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Sud Sudan (Equatoria)

A Roma, stamattina ho trovato la primavera, un’alba rossa e tersa ancora fredda; le albe di Equatoria sono laggiù, al centro dell’Africa, quell’ora in cui tutta la campagna compare all’improvviso dal buio e noi sui lettini a godere della natura, prima che arrivino le ore bollenti, secche e immobili. Nemmeno una zanzara, notti meravigliose sotto le stelle. A qualche ora dal ritorno, dovevo romanticizzare quei momenti, perché sono i primi a mancarmi. Prima di partire avevo classificato questo viaggio come “etnico”, infatti abbiamo incontrato le etnie più belle, ma, 100 anni fa, per antonomasia, l’aggettivo di Equatoria era Africa, inteso come se il viaggio fosse il riassunto dell’Africa. Oggi i grandi mammiferi non ci sono più, fame e guerre civili li hanno devastati e spinti via: abbiamo viaggiato in un ambiente di savana senza giraffe ed elefanti, leoni e gnu. I nonni, i bisnonni, i trisnonni dei Larim, dei Toposa, dei Jie, dei Lopit si difendevano dagli animali, cacciavano gli animali: quel fiero guerriero fotografato con lancia un tempo rischiava la vita per difendere il proprio villaggio, lo immagino in una lotta studiata, attenta e precisa contro un leone. Tutto cambia in fretta, l’ultimo secolo ha stravolto il mondo e gli effetti indiretti sono anche qua, dove rimane ancora una radice autentica e primitiva che stupisce gli occhi, incanta la mente verso il passato primitivo. Allora, provo ad assegnare anche a questi gruppi etnici un aggettivo comune, ed è “umile”: una parola della nostra cristianità con sfumature francescane, però è l’unica che riesce a porsi come una forza contraria allo strapotere della società dei consumi, antagonista dell’arroganza borghese. In Equatoria siamo l’arroganza, siamo alieni colorati e gonfi di proteine, veloci, spettatori che entrano nella scena e scompigliano tutto, mentre loro rimangono “umili”, sorridono, ci toccano e aspettano doni gratuiti dal cielo. Questa gente viene colta nel suo quotidiano, nella sua vita umile di ogni giorno, essi sono preistorici o astorici, cioè sono fuori dalla Storia, il problema per loro, sarà quando entreranno nella Storia, e allora l’ansia consumistica li devasterà e dalla dignitosa “umiltà” passeranno alla disgraziata “pena”, faranno pena. Questo è il mio viaggio in Equatoria.

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giorno per giorno

 

Mercoledì, 19 febbraio: le partenze, alternate da Roma e Milano, per poi congiungersi in quell’hub portuale africano che è l’aeroporto di Addis Abeba.

Giovedì, 20 febbraio: il volo è regolare, le coincidenze strette e alle 09:10 scendiamo dalla scaletta sul suolo già bollente dell’aeroporto di Juba e a piedi al primo controllo, quello per la febbre gialla piuttosto veloce, segue la dogana dove timbrano il passaporto e appiccicano un adesivo piuttosto dignitoso. Siamo fuori, l’asfalto di Juba si alterna alla terra polverosa, carichiamo velocemente il bagaglio e in 10 minuti siamo all’hotel Royal Palace dove prendiamo le stanze, le buste con i soldi già cambiati con mazzetti enormi per 50 euro, mettiamo le SIM MTN nei telefoni e passiamo le prime ore in relax alla piscina, un luogo che diventerà quasi familiare, l’uscita di sicurezza dal caldo della capitale. Usciamo dall’isola felice dell’hotel alle 15:00 per un city tour della città. Prima tappa il “Konyo-Konyo Market”: tutti i mercati africani hanno una caratteristica comune, sono tutti uguali e vendono tutti le stesse cose, una globalizzazione di serie B, perché più misera e svalutata, cianfrusaglie cinesi, tessuti, frutta, salse sconosciute contenute in piccoli sacchetti di plastica gonfi a pressione che basterebbe uno spillo per farle schizzare lontano. Tuttavia al mercato incontriamo parecchi Dinka, facilissimo riconoscerli perché sono alti, altissimi e magri come le spighe di grano, lì qualcuno di loro si presta a farsi fotografare insieme mimando con le braccia le corna del bue, il loro animale totem. Poi segue la cattedrale, il primo ricordo ad essere dimenticato del viaggio, senza le croci, vista dall’esterno potrebbe essere un magazzino; infine una galleria d’arte che espone 4 tele, una di essa ha un bel soggetto: un uomo con un bue sulle spalle ma è colorato male. Juba è questa qua, possiamo aggiungere un piccolo mercato dell’artigianato per turisti, 4 buoni hotel tra cui il nostro, farmacie, un supermercato cinese e baracche. Però Juba è sul fiume Nilo, il Nilo bianco che esce dal lago Vittoria in Uganda, qui inizia il tratto navigabile verso nord, quindi storicamente era l’ultima stazione commerciale. Sull’altra sponda del Nilo c’è il villaggio di Gondokoro dove nel 1862 l’esploratore inglese J.H.Speke incontro l’altro esploratore Samuel Baker e gli comunicò di aver scoperto le sorgenti del Nilo, svelando uno degli ultimi misteri geografici. Ceniamo ovviamente sul Nilo, al Riverside, una tavolata a buffet, e davanti a noi una chiatta incagliata nel mezzo del fiume.

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Venerdì, 21 febbraio: giornata del lungo trasferimento, un alba/tramonto per percorrere 250 km, in direzione sud/est da Juba e raggiungere le Boya Hills, le piccole montagne abitate dall’etnia dei Larim, il primo dei gruppi etnici che incontreremo, parente stretto dei Didinga che abitano le montagne di fronte, appartenente al ceppo nilo-camitico. Il centro della vita quotidiana dei Larim è il bue, ne bevono il latte, ne mangiano la carne, ne usano le pelli e naturalmente razziano il bestiame come tutti gli altri del resto, guadagnandosi il titolo di nemici giurati dei Toposa e dei Jie, che vedremo nei prossimi giorni. Partiamo alle 07:00 del mattino da Juba, faccio attaccare su ciascuna macchina degli adesivi numerati, non è facile distinguere 8 pick-up bianchi, aiuta la logistica; poi sosta al supermercato cinese prima di lasciare la capitale, compriamo del vino e il problema è pagarlo, perché vanno contate innumerevoli sudice banconote. La strada è pessima e si capisce se impieghiamo un giorno per percorrere 250 km, crateri, buche, asfalto spezzato, tanta polvere e 3 check-point della polizia, occasione per scendere un po' dalla macchina. Alle 12:00 esatte siamo quasi a metà strada, a Torit, la capitale dell’Equatoria Orientale e mangiamo il pranzo all’Hotel Torit, dove c’è Martina, il sorriso più bello della regione. Mangiamo dell’ottimo pollo, il riso con patate e cocomero, alle 13:00 si riparte. Lungo la strada sminatori delle Nazioni Unite bonificano delle aree recintate, attraversiamo il territorio dei Lotuko, poi a destra le montagne dei Didinga, mentre sulla sinistra, al fondo dell’orizzonte, le montagne dei Larim, le Boya Hills. Arriviamo al campo e il sole se ne va, è un peccato arrivare di notte perché non si ha una visione d’insieme, le tende vengono montate tutte vicine all’intero di una bella palizzata. Cena con pesce, verdure, riso ed ananas.

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Sabato, 22 febbraio: rimarrei sulla brandina un tempo indefinito a quell’ora dell’alba ma c’è l’odore del caffè e qualche raggio di sole caldo che mi convince ad alzarmi, andiamo direttamente al villaggio Larim che sta a pochi metri dal campo, è quasi disabitato, un povero vecchio seduto su uno sgabello e qualche bambino. Le capanne sono molto belle, hanno un tetto conico in paglia che in corrispondenza del buco di entrata si allarga, facendo supporre che all’interno ci sia una piccola stanza di ingresso. Nel villaggio non c’è nessuno perché gli uomini in questo periodo di siccità sono via con le bestie, si spostano laddove c’è acqua, mentre le donne si stanno agghindando, vestendo per noi: quando torniamo sono tutte davanti lo spiazzo del nostro campo

pronte a mettere in scena le loro danze accompagnate dal canto. C’è quindi una danza, e mi metto silenzioso ad osservarla: non ha nulla di armonico, battono i piedi e i bastoni a terra, fanno giravolte, corrono, saltano e il canto è piuttosto un urlo, un richiamo, una ripetizione continua, e tutto ciò è magicamente arcaico, come osservare l’inizio della danza e del canto nella storia umana. Per avere questa visione basta fare il confronto con ciò che oggi la danza classica e la musica classica ci offre, ne stavo guardando la genesi in diretta.

Partiamo dal villaggio Larim, alle 10:00 e arriviamo a Kapoeta alle 12:30, dormiamo al “Kuleu Hotel”, ognuno ha una stanza singola perché non ci sono letti separati e ogni stanza oltre al numero ha il nome di uno Stato Africano, a me tocca il Togo, e se un giorno diventerò proprietario di un hotel, chiamerò le stanze proprio così! Il pranzo lo prepara il nostro cuoco Bonny, una montagna di spaghetti primavera che non piacciono a nessuno, li mangio solo perché è pasta. Alle 15:30 partiamo per Riwoto, un villaggio a 17 km da Kapoeta dove c’è la “Saint Patrick Mission” che educa e fa mangiare più di 1200 bambini, incontriamo Suor Mary e oltre ad un’offerta libera in denaro, lasciamo lì borsoni di vestiti e materiale da cancelleria. Circa 600 di loro ci accolgono, ammaestrati dalla suora a pregare e cantare antifone religiose. Anche questo è un ambiente del passato, il Cristianesimo offre il cibo e l’educazione a questa comunità, la chiesa è ancora il punto di riferimento del villaggio, come lo era in un villaggio rurale italiano di inizio 900’, il parroco, l’oratorio, i bambini, le origini dei nostri padri. E il Dio monoteista, che è virile ed Uomo per sua natura, andrà a sostituire gli Dei animisti della campagna e delle stelle che per millenni hanno accompagnato i loro antenati; distruggerà la società arcaica, introdurrà la vergogna e la colpa davanti a un “Dio genitore” cattolico o musulmano, imponendo uno stato virile ed eterosessuale. Il sole sta calando però e le donne Toposa ci aspettano, lasciamo la missione ma ci insabbiamo nel fiume in secca, il primo di molti altri, ma con noi abbiamo Stefan, che è un’abile pilota. Le donne Toposa sono tantissime, un cerchio enorme, saranno forse 1000, tutte lì pronte a ballare e cantare, le mie considerazioni sono le stesse che ho fatto per i Larim, a proposito della danza arcaica. Anche qua prendono i loro sacchi di riso e miglio e torniamo all’hotel Kuleu che è già buio. Cena in hotel, preparata dal nostro cuoco, che dopo la figuraccia del pranzo, si sta impegnando molto di più.

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Domenica, 23 febbraio: colazione calma al Kuleu Hotel e partenza alle 10:30, proviamo a far funzionare il sistema “starlink” un router di connessione satellitare, stavolta il nostro Cosmos non ci riesce ma ce la farà. Prima di lasciare Kapoeta facciamo una passeggiata per le vie tra le baracche, vendono di tutto, ci sono barberie frequentate dai “coatti” del quartiere, grossi saponi che sembrano torroni e ferramenta che vende lucchetti. Partiamo per le 11:00 e alle 12:30 siamo al camp di Mogos, sulla strada ci insabbiamo nel letto di un fiume e incontriamo un villaggio Toposa che sta andando a fuoco. Qua il caldo penso che toccherà punte di 50° gradi, cercano di contenere le fiamme evitando che trovino altro combustibile, del resto, attorno è tutto secco.

Qua siamo in pieno territorio Toposa: la loro vita ruota tutta attorno l’allevamento di bestiame: bovini, caprini ed ovini e quindi è naturale che rivaleggiano con i gruppi etnici circostanti per l’approvvigionamento di acqua e pascoli, scatenando guerriglie e razzie di bestiame. E’ molto comune vedere un Toposa che porta un’arma da fuoco, diventata uno status sociale, il prolungamento di un braccio e sostituzione della lancia. A differenza dei Toposa di ieri, nei pressi di Kapoeta, questi villaggi sono meno inquinati e hanno un’ architettura spaziale straordinaria. Occupano ampi terreni pianeggianti leggermente rialzati, perfettamente puliti a terra, ogni capanna è ben costruita e al suo fianco ha il proprio granaio a palafitta per proteggere il cibo dagli animali. Il villaggio nei pressi del nostro campo è probabilmente uno dei più belli visti in Africa, lo vediamo al tramonto e poi cena con del tonno in salsa come piatto principale buonissimo. Rimaniamo a parlare sotto le stelle fino alle 11:00 e poi altra notte stellata.

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Lunedì, 24 febbraio: oggi, subito dopo colazione andiamo a visitare un villaggio Jie a circa 2 ore di strada sterrata dal nostro campo; i Jie cugini dei Toposa, provengono dallo stesso cluster etnico dei Karamojong in Uganda e dei Turkana in Kenya, infatti ne parlano la stessa lingua. Le donne che ci ricevono al villaggio hanno due particolari nell’acconciatura che li distingue dai Toposa: un copricapo cilindrico di perline e una fascetta di perline che collega con un piercing il labbro al lobo dell’orecchio. Oggi è una giornata ventosa e il vento sferza il villaggio Jie; le donne, riunite in cerchio mettono nuovamente in scena canti e balli, tutti piuttosto

simili e già discussi, ma quando smettono accade qualcosa di diverso, si siedono tutte in un cerchio perfetto con i piedi rivolti verso il centro, ed avviene la distribuzione: ogni due piedi, daremo 1 kg di riso, 4 bustine di brodo di gallina, 1 pezzo di sapone e all’incirca 250 ml di olio per friggere. Distribuivo guardando i piedi, ogni due piedi neri, sotto il sole e il vociare incessante, guardavo solo i piedi non il viso, e sicuramente tutti quegli occhi mi stavano fissando. Un’orgia emotiva, un’ambiguità morale: da una parte l’elargire al povero dall’altra la mia posizione in piedi e loro sedute, mi ha fatto bene, ero felice, ma in realtà oggi, la vedo come una semplice toppa alla mia coscienza piena di buchi. Di ritorno dal villaggio Jie, ci fermiamo dal capo della comunità Jie, che abita in un polveroso spiazzo dentro ad un container “maersk”, attorno a lui 3 boiler dell’acqua vuoti e qualche gallina, si prende un mazzetto di pounds sudici e 250 litri di acqua. Torniamo al campo di Mogos, troviamo le tende completamente rovesciate dal vento nonostante dentro ci fossero bagagli e lettini ma le lasciamo così, è inutile rimetterle a posto. Per il pranzo ci spostiamo tutti sotto al grande albero, più fresco e solenne, tanto da indurci a discutere: dopo accurate analisi, decidiamo tutti insieme di cambiare il programma, senza escludere niente, aggiungendo l’etnia Lopit e di contro un ritmo più serrato e una notte in meno in hotel. Poi felici, giochiamo ad “Uno” ricordo di aver vinto due partite, ma quanto sonno! Al tramonto, di nuovo a piedi al villaggio Toposa di Mogos, dove le donne cantano e danzano e si ripete la stessa distribuzione avvenuta al mattino con i Jie.

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Martedì, 25 febbraio: oggi smontiamo il camp di Mogos dopo due notti meravigliose sotto i cieli dell’Equatore. Si parte alle 09:00 per Kapoeta e alle 11:00 siamo già in hotel, con un solo insabbiamento lungo il percorso che come al solito Stefan risolve. Le stanze non sono ancora pronte e ci fermiamo al bar, stavolta mi tocca “Zaire” al terzo piano, è il segnale che volevo, bisogna crederci e un giorno andrò in quel cuore di tenebra. Nel pomeriggio, andiamo tutti alle “Golden Mines” le miniere d’oro di Kapoeta, scavate lungo il letto di un fiume, ci stiamo poco, solo 30 minuti che volano via come fossero 5, perché l’accesso ad esse non è scontato, e il governo non vede la cosa bene. Effettivamente si tratta di tanti buchi scavati nel letto o al ridosso del letto

del fiume, e nella moltitudine potrebbe essere molto facile cadere dentro: questi buchi superano il primo strato sabbioso, poi lo strato roccioso che varia di qualche metro e infine di nuovo il sabbioso, e lì sta l’oro o almeno dovrebbe stare. Questi uomini si infilano dentro, scendono e salgono su scalini di roccia intagliati nelle pareti del buco, con una torcia in bocca e tirano su secchi di terra che poi verranno setacciati, è terrificante. Quei buchi nelle campagne di Kapoeta, conducono ad un inferno, lì sotto inizia, c’è il caldo, c’è il buio, c’è la morte, c’è la dannazione, dove il valore di una vita si pesa sulla bilancia da un braccio e sull’altro braccio qualche granellino d’oro, questo vale. Prima di tornare in hotel ci fermiamo a passeggiare a Kapoeta, c’è una partita di calcio e andiamo a vederla, dopo si torna a piedi e compriamo del vino per la cena. In Hotel la nottata sarà lunghissima perché non tira un filo d’aria, e al terzo piano fa caldissimo.

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Mercoledì, 26 febbraio: sveglia alle 05:00 del mattino ma si partirà solo alle 06:30, oggi andiamo dai Lopit. Lungo la strada, attraversiamo diversi confini segnati da un ponte e quindi da un fiume: lasciamo il territorio Toposa/Jie per entrare in quello dei Larim, poi un altro ponte e siamo in territorio Lotuko, poi c’è il bivio a destra, la strada peggiora ulteriormente e entriamo in territorio Lopit, sono solo 54 km ma impieghiamo quasi 3 ore per raggiungere il villaggio sulle colline a 620 metri sul livello del mare. Sulla strada incontriamo le truppe UN intente a cambiare una ruota e diversi pick-up. Arriviamo all’ora di pranzo e il cuoco finisce di cucinare il pollo al curry, poi giochiamo a briscola all’ombra, e perdo. Qua Starlink funziona, Cosmos c’è riuscito e possiamo connetterci. Nel pomeriggio andiamo al villaggio Lopit, diverso dagli altri, poiché piuttosto che distendersi sulla pianura le capanne si arrampicano sul versante di una collina e mettono in scena i loro balli e canti nella piazzetta principale, con le tribune “ideali” gremite di bambini. I costumi dei Lopit sono completamente diversi: gli uomini indossano un pesante copricapo composto da un cerchio di supporto sulla testa adornato dai cauri, subito sopra una specie di colbacco nero, una lancia che esce fuori, segue un pon pon nero infilzato e una piuma finale, inoltre sono nella tonalità del nero e del bianco. E soprattutto ci sono uomini nel villaggio, che ballano e cantano, perché qui hanno acqua e non hanno bisogno di spostarsi per il bestiame. Faccio la doccia da campo, cena e parole sotto le stelle.

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Giovedì, 27 febbraio: stamattina si parte prima dell’alba, a piedi 30 minuti sopra al villaggio Lopit, perché è stato organizzato il set fotografico con le luci dell’alba. Saliamo su con le torce frontali, la salita non è facilissima ma si rivelerà più difficile a scendere; i fieri e pittoreschi guerrieri Lopit assumono per noi pose plastiche su due rocce, a seconda dell’inquadratura che scegliamo. Nel complesso le foto vengono bellissime anche se spudoratamente “fake”, ma di quella mattina ricorderò per sempre la sveglia dei galli nel villaggio: un chicchirichi assordante che sembrava alzarsi sempre più di volume fino all’infinito, bell’ascolto. Scendiamo a far colazione al campo e poi si parte, oggi sarà il trasferimento più lungo, dalle 08:50 alle 17:30 l’arrivo in albergo, con il nostro toyota sofferente e balbettante. A pranzo ci fermiamo a Torit, al ristorante di Martina il sorriso più bello di Equatoria, e poi a cena in hotel al Royal Palace. Tutti stanchi, a dormire.

 

Venerdì, 28 febbraio: la mattina è di relax, libera: chi va al mercato dell’artigianato, chi in piscina e chi ai massaggi come me. Era necessaria e obbligata, poiché nel pomeriggio abbiamo il “Mundari Cattle Camp”, la giornata con più aspettative del viaggio. Il villaggio Mundari vero e proprio è a circa 2 ore di strada da Juba ed è quello stanziale con le donne, noi invece andremo al “cattle camp” quello con le grandi mandrie di bovini che si sposta alla ricerca dell’acqua, è per sua natura nomade quindi errante nella savana attorno a Juba, stavolta è piuttosto vicino, a soli 20 minuti e all’orizzonte si vedono i palazzi della città. La nostra visita si svolgerà in 2 momenti diversi, le ore del crepuscolo e le ore dell’alba con attività distinte: al tramonto le vacche tornano dal pascolo richiamate dal “tam tam” del tamburo, vengono legate, pulite e spazzolate applicando una pasta di laterite e fango su corna e garrese che viene poi rimossa appena si secca lasciando la superfice pulita. All’alba invece, i Mundari si svegliano, si lavano con l’urina della mucca ricca di ammoniaca (infatti molti di loro hanno i capelli tendenti al biondo) e per le mucche che hanno perso il vitellino soffiano nella vagina per la stimolazione del latte ed evitare mastiti. Queste le attività, poi va descritta l’atmosfera del luogo, al limite con l’irreale, poiché è costantemente avvolto dai fumi di sterco bruciato, c’è un lezzo costante di erba e merda bruciata che scaccia via insetti e zanzare, e i bambini hanno il compito di alimentarlo. Un luogo oltre,

oltre a qualsiasi stereotipo, oltre il tempo; ho vagato al tramonto senza meta in un labirinto di corna, più di una volta ho sentito la forza di domare quelle bestie immobili, cercavo con loro un contatto brutale, volevo sottometterle come fanno i Mundari, avevo addosso un istinto primitivo. Ed ho provato a farlo, quelle grosse corna d’avorio, abbassarle al suolo, ancora adesso sento al pensiero, l’impugnatura perfetta di esse nel palmo della mia mano. Torniamo al camp che è quasi buio, intossicati dal fumo e cena con spiedini, e un vino bianco al cartone eccezionale solo perché finalmente è fresco! Verso le 20:00 udiamo il fracasso della danza e del canto Mundari, torniamo al campo a vedere, e tra il buio, la polvere e il fumo, stanno festeggiando, conduce una specie di trenino un grosso corno di bue con il suono basso e grave, agitano bastoni all’aria, è tutto indefinito, sfumato, perso nello spazio e nel tempo. Notte in tenda, la prima dopo 4 notti all’aperto, e avrò perfino un po' freddo.

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Sabato, 01 marzo: si sa, i pensieri del mattino sono pieni di slancio e prospettiva rispetto a quelli del tramonto malinconici e sinistri. Quindi vivo l’alba al “cattle camp” con curiosità, con voglia di ridere e scoprire le bizzarre abitudini dei Mundari: la pioggia dorata con urina di mucca e il cunnilingus alla vagina della mucca stupiscono sicuramente, ma riguardando il mio video vedo nel ragazzo che soffia un atto semplice, naturale quindi non ha niente di “sporco”, di “schifoso”, di “repulsione” è semplicemente così, ben diverso sarebbe se lo facesse uno di noi, allora diventerebbe degradante e difficile da capire se non giustificabile con turbe psichiatriche.

Torniamo al campo per la colazione e iniziamo con i primi saluti, se ne vanno Bonny e Gladys, cuoco e aiuto cuoco, mentre noi proseguiamo il nostro viaggio verso nord, nel “Lake State” nel Sudd, verso Minkamman. Da Juba a Minkamman sono 2 ore e mezza di quasi tutto asfalto, oggi saremo nel Sudd, la seconda più grande palude del mondo, laddove il fiume Nilo si allarga raggiungendo fino a 250 km di larghezza e in lunghezza arriva fino ai confini con il Sudan. Il Sudd è un ecotono tra savana e deserto, un orizzonte piatto e infinito, dominato da due colori, il verde di giunchi e papiri e il celeste/blu dell’acqua, una monotonia percettiva che sfianca gli occhi, abitato dai Dinka che si muovono tra le isole galleggianti, immaginarlo di notte

dall’alto è una macchia nera con qualche stella, sono i fuochi dei pescatori. Non è particolarmente piaciuto, anche perché abbiamo raggiunto un mini villaggio di due capanne dopo due ore e mezza di navigazione nelle ore centrali della giornata; per me è diverso, perché il mio giudizio è inquinato dalle imprese di Romolo Gessi Pascià nella seconda metà dell’800, quando affrontava il Sudd impenetrabile e combatteva contro gli Shiluk e i mercanti arabi che qui venivano a far rifornimento di schiavi Dinka. Imprese epiche, romanzate, che eccitano la mia fantasia. Torniamo a Juba che è già notte, è l’ultima sera tutti assieme.

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Domenica, 02 marzo: è il giorno della partenza, in 6 partono con l’aereo per Addis delle 11:00, gli altri 12 compreso me con quello delle 16:50. Alla prossima avventura!

Ringrazio tutto il gruppo per la pazienza a sopportarmi

Ringrazio tutto lo staff di Donald: le guide Lina, Lucy e Patrick, il cuoco Bonny, l’aiuto cuoco Gladys e Latim, gli autisti Ali, John Kan, Cosmos, Roni, Emanuel, Rony, Kaya e Ibrahim.

Ringrazio BHS Travel per l’organizzazione e il supporto

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