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Senegal, Gambia e Guinea Bissau (carnevale 2014)

Sabato 22 febbraio: dopo una lunga notte in volo sopra al mediterraneo e al deserto del sahara, arriva finalmente l’alba e fuori dal finestrino dal vetro patinato c’è polvere, ocra e gialla, siamo atterrati a Noukachott, capitale della Mauritania, per uno scalo tecnico, prima di Dakar. Dall’alto si vedono solo strade sterrate, piccole case in fango con i tetti di lamiera ondulata, non ci sono palazzi, poi l’aereo sale troppo e la foschia del mattino cancella tutto. Dopo un laborioso procedimento sul web per l’ottenimento del VISA per il Senegal dall’Italia, all’arrivo a Dakar la dogana senegalese non è da meno, la stampante a carta chimica si inceppa spesso, e prima di passare ci vuole molta pazienza. L’aeroporto di Dakar ha uno stile consumato anni ’80, si sente da subito l’odore dell’Africa, che impregna gli uffici, i banchi, la toilette, i carrelli. Fuori c’è il sole anche se velato, il pulmino dell’agenzia ci aspetta fuori e da subito entriamo nello smog, nella polvere, tutto sembra sbiadito, della capitale e andiamo in centro per il cambio: la nostra guida si chiama Aliu, e dopo aver scambiato 1 euro per 650 CFA, ci accompagna al palazzo presidenziale dove è in atto il marziale cambio della guardia. Ma spingo per andare via, avremo tempo alla fine del viaggio per visitare Dakar oggi non mi interessa, e dopo aver acquistato una riserva d’acqua ce ne andiamo verso il “Lac Rose”, ma il traffico è incredibile, e, anche se sono solo 40 km, arriviamo alle 14:00 del pomeriggio (dopo 4 ore) e subito ci sediamo a pranzo in uno dei ristoranti sul lago. Non ho molta fame, pranzo con una fanta e una papaya gigante. Con dei fuoristrada noleggiati sul posto facciamo un giro del lago, dove alcuni anni fa arrivava la celebre Parigi-Dakar: oggi ci sono dune di sabbia sfumate di rosa, baracche, saline, lavoratori che spaccano pietre, qualche lenzuolo steso al vento, palme solitarie e dall’altra parte l’oceano, una lunghissima spiaggia sferzata dalle continue onde che si perde all’occhio. E’ tardo pomeriggio e siamo al villaggio di Lompoul, qui lasciamo il pulmino e saliamo su un grosso camion 4x4 che per 3 km ci porta al “Camp du desert” il campo tendato in questo insolito angolo di deserto. Non siamo i soli, altri turisti ci accompagnano, chi vuole può fare una passeggiata sui dromedari ma preferiamo bere un aperitivo stesi sui tappeti adagiati sulla sabbia. A cena ci servono spezzatino di manzo e cous cous di verdure, anche un accettabile vino rosso e il dopo serata prevede balli e tamburi intorno al fuoco.

Domenica, 23 febbraio: c’è un bel sole e l’ambiente oggi ha i suoi colori vivi, sotto le tende di Lompoul ci servono un ottima e abbondante colazione, ci laviamo con i secchi e con molta calma si parte per St.Louis du Senegal, dove arriviamo alle 12:30 e inizia a far caldo. Il viaggio è durato 2 ore e mezza per una buona strada poco trafficata. A St.Louis ci sistemiamo all’albergo “Dior” dislocato alla fine di quella striscia di terra che qua chiamano “Lange de Barbarie”: questa lingua di terra divide il fiume Senegal dall’Oceano per moltissimi chilometri, entrambe corrono parallele fino a Saint Louis che in parte sorge su un isola del fiume collegata al continente e alla “Lange” tramite due ponti, di cui uno lunghissimo in ferro. Questa zona è un paradiso per gli ornitologi, infatti un’infinità di uccelli arriva qui a nidificare dopo tanto deserto, e sulla lingua c’è un enorme villaggio di pescatori con un altrettanto grande mercato del pesce, questo appena pescato viene

scaricato dalle cassette e caricato su camion conteiner che lo congelano nell’immediato per poi spedirlo in tutto il mondo: è davvero impressionante assistere a questa continua “catena di montaggio” soprattutto perché la quantità di pesce è notevole e continua, giorno e notte le piroghe scaricano. Inevitabilmente all’albergo Dior mangio il primo piatto di pesce del viaggio a bordo piscina dopo aver fatto un bagno nell’acqua gelida, per poi stendermi a prendere il sole fino alle 15:30. Per girare St.Louis tentiamo di noleggiare un calesse, ma districarsi tra i camion del mercato del pesce che creano un traffico lunghissimo e immobile è impossibile, camminare è la miglior soluzione. Sull’isola al centro del fiume Senegal sorge la vecchia Saint Louis, quella celebre città dove meno di un secolo fa decollava e atterrava l’aereo postale del piccolo principe finché un giorno non tornò più e si perse nel deserto. Purtroppo però oggi è domenica e le botteghe delle vie coloniali sono tutte chiuse, c’è molta calma, enormi piante di bouganville colorano gli angoli, tutto è ordinato e pulito, ben diverso dalla nuova Saint Louis, quella che sorge sulla terraferma, collegata all’isola dal ponte di ferro di 500 metri. Alla città nuova ci perdiamo nel caotico mercato che ha ormai completamente fagocitato la vecchia stazione dei treni, me ne accorgo solo perché intravedo i binari a terra, un tempo Saint Louis era la capitale dell’Africa francofona. Dopo il rosso tramonto sul fiume inizia ad alzarsi il vento e fa fresco, ritorniamo con un taxi alla “Lange de Barbarie” e ce ne andiamo a cena in un ristorante vicino all’albergo, il “Papayer”: mangiamo molto bene e consiglio le “brochette del Lotte” un pesce che assomiglia moltissimo alla cernia.

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Lunedì, 24 febbraio: non è stata una gran giornata, fisicamente non mi sento bene, forse i primi sintomi dell’influenza e stamattina prima di partire da Saint Louis si rompe la cinghia del pulmino, inoltre Aliou deve rinnovare l’assicurazione. Abbiamo qualche ora per passeggiare in questa famosa città coloniale dell’Africa francese, c’è l’albergo del piccolo principe ed oggi le botteghe sono aperte. Si parte alle 11:00 direzione Touba, l’epicentro della potentissima setta islamica dei muridi, dove nella grande moschea in continua costruzione e ampliamento c’è la tomba del fondatore Mahamadou Cheick Bamba. Alle 13:30 il caldo è infernale mentre scalzi camminiamo sul marmo bianco di Carrara della grande moschea, luogo di pellegrinaggio, è la più grande di tutta l’Africa occidentale e il minareto si vede da lontanissimo, in questa città è severamente vietato consumare alcolici. Ho molto caldo e sento di essere sempre più debole, le donne devono coprirsi con il velo e un marabutto ci accompagna nella visita fino alla tomba di Cheick Bamba, colui che ancora oggi rappresenta la guida spirituale di tutti i senegalesi. Lasciamo Touba alle 15:30 per Kaolack, anonima cittadina ma punto di passaggio per il sud e il Gambia. Ci sistemiamo nel

modesto motel “Jolie”, c’è puzzo di urina grazie alle gabbie dei conigli accanto alle stanze, la stanza è essenziale e devo prendere una tachipirina, ho la febbre. Ceniamo in un ristorante libanese con spiedini alla brace, mangio in fretta, ho voglia di andare a dormire al più presto.

Martedì, 25 febbraio: oggi si entra in Gambia da Kaolack, sono solo 102 km di pessima strada e posti di controllo, tra cui la frontiera dove i poliziotti piuttosto spocchiosi si permettono la strafottenza canonica del militare e uno di essi mi toglie la mia penna dalle mani e se la prende senza nemmeno mercanteggiare, non che mi importi qualcosa della penna ma del modo si, se l’avesse chiesta col sorriso l’avrebbe avuta lo stesso. Una frontiera dove un povero scellerato e chiuso dentro ad una gabbia, come una scimmia allo zoo, davanti a tutti (costo del Visa 20 euro). La strada è paludosa e piena di grossi baobab millenari finché non arriva al fiume Gambia dove la vegetazione è più rigogliosa, più verde diventando sterrata sul rosso fino al villaggio di Jeuffreu, qui si prende la piroga per “James Island” meglio conosciuta come l’isola di Kunta Kinte, il celebre schiavo del libro “Radici” di Alex Haley. Per raggiungere la piccola isola ci vogliono 15 minuti, oggi è un cumulo di rovine, qualche muro è ancora in piedi dell’antico forte inglese, ci sono alcuni baobab che forse c’erano pure nel 1826 quando transitò dall’isola l’ultimo schiavo nero: venne catturato nella foresta, l’isola era il punto di raccolta per qualche settimana, poi una nave più grande l’avrebbe portato nelle Americhe. Tornati al villaggio di Jeuffreu pranziamo con un piatto di gamberi e riso, poi ci dirigiamo a Barra per traghettare noi e il pulmino a Banjul che sorge sul lato sud del fiume Gambia, quasi nei pressi della foce sull’atlantico. Sul lato nord del fiume, dove siamo noi, l’ultimo sgangherato traghetto sta per partire, a vista non sembra ci sia posto ma in Africa oleando i giusti meccanismi, il doganiere o responsabile si prende i soldi, ma non ci fa comunque salire e mai sapremo come andò quella vicenda, se Aliou poi è riuscito a riprenderseli o meno. Così attraversiamo noi in piroga con Aliou, mentre l’autista rimane dall’altra parte per traghettare il pulmino il giorno dopo: è un bel tratto di mare piuttosto agitato, quindi sconsiglio di prendere la piroga, potrebbe essere pericoloso, noi lo abbiamo fatto ma non potevamo saperlo prima e non avevamo alternativa. Arrivati a Banjul una folla di portatori ci viene incontro per prenderci a cavalcioni sul bagnasciuga, siamo al porto della decrepita e corrotta capitale del Gambia, uno Stato minuscolo, bizzarro nella sua geografia a dito che segue il fiume, governato da un dittatore pazzo ed eccentrico. Il primo hotel, si fa per dire, che ci viene proposto è sul mare, saliamo attraverso le scale di un palazzo e una procace ragazza in tanga ci viene ad aprire, quanto meno rimane stupita e basta uno sguardo per capire che non è il posto giusto per passare la notte. A Banjul non sembra ci sia altro, prendiamo un taxi che attraversa tutta la città compreso il monumentale arco di trionfo e andiamo a dormire a Serekunda, un paese che sembra più turistico della capitale ma ad oggi non ne ho ancora capito il perché, in effetti l’hotel Praia non è malvagio, peggio è la cena molto modesta e insufficiente, pasta di manioca e un pezzo di pollo.

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mercoledì, 26 febbraio: oggi era in programma un semplice spostamento da Banjul a Ziguinchor, con rientro in Senegal nella capitale della Casamance, invece, a parte la febbre e lo spossamento fisico che ho, l’intoppo è pronto. Aliou, che ha dormito con noi, si è alzato presto per andare ad aspettare il pulmino al porto, ma non si vede per tutto il giorno, ad un certo punto anche il telefono è spento. A pranzo decido di chiamare Mr.Diouf, il manager dell’agenzia della Casamance, che dopo vari tentennamenti decide di venire lui stesso a prenderci, ma arriverà quasi al tramonto. Noi invece, abbiamo bivaccato tutto il tempo nel cortile dell’albergo non sapendo che fare insieme ai tacchini nel giardino, leggendo, giocando a carte nella speranza che da un momento all’altro la situazione si sblocchi. Alle 21:00 arriviamo a Ziguinchor, ottimo l’albergo e cena subito dopo, ottima anche quella con filetto di pesce e patate.

giovedì, 27 febbraio: oggi si naviga tutto il giorno lungo il fiume Casamance (che da il nome alla regione) fino al suo delta, e scrivo subito col senno di poi, che questa escursione va fatta con almeno una notte nel delta, in qualche villaggio di pescatori, un giorno solo, andata e ritorno, lascia l’amaro e le ore di barca sono troppe, circa 8 in totale. La parte iniziale della navigazione è piuttosto attraente, attraverso canali infestati da mangrovie, poi diventa noiosa tranne quando qualche delfino decide di ravvivarci un po’. La barca si ferma nell’isola di Karabane, un villaggio di pescatori alcuni dei quali intenti a sistemare le loro reti: qui si può fare il bagno, mangiare molto bene nell’unico ristorante presente e visitare la vecchia chiesa bretone, oggi sconsacrata con il tetto in assi di legno che è diventato una gigantesca “Bat Box”, basta battere le mani per scatenare uno stormo di pipistrelli. Un luogo dimenticato quello di Karabane, dove un tempo deve esserci stata una comunità francese, un luogo tuttavia affascinante, bello, piacevole dove avrei dormito volentieri. Torniamo a Ziguinchor che è tardi, anche stasera, e Aliou ci porta a mangiare al ristorante dell’ “Alliance Franco Senegalese”, buoni spiedini di carne o pesce.

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venerdì, 28 febbraio: prima di lasciare Ziguinchor mi faccio fare una barba in una bottega che oggi non ricordo già più; carichiamo il pulmino e si parte per la Guinea Bissau, destinazione Bissau appunto. Nelle campagne della Casamance ci fermiamo a fotografare le piccole mangrovie che nascono come funghi negli specchi d’acqua attorno alla strada. Anche oggi la strada da fare non è tanta, 120 km, ma impieghiamo 4 ore, oltre allo stop alla frontiera, è uso comune che in ogni villaggio della Guinea Bissau che si incontra sulla strada, e sono davvero tanti, vieni fermato per un controllo da sedicenti poliziotti o semplici civili, ognuno vuole una piccola mancia, si accontentano di poco, anche meno di un euro, per evitare estenuanti controlli e problemi all’auto: è una situazione che va presa con filosofia africana e non europea, in fondo è un simulacro dell’epoca pre-coloniale, quando gli innumerevoli popoli ed etnie, chiedevano regali o soldi a chi voleva attraversare il loro territorio. Io ci ho fatto il callo, anzi, mi diverte mettere con fare circospetto luride banconote CFA nelle tasche della gente, sono gesti che danno importanza, a me ma soprattutto a loro, e i militari hanno da sempre avuto bisogno di importanza. A Bissau mi aspetta Saliu dell’ONG “Ahead onlus”, qua non ci sono agenzie di viaggio e bisogna costruirsi corridoi alternativi per organizzare: Saliu parla oltre al portoghese lo spagnolo poiché ha studiato a Cuba, facendo parte di quella generazione afro-internazionalista, quando Amilcar Cabral era un astro nascente delle politica africana: infatti ci accompagna all’Htl “Habana”, un albergo anche bello seppur migliorabile, nel cuore del Barrio Militar, un immenso quartiere popolare fatto di baracche e strade polverose di un ocra intenso, africano. E proprio in questo albergo la sala ristorante e zeppa di foto di Fidel Castro, Chavez, Che Guevara e Cabral. Le uniche 4 camere a disposizione sono nuovissime, ma piccolo e stracolme di oggetti, ci sono PC nuovissimi ancora con la carta da imballaggio e un televisore ultrapiatto il cui unico canale trasmette H24 le telecamere messe nella discoteca che è proprio sotto le nostre stanze: insomma un posto bizzarro e kitsch, africano e lussuoso. Vado a passeggiare per il barrio che è sotto di me, nel mezzo di questa esplosione africana e popolare di gente, vado a scrivere: <

sempre più addosso togliendomi la poca luce della giornata che se ne va. Tanti piccoli piedi neri, chissà cosa si aspettano, magari sono il loro gioco, la loro attrattiva, sperando che quando domani torneranno a scuola avranno più voglia di usare la penna, così come sto facendo io>>. La cena all’hotel Habana è lunghissima, e tutto questo tempo per portarci un pescione poco cotto: finisco la serata a giocare a bigliardino con altri ragazzi lì sotto.

sabato, 1 marzo: di prima mattina andiamo all’ospedale costruito da “Ahead Onlus” per rendere omaggio a Saliu e a tutto il gruppo di lavoro, anche italiano, che lavora e cura da anni i malati di Bissau; l’ospedale è mezzo vuoto, c’è una sala radiografie e prelievi ematici, tutto è ordinato e pulito. Poi per una serie di telefonate intrecciate, messaggi lasciati, informazioni fortuite, insomma tutte quelle situazione che in Africa si incastrano sempre alla meraviglia sono riuscito a reperire il numero e quindi a raggiungere Suor Stefania, una mia compaesana compagna di scuola di una mia amica, di cui sapevo solamente che era a Bissau come infermiera. Suor Stefania lavora in un piccolo ospedale a 25 km da Bissau, c’è una comunità cattolica con religiosi e laici italiani che si occupa di gestire malati di aids, tubercolosi e lebbrosi: veniamo accolti benissimo e ci accompagna a visitare per testimoniare il suo lavoro in una terra così dimenticata e pregna d’amore. Sulla via del ritorno in capitale notiamo il contrasto netto rispetto a pochi minuti fa: una supervilla con vigilanza armata, ci dicono essere la residenza di un narcotrafficante, essendo la Guinea Bissau il paese ponte per la cocaina tra Sud America ed Europa. A pranzo torniamo all’albergo “Habana” per riposare un po’ e soprattutto cercare protezione dal caldo, oggi è il grande giorno del carnevale, il sabato di carnevale, e le forze vanno risparmiate per le ore successive. Infatti sarà un qualcosa di grandioso: già dal pulmino che ci stava portando in centro città iniziamo ad osservare un fiume di gente a piedi, bancarelle sempre più fitte, sempre più baraonda, sempre più maschere e colori, finché l’autista è bravissimo a prendere una scorciatoia e portarci direttamente all’inizio della sfilata: da qui in poi impazzisco, non so se guardare o fotografare, tantissimi gruppi di maschere provenienti da diversi paesi e quartieri di Bissau, alcuni indossano grosse e variopinte maschere di cartapesta, altre sono semplicemente gruppi di ballo, funamboli, guerrieri, di tutto. Il carnevale ci prende tutto il pomeriggio, e il percorso finale delle mascherate prevede un esibizione sotto ad un palco dove una giuria premierà i più bravi e più belli. E’ la più bella festa che abbia mai visto in Africa, sia come volume di persone e sia come qualità dello spettacolo, un eccellenza per fortuna ancora sconosciuta al resto del mondo. Per tornare in albergo conviene andare a piedi, una lunghissima passeggiata seguendo le persone lungo l’immenso viale che collega il centro città con l’aeroporto e con il resto del paese, è tutto chiuso al traffico ed è un piacere anche camminare a lungo in quest’atmosfera di gioia, bancarelle, balli, schiamazzi.

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domenica, 2 marzo: oggi inizia il mare, andremo nello sconosciuto arcipelago delle Bijagos a largo di Bissau: non c’è un servizio traghetto garantito, tranne uno settimanale che impiega circa 12 ore, quindi conviene affidarsi ai privati che per forza di cose sono 2 e corrispondono ai due lodge dell’arcipelago. Noi siamo con Bobo, del “Bobo Fishing Club Bijagos” un francese tuttofare proprietario di alcuni bellissimi bungalows sulla baia, dove noi però non dormiremo, preferendo la più ruspante ed economica Casa Dora. La barca è un semplice motoscafo che impiega 2 ore di navigazione per raggiungere il villaggio/capitale delle Bijagos, Bubaque. Siamo a Casa Dora giusto per pranzo, dal molo dobbiamo camminare qualche centinaio di metri per raggiungere Dora, una signora mezzosangue portoghese, un istituzione dell’isola che ci accoglie con un ottimo barracuda in umido, e tutti i giorni, pranzo e cena, mangeremo da lei senza cercare altro per ovvi motivi, la sua cucina è ottima, di pesce sempre fresco appena pescato. La prima spiaggia che vediamo nel pomeriggio e quella sotto a Bubaque, poco più in là del molo dove siamo attraccati, non è granchè, si affonda nella sabbia, il mare è agitato da una fortissima corrente costante, il fondo non si vede e più nuoti e più sei sempre nello stesso punto; aiutiamo alcuni pescatori a tirare in acqua una piroga, è sera, saliamo per le vie rosso ocra, polverose, tra vecchie baracche in muratura e un decrepito palazzo vestigia del passato coloniale di Bubaque, aspettandoci il carnevale della domenica ma ci sono pochissime maschere in strada, qualche esibizione nella piazzetta principale ma niente a confronto di Bissau. Eppure dei report dell’anno precedente ci hanno informato che l’anno scorso il carnevale è stato molto più bello nelle isole rispetto alla capitale, varia sempre, dipende dai fondi che gli sponsor mettono a disposizione.

lunedì, 03 marzo: oggi giornata prevalentemente dedicata all’ozio, andiamo in esplorazione alla parte opposta dell’isola, da Bubaque c’è un’unica strada di 30 km semiasfaltata che passa attraverso l’aeroporto (riconoscibile dalla manica a vento presente), taglia la foresta tropicale in due e arriva ad una bellissima spiaggia di sabbia bianca. Abbiamo con noi panini e birra fresca che Dora ci ha preparato e passiamo lì tutta la giornata: dopo un po’ iniziano ad arrivare dei ragazzi e partita a pallone sotto al sole, bagni infiniti e qualche pastinaca che furtiva scappa via sotto la sabbia. Le donne locali al mezzogiorno iniziano a preparare il pranzo, piatto unico con riso e brodo di pesce, per almeno 40 persone, in un grosso pentolone: arrivano un sacco di bambini, pescatori e mi vien voglia di mangiare un piatto con loro, e mi godo anche il loro pranzo anche se il pesce era piuttosto spinoso. Tornati a Bubaque è ancora carnevale, ancora maschere e mascherate, forse le stesse del giorno prima, con lo stesso clima divertente, gioioso e confusionario che solo l’Africa offre.

martedì, 04 marzo: oggi invece giornata dedicata alla pesca d’altura, la barca ci porta alla punta sud di Cannabaque, prendiamo 2 pesci lunghi simil barracuda e 5 grossi pesci dalle sfumature rosse. A pranzo la barca ci porta sulla riva di Cannabaque, c’è una specie di villaggio dove i pescatori offrono letti o amache per dormire, mangiamo il nostro pranzo con i pescatori del posto passeggiando sull’istmo circondato dal mare, un posto favoloso in quanto completamente dimenticato. Nel pomeriggio conosco un cooperante di manitese che lavora a Bubaque e mi spiega un po’ di cose del luogo, quello anni fa doveva essere il mio destino, almeno come lo avevo pianificato. Stasera a cena Dora ci prepara il nostro pesce pescato con una specie di vongole come antipasto, buone ma con un po’ di sabbia dentro. Cosa strana, mi aspettavo una gran chiusura per il carnevale, ed invece niente, molto meno dei giorni scorsi, solo qualche maschera qua e là, qualche banchetto che vendeva birra locale e niente più.

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mercoledì, 05 marzo: oggi ultimo giornata all’arcipelago delle Bijagos e anche questa passata nell’ozio più completo. Proprio davanti al molo di bubaque, a qualche centinaia di metri di mare, c’è il resort di Bobo, cosi trovo un passaggio in barca per farmi portare dal dirimpettaio e passo la giornata lì: ha lettini ed ombrelloni, una spiaggia pulita, un ottimo vino bianco fresco e un trancio di barracuda in terrazza. Qua da Bobo conosco l’artigiano dei grossi pesci di legno (esposti anche sulla parete di Dora) e me ne compro ben 4, sono bellissimi, peccato che nel viaggio di ritorno in aereo alcune pinne verranno spezzate. Concludiamo la serata da Dora (scoprendo che sta

costruendo altri appartamenti sul retro per allargare il suo albergo), le palme sopra di noi sono mosse dalla brezza marina, sento di stare bene e mi dispiace pensare che domani lasceremo questo paradiso dove probabilmente non tornerò più, sono troppo curioso per ritornare nello stesso posto.

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giovedì, 6 marzo: la partenza con la barca di Bobo è per le 11:30 non più tardi altrimenti il mare potrebbe farsi grosso, e così torniamo proprio nella spiaggia di Bobo per le ultime due ore sul lettino tanto la barca parte proprio da qui. E da Bobo facciamo un'altra colazione con piadina al cioccolato sulla splendida terrazza, il motoscafo che oggi ci riporterà a Bissau è proprio il classico da scafista, velocissimo ed elegante, infatti stavolta ci mettiamo un ora a tornare. Ho chiamato quelli dell’hotel “Habana” che dopo un po’ di attesa ci vengono a prendere con il loro pulmino e ci riportano in albergo sotto ad un caldo pazzesco. Per il pranzo scegliamo di perderci tra le baracche del “Barrio Militar” finché caschiamo in un ristorante locale, ovvero una semplice stanza nera di fumo con un bambino piccolo a dormire sotto la nostra panca e la mamma che cucina in un grosso pentolone del pesce con ignave, carote e riso … nonostante le spine gigantesche, buonissimo. A quest’ora di calura è impossibile stare in giro e dormiamo un po’ sui divani della reception dell’”Habana”, usciamo solo per le 18:30. Passeggiata all’imbrunire per le vie della piccola Bissau, un “paesotto”, le case del centro storico sono un po’ decrepite ma conservano tutt’oggi il fascino di un tempo, quando il re del Portogallo governava questa terra d’Africa. La cattedrale è la costruzione più imponente, alta, bianca e svettante, al suo interno è sepolto padre Arturo Settimio Ferrazzetta, italiano, vescovo di Bissau e personaggio importante per la storia di questo semplice paese. Poi alla sede del partito nazionale PAIGC chiedo se hanno magliette con Amilcar Cabral, il padre della patria, dicono di si, me le consegneranno dopo al ristorante, la “Padeira Africana”, dove speravo di trovare un baccalà alla portoghese, invece non c’è, e mangio polpo e gamberi in gelatina.

venerdì, 7 marzo: ultima sveglia in Guinea Bissau, una sveglia speciale come solo nei quartieri popolari africani può avvenire: un’umanità viva, in fermento, dalla finestra una ragazza nuda si sta lavando con un secchio, non è un’immagine erotica piuttosto è un’immagine naturale, galline e capre camminano vispe nei cortili, un ragazzo lava il vetro della macchina, una signora già frigge frittelle, un ragazzino vende sigarette e tagliaunghie. L’aeroporto “Osvaldo Vieria” è vicinissimo, 5 minuti e siamo già al controllo passaporti, poco prima mi portano per strada altre magliette di

Cabral, enormi, più larghe che lunghe, scarti del mercato cinese che inondano l’Africa. Il volo è regolare e via da questo meraviglioso paese, dopo un’ora siamo nuovamente a Dakar, taxi diretto per il centralissimo albergo “Faiderherbe” e riposo in stanza per qualche ora. Usciamo a piedi, andiamo a caso dove c’è più movimento, sventiamo un potenziale borseggiatore e mi vien da pensare a quanto la Guinea Bissau è un paese sconsigliatissimo da frequentare rispetto al più conosciuto Senegal, solo perché ogni tanto devo pagare qualche euro per passare ai posti di blocco ? Solite e incurabili fobie dell’occidente. Passeggiamo per la zona dei “plateau”, arriviamo fino a vedere l’oceano, poi ci fermiamo a mangiare un kebab. La sera la concludo al bar dell’hotel a bere calvados con Ernesto il marinaio di La Coruna, aveva voglia di chiacchierare e mi comunica, mio malgrado, che l’acquario sotto al faro di Ercole è stato distrutto da una mareggiata l’altro giorno, l’estate scorsa ci avevo portato mio figlio.

sabato, 8 marzo: oggi prendiamo il traghetto per la celebre e tristemente famosa isola di Gorée, un luogo molto africano, dove i destini di un intero continente spesso si sono compiuto, dove ancora oggi c’è un clima particolare, bello, artistico, di speranza e riposo nei confronti di ciò che è stato. Naturalmente c’è da visitare la casa degli schiavi e la porta del non ritorno che dà direttamente sul mare, dove le onde si rompono violentemente sugli scogli, poi a Gorée, soprattutto si passeggia e si guarda, gli artisti espongono le loro tele, le commercianti vendono teli e vestiti, pantaloni bellissimi, il mercato è stretto e racchiuso, poi quando ti pare ti fermi per mangiare un piatto di calamari freschissimi mentre un ragazzo mi aggiusta l’anfibio che stavo per buttare via, colla di baobab, cucitura e lucido nero, e finita la birra fresca li ho nuovi un’altra volta. Dopo la visita al fortino, con un bel museo all’interno, riprendiamo il traghetto per Dakar; questo pomeriggio vorrei assistere ad un incontro di lotta senegalese o meglio “luta”, insieme al taxista e ad un ragazzo dell’albergo la cerchiamo per tutte le “balieu” di Dakar, niente da fare per oggi, forse domani e incrocio le dita. A cena cerchiamo un qualsiasi ristorante, ne troviamo uno, i “big five” dal nome turisticamente abusato, però si mangia bene, un bel pesce rosso con peperoni, una “nouvelle cousine” franco senegalese.

domenica, 9 marzo: giorno di partenza, giorno di ultimi acquisti, giorno in cui finiscono i denari. A Dakar si può comprare di tutto, basta avere pazienza e voglia di camminare e sopportare tutti i venditori, è così che va il mondo, e del resto al mercante rubare un poco è lecito. Ma il gran finale ancora mi aspetta, infatti in maniera rocambolesca, prima di partire riesco ad assistere ad un incontro di “luta” in uno stadio nella periferia della città. Una forza bruta sviluppata tra colossi, tra amuleti magici, sangue di bue, polveri fortificanti, si affrontano vigorosi nel ring polveroso tra le urla dei tifosi, chi cade a terra ha perso, uno sport che è soprattutto abilità. Dopo corsa in aeroporto e via per il volo notturno tra Dakar, Istanbul e infine Roma.