Omo to Turkana

La valle dell’Omo e il lago Turkana, due luoghi fisici sulla carta geografica nel cuore dell’Africa, due luoghi dove probabilmente la nostra specie ha iniziato ad evolversi in questo tratto della grande “Rift Valley”: qui tra montagne, foreste, corsi d’acqua e aride savane convivono, non sempre in pace, circa 30 diverse etnie da millenni. Questi individui, è come se vivessero una fase della protostoria, lontani anni luce dalle vicende del mondo, hanno mantenuto, quasi intatte, le loro tradizioni e stili di vita ancestrali. Forse l’isolamento di queste terre ha mantenuto ancora vivo questo museo etnico vivente; tuttavia non bisogna illudersi di viaggiare in un ambiente incontaminato, i turisti ci sono e sono molti, e per ogni foto o ripresa bisogna contrattare, non c’è nulla di spontaneo, qualsiasi azione tra noi e loro è purtroppo mercificata, perché stupirsi? Siamo noi i primi a dare un prezzo a tutto, la nostra vita quotidiana è in funzione del denaro, cosa possiamo pretendere, di trovare la purezza umana, il giardino dell’Eden, quaggiù? No, andiamo da turisti, ciò che siamo e paghiamo per le foto, sono popoli poveri non miserabili.
venerdì, 25 ottobre: diciamo che il primo giorno di viaggio è stato il giorno di preparazione al viaggio, infatti l’aereo diretto, Roma/Addis Abeba decollava alle 23:45, ed abbiamo avuto giusto il tempo di presentarci e scambiare le prime parole, noi di Roma, e altrettanto avranno fatto a Milano.
sabato, 26 ottobre: dopo le formalità doganali, ci riuniamo tutti fuori dall’aeroporto Bole di Addis Abeba, siamo in 14. Via verso il sud, siamo una carovana di 5 “toyota land cruiser”, 4 per noi passeggeri ed una per supporto cucina, dobbiamo percorrere circa 410 km, impiegheremo poco più di 9 ore, per raggiungere l’ “headquarter” del “Maze National Park” dove montiamo le nostre
tende. Il primo giorno è sempre il più strano, ho la puzza dell’aereo, dell’aeroporto ancora addosso, poi tutto il giorno in auto, tranne una sosta pranzo al sacco a Gaberee, e le varie soste lungo la strada asfaltata ormai da decenni quindi piena di voragini e l’ultimo tratto sterrato nel parco. Al Maze arriviamo alle 20:00, è già buio naturalmente, e mentre montiamo le tende il nostro cuoco inizia a cucinare; servirà la cena alle 21:45, ma abbiamo fatto bene ad aspettare, è squisita, zuppa di lenticchie, pollo, melanzane e zucchine. Da un punto di vista culinario sarà un crescendo fin quando abbiamo dormito in tenda, poi quando abbiamo iniziato a mangiare negli hotel la qualità è scaduta a vantaggio della quantità.
domenica, 27 ottobre: sveglia, colazione e “game drive” nel Parco Maze: il parco istituito nel 1997 è caratterizzato da aree pianeggianti ricoperte da savana erbosa mentre lungo il fiume Maze che lo attraversa si sviluppa la foresta a galleria: ospita 38 specie di mammiferi di grandi e medie dimensioni, tra cui orici, facoceri, cobi, kudù, babbuini verdi, leoni, leopardi, serval e gatti selvatici, quest’ultimi gli unici felini che abbiamo visto, oltre a facoceri, babbuini e gruppi di antilopi. Una breve passeggiata al fiume, e ritorniamo al campo dopo un’ora e mezza, carichiamo tutto e si parte alla volta di Jinka, circa 180 km. Numerose soste lungo la strada, il nostro ritmo è molto lento: alle 12:00 a pranzo in una località imprecisata con il mangiare già preparato al mattino dal nostro cuoco Fitsu: pasta pomodoro e olive, e broccoli a parte. Poi si riprende, la strada diventa sterrata, attraversiamo numerosi fiumi pieni di vita, bambini a giocare e donne a lavare, sullo sfondo un verde intenso. Poi la strada improvvisamente sale, curve e controcurve, e in poco tempo godiamo di una vista spettacolare su tutta la valle, siamo a quasi 2000 metri. Poi si ridiscende per Jinka, ma prima di arrivare ci fermiamo ad un villaggio Ari. Questo gruppo etnico vive principalmente nei dintorni di Jinka, ormai è stanziale e coltiva sorgo, orzo, caffè: a noi offrono un distillato, una specie di grappa molto simile all’alcool puro, ci mostrano come si cuoce una perfetta “injera”, il lavoro di un fabbro e le loro gonne a balze fatte in fibra di banano chiamate “enset”, un tempo le indossavano, oggi le vendono ai turisti. Dormiamo al bellissimo “Omo Eco-Lodge” di Jinka: una bella struttura con tende fisse su palafitte e bagno in muratura sul retro, una terrazza panoramica e un bel ristorante elegante.


lunedì, 28 ottobre: sveglia con una pioggerellina fitta all’Omo Eco Lodge, dalla terrazza banchi di nebbia salgono sulla radura; oggi da Jinka dobbiamo arrivare al “Mago NP” sono circa 70 km di sterrato. Il “Mago NP” e attraversato appunto dal fiume Mago un tributario dell’Omo, ed ospita gli insediamenti della tribù Mursi. Prima di arrivare al villaggio Mursi, nel parco incontriamo una famiglia di babbuini, qualche Dik Dik e faraone; i Mursi sono un gruppo etnico di circa 7500 individui, ormai seminomadi, sono molto conosciuti nel mondo per l’usanza delle donne di applicare un piattello labiale al labbro inferiore che viene inciso intorno ai 15 anni. I Mursi sono poligami, coltivano principalmente sorgo ed applicano un nomadismo stagionale alla ricerca di pascoli fertili per il proprio bestiame; la poligamia è un’usanza molto diffusa tra le etnie della valle dell’Omo, questo perché essendo spesso in guerra tra i vicini, i maschi muoiono di più e la poligamia garantisce la sopravvivenza della tribù. Il villaggio che visitiamo, complice anche le piogge che aumentano il fango, è piuttosto sporco, pieno di letame e pozzanghere: paghiamo 200 birr a testa per poter fotografare, le donne portano il piattello labiale, sono coperte di scarificazioni e indossano copricapi piuttosto folkloristici con le corna di zebù. I bambini si truccano tra loro e truccano anche noi, con colori naturali fatti di argille e caolino per il bianco.
Alle 15:00 del pomeriggio arriviamo all’ “headquarter” del parco, e poco distante sul fiume Mago montiamo il nostro campo, pranziamo benissimo con un’insalata di pomodori semplice ed indimenticabili, i sapori delle verdure africane sono veri, buonissimi. Causa il fiume in piena non possiamo fare il “game drive” nel parco, quindi scegliamo un trekking di 3 ore: non vediamo animali, il sentiero è poco battuto, erba alta e a volte camminiamo su un acquitrino ma una bella passeggiata fino al tramonto in fondo è stata salutare. Ritorniamo al camp che è notte, il nostro cuoco è preso a cucinare anche se impieghiamo un’oretta per far partire un generatore e avere più
luce. Dopo cena avvistiamo moltissime tarantole, quasi un tappeto di piccoli ragni, è questa l’ultima immagine della giornata, dopodiché crollo dal sonno nella mia tenda.


martedì, 29 ottobre: oggi la strada da fare è molta di più, dobbiamo arrivare fino già a Turmi, passando per il mercato settimanale di Aldubba, sono 210 km, la giornata è intensa, come tutte del resto. Al risveglio nella foresta sulle rive del fiume Mago segue una lunga colazione, smontiamo il campo e partiamo alle 09:30, anche perché il nostro cuoco ha preparato il pranzo. La strada ci riporta indietro a Jinka dove facciamo rifornimento, poi proseguiamo per Aldubba, sulla strada incontriamo i 4 bambini con i trampoli in posa per farsi fotografare, e poco dopo ci fermiamo in un lodge-ristorante per consumare il nostro pranzo e prendere qualche birra, bibita o acqua fresca. Alle 15:00 eccoci al mercato settimanale di Aldubba, frequentato principalmente dal gruppo etnico Banna e in minor misura dagli Hamer; il mercato è piuttosto circoscritto ma molto frequentato, dobbiamo fare molta attenzione alle foto, spesso siamo ricoperti da improperi, addirittura ricevo una sassata sulla schiena, il centro del mercato è il grande albero dove tutti seduti bevono birra di miglio nella calabasse o masticano qat.
Poco prima di arrivare a Turmi, con la perfetta luce del tramonto, ci fermiamo al villaggio Hamer: questo villaggio è sicuramente molto più ordinato, le capanne circolari con recinti attorno e le donne Hamer sono molto belle e ben truccate, sul corpo hanno diverse scarificazioni. Gli Hamer sono un gruppo etnico di 40.000 individui che vivono nella bassa valle dell’Omo al confine con il Kenya; la loro cultura mette al centro il bestiame, tanto che ogni Hamer possiede tre nomi, il proprio, quello delle pecore e quello delle mucche. Le donne hanno una grande attenzione per il
corpo, si acconciano i capelli in modo complesso tanto che, per evitare il contatto con la terra, dormono su cuscini di legno. Famosa, tra gli Hamer, è la cerimonia del salto del toro, che segna il passaggio dei giovani all’età adulta, essi completamente nudi devono saltare su almeno 5 tori messi in fila, senza mai cadere. Il camp di oggi è in un’area attrezzata alla periferia di Turmi su un terreno limaccioso nei pressi del fiume, stasera Fitsu, il nostro cuoco, cucina un’ottima capra, morbida come il burro.


mercoledì, 30 ottobre: oggi è la giornata clou del viaggio, quella che aspettavo, sconfinare in Kenya attraverso il fiume Omo e raggiungere il lago Turkana (ex Rodolfo), non andrà tutto come secondo i piani, l’imprevisto in Africa è sempre in agguato, ma va bene lo stesso, è stato comunque indimenticabile. Partiamo dal nostro camp alle 09:30, direzione Omorate per la registrazione dei passaporti poiché sconfineremo in Kenya, senza dogana. Nel decrepito ufficio di frontiera ad Omorate, l’impiegato registra solo i nostri nomi, senza nemmeno guardarci in faccia, da qua altri 10 minuti di macchina e un posto di blocco, siamo in una zona dove pochi metri a sud c’è il Kenya, pochi metri ad ovest c’è il Sud Sudan dove un cippo segnala la direzione. Noi proseguiamo fino al punto di imbarco, siamo nel mezzo di un villaggio “Dassanech” che in lingua locale significa il popolo del delta, non sono molto abituati ai turisti, infatti ci assalgono come api sul miele. I “Dassanech” si sono trasformati da nomadi in agricoltori, coltivano lungo il fiume banane, sorgo, mais trasformandosi in abili pescatori in canoe scavate nei tronchi degli alberi. E’ un popolo molto isolato che vive in un ambiente dove imperversa malaria e mosca tze-tze, e storicamente sono sempre stati in conflitto con i popoli vicini. Noi però non navigheremo nelle canoe ma con due lance a motore di 40cv, una per noi con il tettino e l’altra scoperta per tutto il resto.
Scendere un fiume ha un fascino, soprattutto se la meta è un lago, poi una spiaggia dove poter montare le tende e dormire laggiù sotto le stelle, queste le aspettative, diversa la realtà: quest’anno il fiume è in piena e giù nel delta non c’è alcuna spiaggia, solo isole di giunchi galleggianti, ma, se il fiume non fosse stato in piena probabilmente non avremmo mai raggiunto il Turkana, poiché nei canali del delta l’acqua era alta 30/40 cm, tanto da rendere difficoltosa la navigazione, con le eliche che si insabbiavano. Sulle rive, a destra e sinistra c’è un’interminabile villaggio che si alterna con i campi di sorgo e banane, è un continuo salutarci, bambini che corrono e qualche coccodrillo che da lontano appena ci vede si immerge; caratteristiche dei campi sono delle strutture in legno dove i bambini passano la giornata e svolgono la funzione di spaventapasseri. E’ in questi luoghi che mi sento nel cuore dell’Africa, dove perdo ogni pensiero e mi metto a guardare l’orizzonte sentendomi nel mio luogo ideale, in pace con me stesso, vivo per queste fugaci ed incredibili emozioni, fuori da tutto, drogato d’Africa. Ci fermiamo per il pranzo in un angusto spazio sotto ad un albero, le rive sono paludose e piene di vegetazione, non è facile trovare un attracco sicuro, dopo il pranzo compriamo un’enorme pezzo di pesce gatto da mangiare per cena presso alcuni pescatori Dassanech, ne approfitto per scendere, stanno seccando al sole centinaia di ritagli di pesce. Infine, ecco il Turkana, un lago lunghissimo ma stretto e nessuna possibilità di campeggiare, i marinai ci consigliano di ritornare a monte, conoscono un posto dove poter mettere le tende ma, su queste rive, un giorno ritornerò e ci dormirò. Ironia della sorte, quando raggiungiamo lo spiazzo su cui mettere il campo, la nostra guida si accorge di aver dimenticato 3 tende, non si può dormire nemmeno lì, dobbiamo ritornare indietro alle macchine; impieghiamo circa 2 ore e mezza, una risalita sotto ad uno splendido tramonto, arriviamo che è notte, tempo di salire a bordo e via verso Turmi, inaspettatamente, questa sera si dormirà nel lodge, in fondo tutti siamo contenti.


giovedì, 31 ottobre: quindi sono ufficialmente finite le notti in tenda, stasera dormiremo di nuovo a Turmi, nello stesso lodge, sarà una giornata molto etnica, il focus è sue due popolazioni i Karo e gli Nyangatom. La strada da Turmi per arrivare al villaggio è pessima, percorribile solo con 4x4, impieghiamo circa 2 ore e mezza, questo però è il più bello di tutti: da qui Vittorio Bottego nel 1897 vide per la prima volta il fiume Omo, in effetti in questo punto il fiume curva e si guarda dall’alto del villaggio, un panorama molto bello. I Karo sono una etnia omotica e sono imparentati con gli Hamer condividendone aspetto, lingua e tradizioni. Oggi sono un popolo sull’orlo della scomparsa( sono solo 1000 individui perciò a forte rischio di estinzione). Decimati da carestie ed epidemie. Vivono di agricoltura e sono grandi produttori di miele. Collane di cauri avvolgono il collo delle donne. Un chiodo labiale trafigge
,spesso, il mento dei Karo. Scarificazioni addominali, provocate da acqua e cenere ,incidono il loro corpo. Trasformano, con gesso e acqua, i loro corpi in arzigogolati affreschi surreali e la pittura diventa un vestito. E’ un popolo che fa un uso smodato della pittura corporale: è la prima loro caratteristica che si nota. Qua al villaggio siamo liberi di fotografare per 200 birr, purtroppo il luogo è piuttosto inflazionato, addirittura troupe fotografiche che allestiscono un set con cui devo anche discutere, perché avere una bella macchina fotografica da il diritto all’esclusiva fotografica. I Karo ci mostrano come si pitturano il corpo, come si truccano, poi ci invitano in una loro capanna. Pranziamo in un lodge abbandonato non troppo lontano dal villaggio Karo, un luogo bellissimo che un tempo era una riserva di caccia, oggi è svuotato e se continuano così, tra un po’ la foresta se lo riprenderà. Nel pomeriggio si prosegue per l’altro gruppo etnico della giornata, gli Nyangatom, non è semplice arrivarci, la strada è pessima e loro vivono molto vicino al confine con il sud Sudan infatti sono imparentati e alleati con la tribù dei Toposa del Sud Sudan, mentre sono in guerra con quasi tutte le etnie circostanti. Naturalmente al villaggio ci sono solo donne e bambini, che subito si prestano a farsi fotografare, mettendosi tutte in fila, sono gentili e cordiali, usano mettere collane su collane di perline attorno al collo, che rappresentano la dote del matrimonio. Ritorniamo al Turmi Lodge alle 18:00, giusto in tempo per lo scatenarsi dell’ennesimo temporale, quest’anno la stagione delle piogge si sta protraendo e tutta la valle scoppia di un verde rigoglioso.


venerdì, 01 novembre: da oggi si risale, il viaggio ritorna indietro, però con un percorso diverso rispetto all’andata, il punto di arrivo è Konso, un villaggio tra le montagne a circa 200 km che impieghiamo tutta la mattinata a percorrere con sosta al villaggio dell’etnia Arbore. Fortunatamente le piogge non ci impediscono di percorrere la strada più corta per superare la catena montuosa della valle dell’Omo, e subito dopo aver scavallato, sulla piana, il villaggio. Gli Arbore Tradizionalmente sono dei "commercianti", per questa ragione si spostano anche molto lontano per seguire i loro commerci. Un tempo possedevano l'assoluto monopolio del commercio dell'avorio nell'Africa Orientale. Sono di religione islamica, sebbene siano ancora molto presenti credenze tradizionali che riconoscono un unico Dio creatore, chiamato Waq. All'interno dei loro rituali sono abili danzatori e cantanti - sostengono che danzare e cantare favorisce l'eliminazione delle energie negative che a loro volta genera prosperità per l'intera collettività. Mentre le donne sono riconosciute per i loro coloratissimi ornamenti, in particolare orecchini, collane e bracciali con cui ricoprono il loro corpo (realizzati con i più svariati materiali perline, metallo, avorio, pezzi di animali) e per i copricapo (e spesso dei vestiti) di colore nero per proteggersi dal sole. Sarà questo, l’ultimo villaggio etnico, o meglio, dove gli abitanti indossano costumi o trucchi particolari.
Arriviamo al bellissimo “Konso Lodge” alle 14:00, pieno di bouganville, con una vista eccezionale tra le valli, il nostro pranzo è già pronto poiché precedentemente ordinato. Qua a Konso, siamo a circa 1500 metri di altitudine, tra le montagne, fa fresco e subito dopo il pranzo si scatena un temporale. Alle 16:00 andiamo a visitare il villaggio Gamole dei Konso, praticamente una fortezza, completamente diverso da tutti gli altri: costruito sul fianco della montagna è un dedalo di viuzze delimitate da muri a secco con grosse pietre e terrazzamenti ovunque: i Konso coltivano un po’ di tutto, vivono con il bestiame e sono grandi lavoratori, tanto che una delle prove di forza per segnare il passaggio all’età adulta è quella di alzare una grossa pietra e buttarla dietro
le spalle, io ci ho provato e non sono nemmeno riuscito ad alzarla. A cena, al “Konso Lodge” c’è il pienone di turisti, si mangia a buffet poi verso le 21.30 chiudono tutto e vado in stanza, passerò una nottataccia, prima di andare a dormire ho provato ad uccidere un ragno grande come un pacchetto di sigarette, è riuscito a sfuggire e il suo pensiero mi ha tormentato per tutta la notte.


sabato, 02 novembre: oggi dobbiamo raggiungere Arba Minch, sono poco meno di 100 km, ma prima di partire andiamo a Gesergio, ovvero la NY d’Etiopia come la chiamano, anche se più che NY assomiglia al “Bryce Canyon” in Utah. E’ una mattina umida, c’è nebbia, saliamo per Gesergio, sono circa 40 minuti da Konso, la vista del canyon è spettacolare, pieno di pinnacoli che salgono snelli verso il cielo e nel frattempo una moltitudine di bambini accorre per venderci pietre di quarzo o amazzonite. Ritorniamo al Konso Lodge per un caffè, quindi arriviamo ad Arba Minch che sono le 12:30, ci sistemiamo al bellissimo “Hailè Resort”, una catena di hotel del celebre maratoneta etiope Hailè Gebrselassie. Nel pomeriggio, programmiamo alle 15:00 la gita in barca sul Lago Chamò, uno dei tanti laghi della grande Rift Valley africana: ci imbarchiamo su 2 lance a motore di 15cv, praticamente le stesse dell’altro giorno sul fiume Omo: arriviamo prima all’isola al centro del lago, dove enormi coccodrilli sornioni si godono gli ultimi raggi di sole, poi dagli ippopotami che si trovano in una zona con più alghe, non ce ne sono tantissimi, 3 o 4 in tutto. Tornando al punto di imbarco, si alza una leggere brezza sul lago, e praticamente mi fradicio; alle 18:30 siamo nuovamente in hotel.


domenica, 03 novembre: oggi ci aspetta una lunga traversata in jeep fino ad Hawassa, circa 300 km, percorribili in 5 ore. Il clou della giornata è stato il villaggio Checheua dei Dorze, che dista circa 1 ora di strada pessima da Arba Minch: si sale fino a 2400 metri, entriamo in una bellissima pineta di cedri, quassù è proprio montagna. Il tratto distintivo dell’etnia Dorze è la loro casa, queste si ispirano nella forma agli elefanti, poiché un tempo questa popolazione cacciava gli elefanti; queste bizzarre e scenografiche strutture abitative sono immerse in bananeti e cedri. In realtà è il “falso banano” fratello gemello del banano, che viene utilizzato in tutte le sue componenti: infatti i Dorze abili tessitori estraggono fibra dalle foglie, la parte restante di scarto, una poltiglia, viene lasciata a macerare, quindi seccata e poi ridotta in farina che costituisce l’elemento base di queste popolazioni di montagna. I Dorze producono una grappa locale e un ottimo miele grezzo che fanno pagare molto caro; per noi inscenano un ballo tradizionale, con tamburi, flauti e un gruppo di uomini danzanti vestiti di pelle di leopardo e scudo in pelle di ippopotamo. Veramente un bel posto quello dei Dorze, rispetto ai villaggi della valle. Poi in strada per raggiungere Hawassa: sosta pranzo a Sodo, in un ristorante solo bello ma dal cibo pessimo; saremmo dovuti arrivare fino a Yirgalem per visitare un villaggio dei Sidamo, ma purtroppo i crescenti problemi in tutta la regione Oromia ce lo impediscono. Ci fermeremo in un villaggio Sidamo sulla strada, niente di particolare, hanno un campo messo a qat dietro casa e nella capanna dormono con gli animali. Ad Hawassa siamo di nuovo in un “Hailé Resort”, molto bello anche questo.


lunedì, 04 novembre: oggi è l’ultimo giorno di viaggio, da Hawassa dobbiamo arrivare ad Addis Abeba, circa 300 km, riuscendo comunque a riempire la giornata. La prima sosta a Shashamane: qui il Negus Hailè Selassie Ras Tafari negli anni 60’ richiamò dalla Giamaica 220 famiglie afro per riportarle a casa, e donargli la cosidetta “terra promessa”, il riscatto dell’uomo nero. Queste famiglie seguaci della “rastafarianesimo” vivono in una specie di comunità all’interno delle 5 chiese “rasta” di Shashamane: ciò che ho visto è molto meno romantico, anzi, 7/8 rasta che fumano costantemente marijuana e insistono a venderla, litigano fra loro, e chiedono soldi, soldi, oltre i pattuito, il bello è che ti accolgono con “love and peace”, ascoltate il cuore, e tutte queste stronzate qua. Nonostante la pagliacciata, mi sono divertito, in fondo fanno ridere. Dopo pranzo invece, visitiamo il primo ed unico sito archeologico del viaggio, Tiya: costituito da 32 steli che racchiudono un complesso cimiteriale di una cultura preistorica, contemporanea probabilmente al tardo periodo axumita (XI-XII secolo circa). Queste pietre sono ricoperte di simboli che gli studiosi sono riusciti a decifrare solo in parte, appartenenti ad una civiltà di cui non sappiamo quasi nulla, compresa la precisa collocazione temporale nella storia antica dell'Etiopia. Le stele, segnacoli posti in testa a sepolture effettuate per lo più in posizione fetale, si dividono in lisce, coperte di simboli a bassorilievo e antropomorfe. Questi ultimi due tipi si possono a loro volta dividere in sepolture attribuite a personaggi maschili e femminili. Nelle prime si trovano spesso rappresentazioni di pugnali (forse legate al numero di nemici uccisi); nelle seconde rudimentali rappresentazioni di seni. Stele analoghe si trovano isolate in tutta la regione circostante.
Dopo il sito di Tiya diretti ad Addis, nel traffico di Addis, per raggiungere l’hotel per il “day use” delle stanze. Infine la cena, in un locale con musica e balli tradizionali, mangio l’ultima injera quindi in aeroporto.
martedì, 05 novembre: volo regolare, a Fiumicino arriviamo alle 04 del mattino, rimaniamo in 6 a far colazione, poi ognuno sul suo aereo, sul suo treno, verso casa. Un viaggio intenso, un flash, è durato pochissimo forse perché molto intenso, alla prossima !!!!
