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Niger, Gerewol ed Agadez

Fine anni 90’, mi capita tra le mani un libro di Bruce Chatwin, allora ancora andavo a scuola, e in copertina c’era la foto di un uomo del Gerewol, un trucco quasi alieno, quei denti bianchissimi, le orbite degli occhi bianchissime a contrasto con il giallo, il blu, il rosso, le piume, il nero. Non sapevo nulla, non utilizzavo internet per ricercare qualsiasi cosa, e quell’immagine rimase impressa nella memoria, per poi ripresentarsi qualche anno più tardi leggendo una rivista di viaggio: allora ho focalizzato, date, paese, dove, come….di anni poi ne sono passati altri 15 circa per realizzare il sogno, ma ci sono riuscito, ho visto il Gerewol, ho pianto di gioia vedendolo, e fino all’ultimo ho sofferto, imprevisti e malanni, disinformazione e terrorismo psicologico, scacciati via in pochi secondi dall’emozione di essere li, su quella mitica brousse di Abalak. Il viaggio non è stato solo il Gerewol, c’è stata Agadez la città del mio amico Mahamadou morto tragicamente nel 2011, la mitica Agadez porta del deserto con il suo minareto in banco, c’è stata Zinder la città con le orecchie di coniglio altra luogo mitico della mia immaginazione: un viaggio fondamentale per la mia crescita, dieci giorni veramente intimi con il Sahel.

Lunedì, 26 settembre: pochi minuti e l’Airbus Air France andrà giù, sotto c’è il Sahel bagnato, parecchie pozze d’acqua, tanto ocra e tanto verde, eccolo l’aeroporto di Niamey, uno dei pochi d’Africa che ancora non conosce la modernità: è rimasto allo stile degli anni ’50, quelle immagini patinate delle riviste come “Epoca”, con i reportage di Bonatti, l’Africa dei viaggi di Moravia e Pasolini, l’Africa delle prime indipendenze, un continente che sembrava risvegliarsi, un continente in pace. Non solo l’aeroporto, Niamey è tutta così, una vecchia capitale africana, a tratti bella, veramente bella quando rimane se stessa, come tutte le altre quando è tentata dal nuovo, brutta, sporca e caotica. Ci fermiamo all’hotel du Sahel, proprio sulla sponda del fiume Niger, il grande fiume, finalmente posso bagnare le mie labbra con la sua acqua limacciosa. Prima del tramonto, un giro in piroga, l’acqua è placida seppur il fiume è in piena, le rive sono tutte allegate, innumerevoli i bambini e le donne che vivono sul fiume, vivono della sua acqua. Ceniamo in hotel con brochette e patatine fritte, una cena bruscamente interrotta da una telefonata, una telefonata del console italiano a Niamey, il quale informato dalla Farnesina del nostro viaggio, mi sconsigliava categoricamente qualsiasi viaggio soprattutto nel nord del Paese, mi diceva che il gerewol è finito proprio oggi, mentendo faceva finta di non conoscere la mia guida, insomma un vero e proprio terrorismo psicologico. La Farnesina ci ha rintracciato perché alcuni di noi si sono registrati sul sito “Viaggiare sicuri”, ma la stessa si è permessa di chiamare a casa uno dei parenti, quei contatti che si lasciano sul sito in caso di emergenza, incitandolo a fermare il viaggio a sua nipote. Allora, premesso che quei contatti, vanno chiamati solo in caso di emergenza vera: morte, feriti, arresti,

non per bloccare un viaggio, solo perché tu Ministero degli Esteri hai paura di incorrere in qualsiasi tipo di problema, perché sei fatto da persone incompetenti che probabilmente in Africa non hanno mai messo piede, perché hai paura del turismo d’avventura. Per non parlare poi del Console italiano, il quale ha mentito spudoratamente, dimostrandosi male informato sul Niger. Tutto ciò, mi sembra grottesco, quasi comico a distanza di mesi: quella sera mi ha tramortito, mille supposizioni mi hanno assalito nella notte, il primo giorno d’Africa e già una situazione simile, una situazione di paura e sospetto.

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Martedì, 27 settembre: la luce del giorno, il risveglio, porta ottimismo. Colazione alle 06:30, Mahaman la nostra guida, si presenta con qualche minuto di ritardo poiché Nimaey è stata bloccata per il passaggio del corteo presidenziale verso l’aeroporto. Lasciamo la capitale ancora con tanto colore ocra nella sua architettura per Dosso, dove ho l’appuntamento con Padre David, un religioso che ho già contattato dall’Italia per portargli un po’ di vestiti e medicine per i bambini del suo orfanatrofio: anche lui ci infonde pessimismo, rimane stupito che andiamo a nord, lui non c’è mai stato, ha paura, ci sono bande che rapiscono e uccidono. Non so più cosa pensare, prima il console poi questo qua che vive qua da anni senza mai spostarsi dalla linea Dosso-Niamey però, si va avanti comunque, basta, ma quanta apprensione per me e per tutto il gruppo.

Sosta pranzo a Dogondoutchi, nel patio di un ristorante seppur mangiamo tutti con le nostre cose, c’è del salame slovacco o del formaggio austriaco, infatti qua incontriamo il resto del gruppo: una tedesca, un’americana, nove austriaci, sei slovacchi, in tutto 26 europei a rischio rapimento nel cuore del Niger Saheliano! Sembra tutto un po’ assurdo e vedendo così tanta gente, ognuno di noi è più tranquillo. Riprendiamo la strada, iniziano anche i primi villaggi haussa, alcuni grandi e belli, facciamo rifornimento a Birni Konni e finalmente ci stacchiamo dal confine con la Nigeria per puntare verso nord, per iniziare a salire, lassù dove ci aspettano terribili predoni! Durante la sosta, in un altro villaggio Haussa dai bellissimi granai, ci coglie un terribile acquazzone, dura poco, però l’aria adesso è caldissima, afosa, malarica in una sola parola!. La nostra lunga carovana di pick-up arriva a Tahoua che è quasi buio, dormiamo all’hotel Terkan e cena con pollo e piselli, prima di andare a letto mi guardo la partita di Champions in TV, c’è Borussia – Real.

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Mercoledì, 28 settembre: la giornata comincia male per me, avrei dovuto intuirlo, sudo troppo, ho poca voglia, gli eventi mi girano attorno e lascio fare. Mahaman impiega un po’ a trovare la scorta e si parte dall’albergo di Tahoua verso le nove, proseguiamo verso Abalak, a nord-est, siamo una carovana scomposta di pick-up, forse 10. All’ingresso di Abalak una jeep inizia fumare dal cofano, un piccolo problema risolto in fretta. Fuori Abalak ci fermiamo tutti insieme per il pranzo, saremo 50 persone circa, e qui mangio pochissimo, qualche pomodoro, peperone e cetriolo che vomiterò qualche ora dopo. Siamo tutti dentro una stanza, qualcuno fuori sui materassi, intanto arriva anche il capo tribù dei Peul, alto e possente con una grossa tunica bianca, praticamente colui che organizza il Gerewol. Stringo mani, qualcuno cerca di parlarmi, ma non riesco a stare in piedi, ho caldo, mi sdraio sugli stoini, voglio ripartire ma sono conscio che non sopporterò l’arica condizionata. Al nostro convoglio si aggiunge un pick-up armato di mitragliatrice sul rimorchio e si parte per la brousse di Abalak. Durante il tragitto, tutto sterrato, mi muovo troppo, non trovo posizione e sudo. Nel frattempo il paesaggio cambia, acacie sempre più rade e qua e là un po’ di sabbia, alle 16:00 circa siamo nel luogo del Gerewol, oggi però non riuscirò vederlo, come scendo dalla macchina faccio giusto in tempo a montare la tenda, poi crollo con i crampi allo stomaco. Sono disteso ad osservare il cielo d’Africa, qualche uccello, nubi sparse che si muovono velocemente. Ho sempre più caldo, bevo tanto, non aspetto altro che il sole vada giù, quando lo fa, mi addormento per un’ora con le nenie che vengono dal Gerewol e continuano fino a tarda notte. Al risveglio sto molto meglio, mi alzo e mi metto a tavolo con gli altri, si chiacchera e riesco perfino a lavarmi sul catino. Non ho mangiato nulla, e dal Gerewol ancora canti e canti, è la festa della fertilità, i Peul si accoppiano in più rapporti, anche multipli, ed io scrivo in tenda.

 

Giovedì, 29 settembre: Intera giornata passata al Gerewol che viene celebrato in una brousse accanto ad una palude, luogo salutare per le zanzare, le nostre tende sono piantate a pochi metri. La prima parte della giornata la passiamo sotto l’ombra di un grande albero, anche perché al mattino e nel primo pomeriggio i Peul si truccano e si preparano, iniziano a ballare e cantare un’ora prima del tramonto, verso le 17:30. La mattinata è abbastanza ventosa e perlomeno muove l’aria, passeggiamo subito dopo la colazione presso le misere tende dei pastori nomadi Peul, ci sono solo donne e bambini, qualche uomo gioca con i cammelli e altri iniziano a truccarsi grattando con il coltello un sasso giallo, quella polverina ssarà la base del loro trucco. Ma cos’è il Gerewol? Riporto ciò che ho scritto sul mio sito web: <

bene, affascina. Lungo le rotte che attraversano città quali Zinder, Agadez, Niamey, Arlit, Bilma s’incontrano tanti popoli. Tra le più antiche e misteriose etnie del Niger vi è quella degli Wodaabe. Si tratta di genti seminomadi appartenenti alla più ampia etnia dei Peul o Fulbe, contraddistinti da specifici elementi che li differenziano sia dai Tuareg, sia dagli Hausa, così come dagli altri gruppi che vivono nel Sahel. Il loro nome, Wodaabe, significherebbe “gli scacciati”, una denominazione originatesi, secondo alcune fonti, dal loro rifiuto di partecipare alla Jihad – la guerra santa – dei seguaci di Usman Dan Fodio, musulmano, guida spirituale e militare cui si deve la fondazione dell’emirato Sokoto. I Wodaabe, chiamati anche Bororo, hanno invece rifiutato la conversione alla religione musulmana, preferendo rimanere legati all’antico culto degli antenati. Secondo altre fonti, il nome Wodaabe significa “popolo che segue la retta via”. Questo gruppo non ha subito l’influenza islamica, come testimoniano non solo le loro credenze spirituali, ma anche l’abbigliamento da loro usato, rigorosamente di pelli animali per rimarcare le proprie radici tribali. Questa forte identità si esprime totalmente durante la celebrazione Gerewol che, di generazione in generazione, per millenni, scandisce l’essenza Wodaabe. Ogni anno in settembre, sin da un’epoca che si perde nella notte dei tempi, viene organizzato il Gerewol, evento che conserva un importante valore etnografico. Chi assiste a questa festa ritorna a un’epoca arcaica, quando ancora erano minime o del tutto assenti le influenze culturali esterne nella terra oggi conosciuta col nome di Niger. Il Gerewol è l’incontro dei popoli nomadi, è l’occasione ideale per celebrare nascite, per trovare moglie, per ricevere notizie. Per sapere dove e quando questa festa sarà organizzata si fa tappa nella cittadina di Abalak, punto d’incontro delle genti del Sahel, che si scambiano informazioni legate ai ritmi e ai cambiamenti che avvengono nelle grandi distese di savana. Abalak, distante da Tahoua 135 chilometri, è quindi il luogo ideale per ottenere le indicazioni aggiornate sul Gerewol. Per assistervi è necessario inoltrarsi lungo piste sabbiose, varcando luoghi selvaggi per poi giungere nel grande anfiteatro naturale dove la festa si svolgerà.Ciò che più affascina sono i volti dei Wodaabe, che per l’occasione, vengono colorati di rosso e di ocra. È proprio la fase del trucco, nonché l’accurata preparazione dei costumi a trasformare questo evento in una festa “della bellezza”. Una festa scandita da antiche danze (la più nota è chiamata Yaake) e da un gioco di sguardi unico, che esprime una particolare concezione di grazia e fascino maschile. I canoni di bellezza denotano particolari elementi: per esempio, l’altezza media dei giovani uomini non scende mai al di sotto di 180 cm; il viso ha proporzioni simmetriche, di forma ovale, con un naso (tendenzialmente) aquilino. Questi alcuni tratti estetici generali, ma nascondono però atavici simbolismi. Il tutto è predisposto per far si che gli uomini si sfidino nel corteggiamento delle donne più belle delle tribù, utilizzando come arma semplicemente il loro volto, che deve essere il più intenso possibile. Il tutto è scandito da danze, dal suono dei gioielli che danzano seguendo il ritmo dei Wodaabe, e poi dai colori intensi dei vestiti ornati di piume. Guardando i volti degli uomini danzanti si osservano i loro occhi roteare come in una specie di trance; si notano poi i loro sorrisi, ampi e luminosi per la dentatura di un bianco candido. I gruppi di giovani Wodaabe ripropongono antichi canti e movenze che appartengono ad un ancestrale passato. Questi elementi trasformano il Gerewol in un grande evento di rilevanza etnografica e culturale, che può durare per giorni e giorni, fino a quando le genti del deserto di nuovo ritorneranno a percorrere le terre aride del Niger. Da segnalare il documentario di Werner Herzog, "Herdsmen of the Sun">>. Su https://www.ospitiinafrica.com/feste-ed-eventi .

Dopo le 10:00 del mattino non è possibile stare al sole, troppo caldo e bisogna rifugiarsi sotto al grande albero, dove si legge, si parla, si mangia e costantemente si contratta un prezzo qualsiasi per un oggetto qualsiasi che un Peul tenta di vendere: una spada, un pugnale, un borsello, un fermacapelli, un pettine, mentre loro sono avidi di specchi per guardarsi e truccarsi. I Peul Wodaabe sono un popolo estremamente vanitoso.

Dopo aver pranzato con affettati e insalate dormo, mi sveglio e passo al campo slovacco, rido e bevo un po’ di gin con loro, il più ciccione dei 6 arriverà a sera completamente ubriaco, e non posso dimenticare il momento in cui si è messo in testa di tagliare il lardo, grasso ovunque.

Alle 17:30 inizia il Gerewol, pochi istanti e la felicità mi commuove, resto lì, fermo a guardarli e basta: mentre i fotografi fanno a gara a chi riesce a mettergli il teleobiettivo più vicino, il turista è veramente brutto da vedere, più passano i viaggi e più diminuiscono le foto e più mi vergogno per loro. Pazienza, il Gerewol è una cosa mia, era uno dei sogni d’Africa e l’ho realizzato. A cena una pasta col sugo, il lardo tagliato finemente da quelle dolci manine e agnello in brodo. Prima di andare a letto Mahaman mi racconta un po’ della sua vita, da quella sera diventiamo amici. Torno in tenda a scrivere, stasera le nenie sono più incalzanti e meno malinconiche, non so a che ora smettono, a mezzanotte le ascoltavo ancora.

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Venerdì, 30 settembre: ancora Gerewol, ancora sotto al grande albero per tutte le ore calde della giornata, sono state sicuramente ore calde e noiose rinfrancate dalla meraviglia di questa festa, aspettata per la sera. Oggi la variante è stata la corsa dei cammelli prima e quella dei cavalli poi subito dopo colazione, peccato che sia gli uni che gli altri sono arrivati al traguardo uno ad uno, o

al massimo in due togliendo l’arrivo adrenalinico, forse perché partono da troppo lontano. Al Gerewol invece sono cambiati i costumi: con sfondo bianco, a petto nudo e truccati principalmente con il rosso. A Cena ancora un’ottimo agnello, sia le costolette e sia lo spezzatino con il riso. Oltre ai Peul, alla festa fanno da contorno alcuni commercianti libici che vendono pasta, riso, sigarette e sapone, anche loro nomadi sono venuti quaggiù per guadagnare pochi CFA dagli altrettanto poveri protagonisti del Gerewol, vecchie storie di carovane transahariane.

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Sabato, 1 ottobre: “Ciao Mahamadou, eccomi qua, nella tua mitica Agadés, ho impiegato 6 anni ma ci sono arrivato!” dal mio diario, è stata la chiusura di un cerchio.

Stamattina abbiamo lasciato la brousse del Gerewol alle 9, i Peul hanno disperatamente provato a vendere le ultime spade, gli ultimi tessuti, poi ad arrivare ad Abalak abbiamo impiegato un’ora e mezza. Del Gerewol ho già scritto a lungo, bisogna solo fare attenzione a non confonderlo con la “Cure Salée” che si svolge a In Gall, a metà strada tra Abalak ed Agadés, che è una sorta di Gerewol istituzionalizzato, infatti la politica ha tentato di confinare la festa dentro precise date e schemi per uno sfruttamento turistico e propagandistico dell’evento, ma i Peul non hanno mai accolto l’invito. Quindi a In Gall si svolge una cerimonia di apertura che da inizio al Gerewol, a questo forse si riferiva l’impreparato console italiano.

Sostiamo per circa un’ora ad Abalak per far rifornimento e gonfiare le gomme poiché da qua si torna sull’asfalto. Sosta pranzo sotto a grandi acacie, con pasta fredda e alici con il formaggino. Lungo la strada ci fermiamo diverse volte, in un punto imprecisato c’è anche un albero pietrificato, e poco prima delle 18 siamo finalmente ad Agadés: niente di bello per il momento, tanta foschia che impedisce di vedere l’orizzonte e una periferia piena di immondizia, alberi smagriti che hanno sostituito alle foglie i sacchetti neri rimasti impigliati. Riempiamo l’hotel con tutto il nostro gruppo, è in banco, in perfetto stile sudanese: tuttavia l’acqua corrente non c’è e la doccia va fatta lo stesso con i secchi, inoltre le camere seppur provviste di ventilatore sopra i letti sono caldissime. Però hanno la birra fresca, una bella “Biere Niger” insieme ai fichi calabresi con peperoncino e rhum che ha portato Enzo, quasi completamente squagliati. Compro un pacchetto di sigarette Craven e cena al ristorante “Le Pillier”, il migliore in assoluto di Agadés, mangio un bel trancio di pesce Capitain e un gelato alla vaniglia.

Domenica, 2 ottobre: la prima notte ad Agadés, la notte più insonne d’Africa: straziato dal caldo opprimente, cupo, che toglie il respiro dentro alla stanza, con la moquette in terra e il banco alle pareti, ogni 4 secondi la carezza del ventilatore che mi dava l’aria. Dopo la sospirata colazione, praticamente aspettata per tutta la notte, la visita alla città di Agadés, una calda e lunga passeggiata. Iniziamo con il vecchio quartiere, con la casa dove visse l’esploratore tedesco Heinrich Barth nel 1850, il primo europeo a mettere piedi qui. Poi una lenta passeggiata tra le vie e le case ocra, alcune molto belle ma c’è anche molto abbandono, commovente l’incontro con un indigeno che quasi benediceva il cielo per aver rivisto nuovamente dei turisti, dopo tanti anni. Arriviamo al ristorante “Le Pillier”, attraversiamo la strada principale, c’è una libreria, e voilà il grande minareto, il celebre minareto, maestoso: proprio oggi, purtroppo o per sfortuna stanno lavorando al “crepissagé”, quindi non si può salire in cima. Accanto al minareto c’è la casa del sultano di Agadés che non si può visitare, mentre dalla parte opposta alcune botteghe di artigiani che vendono principalmente croci tuareg e denti fossili di dinosauri. Torniamo a pranzo in albergo, insalata bella croccante, sgombro e formaggio, poi riesco anche a dormire su una stuoia all’ombra, almeno un’ora di riposo dopo la nottata, e infatti, vado a montarmi la tenda nel terrazzo sopra la stanza, mai più una notte così.

Tra le varie coincidenze fortunose che l’Africa di solito mi offre, per oggi mi ha organizzato l’apertura della festa del Bianu, il primo giorno del calendario musulmano, che si concluderà il 12 ottobre con l’entrata in Agadés di tutte le tribù tuareg a cavallo o cammello, vestiti con gli abiti migliori. Oggi invece, assistiamo ad una specie di sfilata carnevalesca all’africana, disordinata, numerosa e naturalmente molto rumorosa, tamburi, urla, fischietti: non ci sono maschere, qualcuno abbozza un travestimento, bastoni branditi e manichini, tanto chiasso e tanta gente che invade completamente le vie della città vecchia, sollevando moltissima polvere. Si fa quasi buio e si torna a cena a “Le Pillier”, con una bella bottiglia di vino bianco fresco, e poi a dormire in tenda sul terrazzo, meraviglioso.

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Lunedì, 3 ottobre: oggi si ritorna a sud, partenza da Agadés alle 07.15 e arrivo a Zinder alle 16:00. Dopo appena un’ora di viaggio ci fermiamo alla porta del Ténéré di Tiguidit: un gran fungo e un arco molto stretto fanno da guardiani al deserto dei deserti. Poi un lungo viaggio, un panino con omelette e peperoni mangiato per strada, qualche pedante posto di blocco, una sosta al mercato degli animali di Tanout, caldo, puzzolente e confuso e finalmente Zinder, la capitale del sultanato

Haussa del Damaragan. Aspettiamo qualche minuto fuori dal palazzo del sultano, perché a Zinder, non si muove foglia se il sultano non voglia, e siamo cordialmente ricevuti da un suo prolisso notabile che prima ci racconta un po’ di storia, poi ci mostra il palazzo e tutto ciò che il suo Signore sta facendo per i sudditi, e infine ci introduce nel salone kitsch dal Sultano. Foto di rito, qualche scambio di opinioni e veniamo a conoscenza che è amico del sindaco di Palermo Orlando, usciamo dalla sala piena di lampadari, luci strobo, specchi, divani, televisori tutti di sospetta provenienza cinese. Poi sempre lo stesso notabile, ci accompagna per una bellissima passeggiata nella città vecchia di Zinder dove le “case haussa dalle orecchie di coniglio” abbondano, alcune ben restaurate, altre un po’ decrepite. Tantissimi bambini, alcuni li troviamo a studiare in una scuola coranica, anche qua c’è la targa che testimonia il passaggio dell’esploratore Barth e la visita termina con l’ex mercato degli schiavi. Nel complesso un luogo aspettato per anni, anelato, che non mi ha deluso, confermando tutte le meravigliose aspettative che avevo.

Conclusione della giornata con la cena all’hotel General, l’unico, dove dormiamo e dove si può mangiare, pre-ordinando 3 ore prima dalla Gran Mama: ci serve un pollo e cous cous su tovaglie di raso a motivi cinesi, fiori finti e la Birra du Niger. Anche stanotte dormo in tenda, poiché l’albergo aveva a disposizione solo 9 posti letto, ne mancava uno per fortuna, allora ho montato la tenda e dormito benissimo nel cortile.

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Martedi 4 ottobre: altro lunghissimo viaggio di trasferimento, da Zinder a Birni N’Konni, dove dormiamo, e purtroppo stavolta in albergo. Oggi è tornato la pioggia, siamo scesi a sud, la sabbia del Sahara è più lontana e arrivano gli acquazzoni tropicali, caldo umido e zanzare, e la strada ha costeggiato praticamente tutto il confine con la Nigeria, verso ovest. Ci fermiamo diverse volte, per visitare alcuni piccoli villaggi di campagna, poche capanne, di solito un granaio, le donne che pestano il miglio, tanti bambini: voglio ricordare uno di questi, avrà avuto non più di due anni, da quando ci ha visto ha messo le mani davanti agli occhi e non le ha più tolte, e siamo stati lì una trentina di minuti! Buffo e innocente. Ci fermiamo a Maradì per cercare un bancomat, una città abbastanza grande, caotica, un posto di frontiera sicuramente da evitare. Riprendiamo la marcia, sosta poco fuori da Maradì per mangiare una baguette con la giardiniera, pessima. Poi un altro villaggio con delle capanne rialzate dal terreno per essiccare le cipolle, e infine l’ultimo poco prima di Birni, tutti questi villaggi sono dell’etnia Haussa. Birni N’Konni è un altro posto di passaggio, per

camionisti, usciamo dall’albergo giusto per acquistare le birre che vendono dall’altro lato della strada, poiché dove stiamo noi sono musulmani osservanti e ne vietano la vendita.

 

Mercoledì, 5 ottobre: oggi partiamo, non solo da Birni N’Konni, ma anche dal Niger. Alle otto siamo già sulle jeep, sostiamo a Dosso per far rifornimento e comprare bibite fresche, lo stesso paese del primo giorno di viaggio dove vive quel povero prete impaurito dall’umanità. Poco prima di Niamey, all’ora di pranzo, all’ora più calda della giornata, ci fermiamo al parco delle giraffe di Kouré, sembra che sia molto difficile avvistarle ma ci proviamo. Intanto, prima di entrare mangiamo i panini del pranzo sotto la grande capanna della reception del parco, lì vendono pure qualche maglietta impolverata. Poi con le jeep iniziamo questo piccolo safari, qualche minuto, ed eccole là, 4/5, viste da vicinissimo, scendiamo e quasi riusciamo ad accarezzarle. Ora l’ultima attrazione del viaggio, il museo di Niamey se non altro perché espone il mitico albero del Ténéré: noi visitiamo il padiglione che ospita i costumi delle varie etnie nigerine, un altro padiglione che espone monete, armi ed animali impagliati, poi c’è la parte zoologica, dove i poveri leoni ed ippopotami vivono in condizione estremamente precarie, brutti da vedere e infine gli scheletri ricomposti di 3 dinosauri, di cui uno enorme, provenienti da Gadoufaoua. Insomma, nonostante il caldo, la visita al museo mi ha soddisfatto. Poi torniamo nell’hotel del primo giorno, una doccia, riprendo i panni puliti che avevo lasciato, cena con spiedini e piselli e poi via in aeroporto. A parte i controlli estenuanti per prendere il volo, avranno aperto le borse almeno 4 volte, ci sono miliardi di cavallette attorno ai lampioni, così mi saluta il Niger.

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