllo e sono piene di sangue, con due grossi vermi simili a lumache senza chiocciola che pompano e si gonfiano. Le stacco e mi rimangono diversi ematomi sui polpacci. Nel pomeriggio Alain mi riporta a Fianarantsoa dove non aspettavo altro che farmi una doccia lunghissima.


8° GIORNO: oggi altro spostamento in Taxi brouss, da Fianarantsoa a Ranohira, il paese più vicino e base di partenza per il parco nazionale dell’Isalo, anche stavolta ci pensa l’autista a reclutarmi per il viaggio, lo aiuto a caricare delle ceste di manghi e banane e mi concede il posto davanti, insieme a due bambini lui di 5 anni e la sorellina di 3, la mamma praticamente ce li affida con alcuni pacchetti di patatine da mangiare e un fazzoletto. Partiamo alle 09:00 e intorno alle 13:00 siamo a Ihosy per il pranzo, in una bettola molto sudicia anche per l’Africa, mangio del riso in bianco e un pezzo di carne cucinato con delle erbe, mangio insieme ad un mucchio di gatti secchi e menomati, ma svelti e pronti a beneficiare dei miei scarti di cibo. Arriviamo a Ranohira alle 15:40, dopo aver guardato per parecchie ore un altipiano, erba pascolata, mandrie di mucche, qualche alberello striminzito qua e là col tronco contorto dal vento. Il paese è piccolissimo e praticamente vive del turismo dell’Isalo, ci metto 5 minuti a conoscere una guida per il parco dell’Isalo, si chiama Hir e chiacchieriamo per tutto il pomeriggio anche se mi appiccica la paranoia delle zanzare e del pericolo di contrarre la malaria.
9° GIORNO: stamattina io e Hir siamo saliti su una vecchia Renault di un suo amico che ci ha portato vicino alla zona del parco, che non ha un entrata ma ci ha lasciato dove finisce la strada, prima di impantanarci nel fango e scendere a spingere per 2 o 3 volte. C’è subito da attraversare un fiume, facile per una mandria di zebù meno per noi perché sono costretto a togliere e rimettere l’anfibio nel fango, poi tante risaie e ho tanto peso di argilla bagnata addosso, dopo tutto ciò entriamo finalmente nel canyon delle scimmie, un luogo che esplode di rigogliosa vegetazione, la più svariata che si possa immaginare, e se provi ad alzare gli occhi nei pochi ritagli di cielo rimasti, ci sono i lemuri catta che saltano altissimi da un ramo all’altro. Torniamo per la stessa strada alla vecchia Renault che ci aspetta paziente, per trasportarci dall’altra parte del parco dell’Isalo, e deve fermarsi davanti ad un fiume in piena, che noi invece superiamo saltando di sasso in sasso. Camminiamo per campi di manioca e risaie; all’ora di pranzo Hir tira fuori due panini con frittata e cipolle, e tonno, pomodoro e sempre cipolle, molto morbidi e buoni; prima di arrivare alle piscine naturali Hir ci mostra diverse specie di piante come l’euforbia dell’Isalo, i baobab nani, scorpioni grandi sotto i sassi, e le tombe degli antenati. Qui vive la tribù Bara che seppellisce i propri cari in bare di legno o metallo, colorate, sotto a dei cumuli di pietra; dopo tre anni il cadavere viene riesumato e dallo scheletro sono tolte tutte le interiora e brandelli di pelle rimasti, viene lavato sul fiume, rivestito e fatto danzare per l’ultima volta nel mezzo della famiglia, per
essere poi nuovamente seppellito in sarcofagi deposti in un altro luogo. Dopo un bel sole, poco prima di arrivare alle piscine inizia a piovere, e si formano tanti ruscelli d’acqua che scendono, ma sono stanco e mi metto a dormire un poco, con tante mosche che disturbano. Sulla strada del ritorno Hir trova il tempo di mostrarmi un iguana in muta, un camaleonte laterale e uno scarafaggio gigante, quando ritorno in albergo ho le braccia e il collo bruciati dal sole e mi godo una bibita fresca al tramonto.


10° GIORNO: parto forse troppo presto, con il Taxi brouss, sono le 07:45, infatti giusto il tempo di allontanarsi da Ranohira che si nasconde dietro ai saliscendi della valle dell’Isalo, il pulmino fa un rumore sordo, si spegne per non ripartire più. Almeno per più di mezz’ora tentano di riparare il guasto, si infilano sotto, alzano il cofano finché non arriva un altro Taxi brouss, intrecciano le corde e ci traina fino ad Ilakaka, dove cambieremo il mezzo. Ilakaka è una baraccopoli, puzza, è nata nel 1998 quando dal sottosuolo sono spuntati fuori gli zaffiri, e oltre alle baracche, le uniche costruzioni in mattoni, con vetrate protette da sbarre e guardie armate, sono le gioiellerie dove vendono le pietre, gestite da indiani, cinesi ed europei. Partiamo ad Ilakaka alle 10:30 per un lungo viaggio, quasi senza sosta, fino a Tulear alle 15:00, per la prima volta per strada vedo delle donne che vendono pipistrelli fritti. Tulear sembra una città che è stata appena bombardata, crateri ovunque sulle strade, voragini di fogne, strade allagate, pezzi di palma sparsi ovunque, perfino conchiglie impiastrate nel fango e pouss pouss (carretti la cui locomozione è la corsa del conducente) che sembrano scivolare sull’acqua. E’ domenica, e nell’unico locale aperto mi bevo una birra e mi mangio un panino con il formaggio lungo una specie di spiaggia sporca. A cena vado in un ristorante italiano, dove il cuoco italiano mi prepara un ottimo piatto di fettucine ai frutti di mare, anche se il locale mi mette tristezza, è frequentato quasi esclusivamente da italiani che vengono giù a Tulear a godersi la pensione e le giovani malgasce.
11° GIORNO: oggi sarei dovuto partire per Anakao, ma non faccio in tempo perché i barconi partono presto, prima che il mare si ingrossi, ed io devo ancora comperarmi un costume e cambiare del denaro. Certo il mazzo puzzolente di Ariari appena cambiati diventa nauseabondo dentro le tasche dei miei pantaloni sudati, c’è un gran caldo. Quindi decido per andare lo stesso al mare, ad Ifaty che è sulla terra ferma e ci arrivo con un pick-up scoperchiato che fa su è giù sulla strada di sabbia. E’ un viaggi breve ma faticoso, siamo in 17 sul rimorchio, ed abbiamo il tettino
pieno di casse di aranciata e coca-cola, una bici, e delle borse: a metà strada circa sale un soldato in bermuda e infradito di gomma arancione con un vecchio Kalashnikov, col caricatore inserito lo muoveva con disinvoltura come se fosse una scopa tra le teste nere della sua fila, e subito, quasi, gli ordino di togliere il caricatore, c’era il colpo in canna, lui ha sorriso come niente fosse, sarebbe bastato un sobbalzo deciso del mezzo per farlo partire e non stavamo certo camminando in autostrada. Scendo a Manghili che è la “marina” di Ifaty, ci sono tutti bungalows sulla spiaggia e mi sistemo al “mora mora” gestito da un parà francese in pensione. Per qualche giorno starò in questa capanna sulla spiaggia e tra le palme. Finalmente mi mangio un bel pesce alla griglia con una birra, dopo mi metto a giocare a pallone sulla spiaggia con dei ragazzi malgasci. Il sole va e viene, poi se ne va del tutto al tramonto, la doccia non funziona e uso un rubinetto, per cena rimangio pesce per poi raggiungere dei ragazzi che cantano sulla spiaggia.
12° GIORNO: una dolce gazza si è messa a giocare fuori dalla mia capanna, svegliandomi proprio come avrei voluto, e colazione in spiaggia con il latte condensato, il miele e il burro col pane. Piove ma passeggio lo stesso in riva al mare, ci sono granchi che scavano grossi buchi, ricci di mare, conchiglie grandi come vulve, poi piano inizia tutto ad animarsi con i pescatori che tornano, le donne vendono miele fatto in casa, braccialetti e souvenir oppure fanno massaggi e a richiesta anche altro. Insieme a Bibì, un rasta conosciuto poco fa, vado a passeggiare nella foresta di Baobab che si trova alle spalle di Manghili. Un sentiero ocra accompagnato da file di sterpi eretti che fanno da recinzioni alle capanne di Ifaty porta a questo giardino dove si possono ammirare alberi bottiglia, baobab enormi, forme bizzarre ed inusuali della natura, che così e quaggiù, ha deciso di esprimersi. Il tempo ha iniziato a cambiare, è palese, si sente a pelle che nell’aria c’è forte instabilità e tensione, infatti vengo a sapere che c’è un ciclone che imperversa a Morondava, 500 km a nord, ma dicono che non arriverà anche se sembra di intuire la sua coda in quei nuvoloni verticali sul mare. La luce sta scomparendo, è quella dei generatori e devo per forza andarmene a dormire piuttosto che scrivere.


13° GIORNO: oggi il tempo è peggio di ieri, il ciclone sembra avvicinarsi anche se non è così, e in maglietta fa quasi freddo: bevo un cappuccino con quel laido maiale di Jean Claude, il parà francese, e passeggio, notando come qualsiasi zeppo piantato per terra riesca a germogliare e magari diventerà un albero. A metà mattina esce anche il sole per alcuni minuti e quando lo fa è
talmente forte che sembra ti stia dando uno schiaffo, ti manda subito a bere: osservando rami e foglie è facile vedere immobili camaleonti che ruotano i loro occhi l’uno indipendente dall’altro, cammino in mezzo a misere baracche, piene di galline e di apatia dove una vecchia pentola bruciata cuoce qualcosa sopra ad un fuoco. Vado anche in spiaggia, seppur il mio asciugamano che è sempre quello, inizi a puzzare di merda: il mare sembra latte caldo, il cielo ha una tinta celeste sbiadita, ho voglia di un ananas.


14° GIORNO: una luce abbacinante che stordisce, non ci sono più nuvole e gli occhi non riesco ad aprirli al sole: me ne sono accorto già di prima mattina quando sono uscito fuori dalla capanna a pisciare insieme agli uccellini che gioiosi cantavano la bella giornata. Ho preso la macchina fotografica: delle ragazzine che si mettono un giallo ocra sul viso, i bambini che giocano in acqua, le piroghe colme di reti ed il miele di baobab portato sulla teste. Ho una gran barba nera, quando sul bagnasciuga c’è un ragazzo che scioglie le reti da pesca e vicino a se ha delle forbici da barbiere, gli chiedo se è capace a tagliare la mia barba, e lui confessa spudoratamente di essere un barbiere, manco a farlo apposta, mi siedo sulla reti, sotto alle palme colme di cocchi, ed inizia a tagliarmi la barba, devo ammettere che sapeva usare le sue forbici. Dopo la barba, preparo il mio zaino e me ne ritorno a Tulear, c’è un fuoristrada che sta partendo, e mi accompagna per una cifra superiore al taxi brouss ma sicuramente più comoda. Oggi Tulear sembra più viva rispetto a domenica scorsa, è sempre la solita città scalcinata ma c’è più gente in giro: mi sistemo in un bell’albergo sul porto con terrazza sul mare e prenoto la barca per Anakao di domani. Finalmente mi faccio la doccia ed ho un asciugamano pulito e mi godo la vista di un tramonto all’orizzonte.


15° GIORNO: mentre faccio colazione osservo alcuni bambini su un carro trainato da zebù che si muove su uno sterminato bagnasciuga cosparso di alghe, proprio quel mezzo mi trasporterà fino al motoscafo che dalla riva nemmeno si vede, è lontano e al mattino presto c’è la secca. Sono l’unico passeggero per Anakao, che in realtà non è un isola ma si può raggiungere solo dal mare, il motoscafo naviga a ridosso della barriera lungo il canale di Mozambico, superiamo la baia di Sant Augustin e in due ore siamo a destinazione, davanti a noi la lingua di sabbia dell’isola di Nosy Ve. Anakao si guarda tutta insieme, è un piccolo villaggio di pescatori, con qualche bungalows per turisti tra le dune di sabbia, la vegetazione è solo bassa, sterpaglie e cactus spinosi, non ci sono alberi e di conseguenza non c’è ombra. Qui come in nessun altro posto di questo viaggio, ho l’impressione di essere solo, sperduto, lontano da qualsiasi luogo. Quaggiù, i bianchi vengono ancora chiamati “vasà” , un termine coloniale: bevo una birra THB in un atmosfera lenta, in tale posto esotico è come se la velocità non esiste, non c’è fretta per nulla. Un po’ d’ombra riesco a trovarla sotto lo scafo di una barca, ma dei bambini curiosi mi disturbano, vogliono giocare agli schizzi e ne butto uno per uno in acqua. Al tramonto passeggio per kilometri sulla spiaggia, trovo conchiglie grandi come scarpe, disseminate sulla spiaggia insieme alle alghe di una recente mareggiata, c’è anche un lemure con un collare rosso che salta giù da un bungalows, e quasi buio ma prima di andarsene la luce offre tutti i colori dell’iride in sequenza. Faccio la doccia con due secchi d’acqua, peccato che l’asciugamano che mi hanno dato sembra di nylon e non asciuga, vado a mangiarmi dei calamari alla piastra nell’unico posto possibile, il Safari Vezo, un ristorante gestito da francesi, e dopo mi fermo a leggere “l’insostenibile leggerezza dell’essere” sui divani. Intanto il guardiano della mia capanna, con la sua cagnetta Sololoka, si è fatto tutto il giro ed ha già spento tutti i lumini a petrolio.


16° GIORNO: svegliarsi tra le dune di sabbia, senza acqua corrente e senza bagno ma con tanti cactus: mi lavo direttamente in mare, e, alle 08:30 con Racitu e Rino (un bambino), partiamo in piroga per Nosy Ve, una lingua di sabbia a ridosso della barriera corallina. Si naviga sia a remi che a vela, e su di questa Racinu ha disegnato la sua faccia, la piroga è strettissima e scomoda per starci seduti, ma arriviamo piuttosto in fretta. A Nosy Ve assieme a noi c’è qualche gallina che fa capolino tra i cespugli radi e bassi, al sole fa caldissimo e mi distendo in acqua, nella secca, tra infiniti coralli bianchi. Per il pranzo i due ragazzi cucinano un aragosta e del pesce alla griglia, c’è una piccola ombra: mangiamo con le mani senza utensili e ci laviamo nel mare, mentre le galline si avvicinano e godono dei nostri scarti, alcuni chicchi di riso e delle code rimaste. Si sta alzando il vento e Racinu consiglia di andarsene presto, altrimenti il mare si farebbe troppo grosso per affrontarlo con una piroga, infatti la vela si gonfia e in pochi minuti siamo ad Anakao. Ozio tutto il pomeriggio, da un ombra all’altra, bevendo birra calda ogni tanto, osservo delle bimbe che solo per me, in quanto unico bianco turista, hanno allestito un banchetto con conchiglie e piroghe di legno, poi con il tempo sono loro ad osservare me che leggo il libro. Il sole è sceso ed è comparso, brillante come uno zaffiro, un pianeta, e tra un po’, si accenderanno tutti gli infiniti gioielli della via lattea sul cielo australe. Prima di andare a cena mi lavo con i secchi per togliere il sale di dosso, metto i pantaloni lunghi e vado a mangiarmi un calamaro alla griglia che divido con una gatta, e delle patate saltate all’aglio. Bevo una birra con il responsabile della compagnia vedette di Anakao e per domani mi assicura che arriverà il motoscafo a riprendermi, preferisco tornare ad Ifaty, qua c’è solo il mare e il caldo, senza ombra, solo al tramonto ho tregua.


17° GIORNO: oggi vado via da Anakao, questo luogo così lontano, anomalo e soprattutto lucente: la barca arriva alle 10:00 e scarica 4/5 turisti francesi, un rasta tiene il timone e tagliamo l’acqua che sembra olio, rimescolata e frullata dall’elica, è scura, ed onde lunghe accarezzano lo scafo davanti alla baia di Sant Augustin. Più si avvicina Tulear e più il cielo si riempe di nubi alte e filamentose, l’aria invece si fa più umida; anche stavolta vengono a prenderci con un carretto di zebù, e fanno la gara per caricare l’unico Vasà della giornata. Dalla spiaggia vado direttamente a cercarmi un taxi brouss per Ifaty, è di nuovo domenica e questo posto è un deserto abbandonato, ma non si parte prima delle 15:00 e passo il tempo su un piazzale assolato di terra rossa con alcuni uomini, da sempre stanchi, che come me, aspettano, ma forse non sanno nemmeno cosa, all’ombra di vecchie auto arrugginite, relitti di un'altra epoca. Alla fine preferisco salire su una vecchia Renault 4 che va ad Ifaty, puzza di benzina da stordire, più volte si ingolfa, si ferma, fa su e giù tra le dune di sabbia, e lo chauffeur ride, suda e la fa ripartire con un semplice contatto di fili. Stavolta a Manghili non vado dal francese ma mi sistemo in un albergo più economico, in muratura, quasi sulla spiaggia tanto che fuori della stanza ci sono delle conchiglie grandi, di quelle belle che si riportano a casa e rimangono nel salotto per decenni, ma con l’animale che ancora le abita.


18° GIORNO: La stanza ha i soffitti disegnati con scene marine, un delfino, pesci e squali, mentre nel giardino con le conchiglie animate ci sono anche quattro baobab: il mare è calmo, una tavola. Me ne vado con Babi, un rasta, che insieme ad altri due turisti mi porta in escursione alla barriera corallina: sotto di noi abbiamo il massiccio delle rose, così denominato, e lo vedo con lo snorkeling, poi ci sono enormi spugne che escono dal fondale, appunto come rose, e giganteschi ricci di mare. Tante sono le piroghe attorno a noi, andiamo a pranzare a riva, delle cicale di mare e del pesce cotte al volo in un tegame sulla baia di Ifaty, senza mettere olio ma acqua per fare il guazzetto, e la vela della piroga come coperta su cui sdraiarsi e dopo pranzo addormentarsi all’ombra di un misero ginepro. Il tramonto me lo godo nel mio giardino: osservo le farfalle, les papillons, che svolazzano a nugoli come moscerini, hanno i colori dell’azzurro, del giallo e del rosso, e in altrettante fantasie, invece, su una palma c’è un fringuello rosso infuocato che fa avanti e indietro con pezzi di cibo per i suo piccoli, nel nido. Poi appena il sole sta per andarsene, inizia il vigliacco tormento delle zanzare.
19° GIORNO: durante la notte nemmeno un alito di vento, ancora con gli occhi chiusi mi ritrovo in mare a fare il bagno ma l’acqua nella baia è così calda che ci sono pesci a galla boccheggianti e in serata saranno morti. Una tale calma afosa notturna, insopportabile, ha portato con se un cattivo presagio, che poi, durante il giorno ha preso forma e consistenza. Osservo dei bambini che mangiano una specie di cocchi piccolini, gialli e verdi, ne provo uno ma lega i denti come se fosse legno, stanno appesi su un albero simile alla magnolia: nel frattempo arriva Zelmira, una gran Mama che vende souvenir di legno e fa massaggi in spiaggia, non so come e perché, mi dice: “a Tulear, a Tulear, bang, bang, bang ! (mima il gesto con la mano), ne pas taxi brousse “ e poi ride, a lei non gliene importa granché, io invece mi preoccupo un po’: chiamo Bebé ad Antanarivo e mi conferma dei disordini, ma secondo lui la situazione rientrerà presto. Non ci penso, lungo la spiaggia incontro dei francesi che tornano dalla pesca, hanno preso un grosso pesce di almeno 30kg, la chiamano “Camargue”, e sono invitato, (pagando), ad assaggiarne il carpaccio al ristorante, ci accompagno 3 bicchieri di vino bianco che mi stordiscono così da farmi dormire per qualche ora all’ombra delle palme. Nel pomeriggio vado da un italiano che gestisce una pizzeria ad Ifaty, stava giocando a scacchi, e senza tanti preamboli mi dice che a Tulear c’è il coprifuoco dalle 6 di sera, in tutto il paese sono in atto disordini, contro il presidente dittatore Marc Ravolonoma. Mi consiglia di andare da “Chez Pauline”, qui devo chiedere di Papà Zaccaria, un francese che può aiutarmi per darmi un passaggio fino all’aeroporto di Tulear, se ha ancora benzina disponibile. Fa un po’ di telefonate e mi dice che domattina verrà a prendermi una Renault 4 rossa, alle 6 del mattino, davanti al mio albergo. Ho trovato il passaggio per l’aeroporto, domani dovrò trovare l’aereo per la capitale. Torno a cena dal pizzaiolo, sempre rassicurante, mi annuncia che per domani la capitale è stata dichiarata “Ville mort”, tutto è chiuso.
20° GIORNO: il villaggio di capanne appena fuori dal mio alberghetto si era appena svegliato, ancora gli ultimi chicchirichi dei galli, quando dalla strada polverosa è arrivata l’ R4 rossa, già è tanto, con me c’è un sudafricano di Durban. Tulear è ancora più sgangherata di qualche giorno fa, soldati in strada, ogni 500m un posto di blocco con tavolini, pezzi di legno, pietre, messe nel mezzo della carreggiata, ma ci lasciano arrivare tranquillamente in aeroporto. Qua alle 7 e mezza è ancora tutto chiuso, io devo cambiare il biglietto poiché sarei dovuto partire domani, e quando arrivano le hostess dell’Air Madagascar mi inseriscono nella loro lista d’attesa, prima partono
quelli con il biglietto per oggi, poi tutti gli altri. Con soddisfazione alle 11:40 il boeing rulla sulla pista e siamo in volo, dopo un ora atterra all’aeroporto “Ivato” di Antananarivo. La città sembra veramente una “Ville mort”, un taxi mi accompagna prima alla sede all’Air France dove tento di cambiare il biglietto di rientro a Roma, ma sono in overbooking, devo aspettare domani; poi mi riporta nello stesso albergo dei primi giorni e sulla strada mi mostra 6 o 7 supermercati d i proprietà del presidente: sono saccheggiati e parzialmente carbonizzati dal fuoco, interi capannoni diventati scheletri neri. E’ una città che vive ore surreali, ci sono soldati ad ogni angolo, tutto è chiuso e deserto. Mi informano che alle 18:30 scatta il coprifuoco, quindi ceno in anticipo, e mi chiudo in albergo.


21° GIORNO: gran parte della giornata l’ho trascorsa in albergo, mi ha preso una forte pigrizia accompagnata dalla stanchezza di un intero viaggio, ma perlomeno ho riaperto lo zaino, che nel frattempo era arrivato da Roma e Bebè aveva provveduto a lasciarmelo in albergo: così sono tornato pulito come in qualunque giorno in Italia e mi mangio un sacchetto di biscotti che mi ero portato, un po’ frantumati ma ancora buoni. Sono ritornato all’Air France per il cambio del volo ma ancora niente, mentre ho passato qualche ora al “Marché du Digues”, il mercato artigianale più grande del paese dove sembrava che non fosse accaduto nulla, qua compro qualcosa da riportare a casa e soprattutto tanta vaniglia. Vengo a sapere che domani il sindaco di Antananarivo, alle 10:00 del mattino, parlerà al popolo nell’Avenue de Independance, sembra che firmerà la nascita di un governo provvisorio poiché lui è anche il capo dell’opposizione e sobillatore di tutto questo.
22° GIORNO: partecipo pure io al discorso del sindaco, non che capisca le parole ma le immagini si: è stato montato un palco stile festa dell’Unità con alle spalle la foto di Franky, un ragazzo morto nei tumulti dell’altro giorno: quando le vittime diventano slogan elettorali. Non c’è nulla che faccia presagire violenza, non ci sono nemmeno soldati per strada ma tanta folla che riempe la piazza e resta in ascolto; tuttavia non va sottovalutato che 3 giorni prima, durante un comizio come questo, i soldati hanno sparato sulla folla uccidendo più di 100 persone. Dopo, all’Air France cambio pure il biglietto, parto domani con scalo all’isola di Mauritius.


23° GIORNO: il volo parte nel pomeriggio, e utilizzo la mattina per visitare la città alta di Antananarivo, fino al palazzo reale del Rova rivestito da impalcature dopo l’incendio del 1996: dall’alto c’è una bella veduta della città con il Lago Anosy nel mezzo, all’orizzonte solamente una leggera foschia scura da inquinamento. Poi il lungo viaggio del ritorno, per arrivare a Roma il giorno dopo.
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