Tchad, Ennedi
novembre, venerdì: il viaggio, dopo un periodo di innumerevoli imprevisti, piccole preoccupazioni, ostacoli da saltare, finalmente parte, e sarà perfetto, grandioso, inaspettato. Già in aereo (Egypt Air Roma-Il Cairo)inizio a comunicare, prima con il mio vicino Mido, un egiziano esperto di PC che lavora a viale Marconi, poi con un gruppo di italiani che va in SudAfrica, e le 3 ore e mezza del volo se ne vanno. A Il Cairo, visto che il mio scalo dura 14 ore, ho il diritto al Novotel, mentre al desk sbrigano le pratiche conosco Joyce e insieme, con la navetta, ci accompagnano in albergo. Cena inclusa nel trattamento Egypt Air, essenziale con pollo e riso ma buona; qualche ora dopo arriva Tiziana, mentre con il resto del gruppo ci incontriamo domani a N’Djamena, dove i nostri voli sono più o meno contemporanei nell’orario di arrivo, il mio alle 12:30, quello Ethiopian nemmeno un’ora dopo.
28 novembre, sabato: la solita adrenalina della prima notte d’Africa che non mi fa dormire, nonostante sia in Egitto per uno scalo, poi ho recuperato sull’aereo mezzo vuoto per N’Djamena, prendendomi i 3 sedili a disposizione. Moussa, il corrispondente ciadiano, mi stava aspettando al ritiro bagagli, quest’ultimi arrivano tutti, di entrambi gli aerei, e tutto il gruppo si compone, siamo 10. L’ufficio dell’agenzia è a pochi passi dall’aeroporto, là ci aspetta un buon panino con l’omelette e tutte le varie formalità da espletare, il saldo da pagare, e 20 euro a persona per la registrazione all’uffico d’immigrazione, (il funzionario è venuto lui, direttamente da Moussa ad aspettarci, i meccanismi burocratici vanno sempre oleati, senza fare troppe domande). Una parte del bagaglio che non serve e un cambio pulito, lo lasciamo direttamente in agenzia per poi riprenderlo al ritorno.
Si parte alle 14:00 esatte, direzione est per una lunga strada asfaltata e un po’ bucata che taglia in due una brousse monotona e uguale in tutto il Sahel, poco più di 3 ore di viaggio, circa 200 km percorsi che ci avvantaggiano per la giornata di domani (da programma, oggi saremmo dovuti rimanere a N’Djamena). Il campo lo montiamo a qualche centinaio di metri da questa strada asfaltata, un luogo qualunque, poco dopo il villaggio di Ngoura sulla strada verso sud, verso Bitkine (purtroppo la strada principale è interrotta e dobbiamo deviare. Pascal è il nostro cuoco, nativo delle regioni del sud del Tchad, precisamente Mouro, è cattolico protestante e scommette tutti i suoi soldi sui cavalli: ci serve il primo aperitivo del viaggio, che poi sarà sempre lo stesso, carcadé, thè, aranciata in polvere da sciogliere, olive verdi, arachidi, datteri duri come ceramica, e a volte, una specie di patatine di pesce secco, non molto apprezzate. Poi per cena prepara un buonissimo spezzatino di carne di montone e verdure miste, iniziamo a parlare tra di noi, ci conosciamo. Dopo Pascal, presento gli altri componenti dello staff: Djebril, autista e capo guida, nonché Imam, prega quasi ad ogni sosta, anche di notte, si sveglia e recita versi del corano e chiama gli altri alla preghiera, è bravo ma ha un carattere schivo e sicuramente nella guida non è il migliore, nativo della regione del Tibesti, di Bouro precisamente. Poi c’è Omar, anche lui del Tibesti ma della remota Azou, è il più simpatico e forse il più bravo tra gli autisti, soprattutto abile nel trovare piste alternative. Infine, Alkalì,
ottimo autista anche se talvolta distratto, è un meccanico, anche lui musulmano e nativo della città di Ati, nel centro del Tchad.
29 novembre, domenica: oggi è stata una lunghissima tappa di trasferimento, ancora sempre asfalto, abbiamo attraversato i villaggi di Bokoro, Bitkine, Mongo, Mangalme e Oum-Hadjer. Prima colazione e partenza, sempre solita brousse, a parte qualche pozza interessante da fotografare ed una roccia monolitica alta 100/200 metri. Primo pranzo sull’erba con insalata mista, pomodori, cetrioli e un buon formaggio, proprio durante questa sosta gli autisti diagnosticano un problema ad un tubicino degli iniettori, perde gasolio e domani ad Abeché andrà sostituito. Durante l’ultima sosta, nel villaggio di Oum-Hadjer, grazie a Renato, assaggiamo un ottimo capretto arrostito, tenero e saporito, tagliato a piccoli bocconcini simili a patate fritte di colore marrone, notevole in una parola. La cottura avviene lentamente, in forni circolari in banco, aperti sopra, la carne viene appoggiata sulla griglia e su un foglio di giornale bagnato, ci vogliono circa 6 ore, perciò vi consiglio di assaggiarlo nel tardo pomeriggio, come abbiamo fatto noi. Il campo lo montiamo a pochi chilometri da questo villaggio, a caso nella campagna, dove i contadini avevano ammucchiato del sorgo battuto. Cena con risotto al pomodoro, grana padano e una banana. Solitamente vicino ai centri abitati più grandi i cellulari prendono, e proprio mentre stavo telefonando, con la lampadina frontale inquadro un bel scorpione chiaro, giallino, con l’aculeo pungente nero, è il più velenoso di tutti.
30 novembre, lunedì: sono le 21:15 a 30 km da Kalait anche chiamata Oum-Chalouba, in tenda, smossa a destra e sinistra dal vento forte, ha iniziato l’Harmattan.
Stamattina, smontato il campo ci siamo diretti ad Abeché, l’ultimo avamposto prima dell’Ennedi, la regione magica e sconosciuta del Tchad. Qua c’è un ospedale, un aeroporto della cooperazione, un bel mercato, ma soprattutto qua finisce la strada asfaltata, d’ora in avanti solo pista, fino all’11 dicembre, il giorno che rientreremo in capitale. Per fortuna, in poco tempo ad Abeché riescono a sostituire l’alimentazione dell’iniettore, Pascal fa la spesa, mentre noi passiamo le due ore a passeggiare per il mercato e bere un thè. Si riparte alle 11:00, alle 12:00 (e sarà sempre così per tutto il viaggio, puntuali come svizzeri) sosta per il pranzo nel mezzo di una radura sabbiosa, in un wadi, sotto a due grandi acacie. Una fresca insalata, come quella di ieri, accompagnata da pane, aranciata in polvere e il thè per chiudere il pasto. Le jeep corrono velocissime sulle piste sabbiose, superiamo i villaggi di Biltime, poi Arada, e sosta per il 3° campo a 30 km da Kalait. Da oggi mi accorgo che il mio corpo è entrato a pieno regime nel viaggio, mi sono ben lavato, piedi, viso ed ascelle, sono stato nel bagno della brousse per la prima volta, ho letto un po’, controllo di più le sigarette ed ho iniziato a scattare foto, seppur quest’ultima attività, più passano i viaggi i più mi annoia, mi deconcentra, sembra un qualcosa che devo fare per forza perché lo fanno gli altri, poi se non lo faccio mi pento perché poteva essere una foto meravigliosa. Stasera cena con pasta al sugo e spezzatino di montone.
1 dicembre, martedì: appena smontato il campo e caricate le jeep si parte per l’Ennedi, oggi si entra nel giardino del Sahara. La prima sosta è poco dopo a Kalait, un villaggio di frontiera dove mentre beviamo un thé per riscaldarci dal freddo mattutino, gli autisti fanno il pieno alle auto col distributore a manovella che aspira dal bidone e Pascal fa riempire tutte le taniche d’acqua direttamente dal basto di un asino. A Kalait il vento sembra rinforzare soprattutto nella periferia polverosa; arriviamo alle 12:00 in punto al grand’arco di Terkei, e all’interno sostiamo per il bivacco del pranzo. Dentro a questa gola siamo al riparo e possiamo ammirare e fotografare in tutta tranquillità le prime pitture rupestri, qua furono disegnati gli uomini e le donne con le teste da marziani; nel frattempo i nostri autisti rimangono affascinati dalla mia guida del Tchad in francese, della Petité Futé, ed iniziano a ripassare la loro storia, divertendosi mentre il cuoco
prepara la solita insalata fresca con il formaggio. Poco fuori a Terkei, sulla sinistra, le pitture rupestri della “Grotte des hommes aux grosses tetes”, infatti raffigurano donne con delle grosse tette.
In poco tempo tra le meraviglie di arenaria che spuntano fuori nel paesaggio all’improvviso, avvistiamo un fennec, un coniglio, una gazzella e un solitario cammelliere che ci chiede una sigaretta. Quindi entriamo ufficialmente nell’Ennedi attraverso la porta principale, ovvero dei grossi monoliti verticali che sembrano fare da guardiani: girando a sinistra di essi c’è la grotta “de la Vaché Geante”, ci si arriva attraverso un breve galleria e la vacca incinta è bella e abbastanza grande, senza dimenticare che attorno ad essa ci sono innumerevoli pitture rupestri. Prima di fermarci per la notte, l’arancione tramonto del deserto ci mostra le ultime pitture della giornata, quelle di “Manda Gueli”, forse sono le più raffinate e conservate ma si possono ammirare solo dal basso verso l’alto all’interno di una larga gola con la duna. Montiamo il campo praticamente sul retro della Guelta d’Archei, ma ce ne accorgeremo solo domani. Le tende sono in un wadi ma il vento è piuttosto insistente, del resto sarà la costante del viaggio.
Pascal stasera ci ha preparato zuppa, spaghetti al pomodoro e composta di mele; sotto al tavolino, nella sabbia, c’è un mondo che vive, scarafaggi, lunghi vermi pelosi, formiche. Dopo cena allestiamo un falò, ma il vento ne cambia continuamente la direzione.


2 dicembre, mercoledì: oggi il massimo del viaggio, sicuramente il luogo più conosciuto del Tchad, anche se questo paese di sorprese ne offre moltissime. Partiamo dal campo smontando solo le tende alle 07:15 e iniziando un trekking di un’ora e mezza, affrontato molto lentamente (media difficoltà); prima si sale su grossi sassi di arenaria con qualche passaggio dove bisogna prestare attenzione, si attraversa il canyon di Archei, pieno di sabbia bianca finissima e qualche acacia, quindi si risale per arrivare alla terrazza e fermarsi a contemplare quanto è bello il nostro mondo. Sotto di noi le acque nere, dai riflessi verdi del fiume Archei che nei millenni ha scavato il suo canyon, i cammelli ancora non ci sono ma arriveranno puntuali in mandrie alle 09:00 in punto, annunciati dalle urla lontane dei bambini che sono i loro pastorelli. Dalla terrazza si può scendere tranquillamente fino alla spiaggia sottostante, dove avrebbero dovuto stare i prestorici coccodrilli del Nilo, ma non li vediamo, forse sono imboscati tra i cespugli di papiri. Dopo migliaia di foto, alle 11:30 siamo di ritorno al campo dove Pascal in tutta calma ha cotto due grossi cosci di pecora con barbabietole rosse. Dopo pranzo andiamo ad ammirare la Guelta dal basso, praticamente dall’angolazione opposta parcheggiando le jeep all’interno, dove il lezzo dell’urina dei cammelli è ancora più forte.
Ripartendo, subito dopo lo spiazzo di Archei ci sono interessanti pitture rupestri anche se un po’ nascoste. Oggi siamo proprio nel cuore dell’Ennedi, dovunque giri lo sguardo le arenarie hanno le forme più bizzarre, a volte sembrano castelli diroccati, oppure hanno finestre che sembrano scavate dall’uomo, invece niente di tutto questo, è stato il vento, a volte l’acqua e soprattutto il tempo. Tra le più belle c’è l’arco dell’elefante. Montiamo le tende proprio sotto alle rocce chiamate la cattedrale, stupefacente, solo
le foto possono dare un’idea, gli aggettivi mi hanno stufato. Cena con zuppa di peperoncini piccanti e riso al sugo di tonno.


3 dicembre, giovedì: a circa mezz’ora dagli archi della cattedrale c’è l’arco più alto di tutti, quello di Alouba, 83 metri di imponenza, ventoso e straordinario. Lì vicino c’è un piccolo villaggio di nomadi, 4 capanne, in esse un povero bebè non smette di tossire, ma cosa possiamo fare? Miseria. Dopo Alouba, un’ora e mezza di strada attraverso l’Ennedi, si arriva alle dune, ma soprattutto alle formazioni verticali di Kesebì, e poco più in là i funghi di roccia, è tutto così, extraterrestre in una parola. Altra sosta alla guelta di Deli, quella che i miei compagni ricorderanno come la fonte dell’asino morto: alcune donne fanno scorta d’acqua con le loro ghirbe di capretto, ma perché non togliere la carcassa nauseabonda dell’asino proprio sotto alla fonte, che in sé sarebbe un luogo piacevole. Di fronte alla fonte di Deli, ci sono altre pitture rupestri, noi ci fermiamo a pranzare poco più in là, nel mezzo del deserto all’ombra di grosse formazioni rocciose, tutte da esplorare, se non fosse per il sole non si smetterebbe mai di passeggiare, ogni angolo è una nuova scoperta. Dopo il pranzo inizia il tratto più divertente per chi guida, le jeep entrano nel canyon di Bichiké, alcune rocce sembrano tagliate a posta per farci passare, stretti viali pieni di sabbia, salite e discese, acacie e qualche capanna Tebu, fin quando il canyon arriva a restringersi talmente tanto che dobbiamo scendere e proseguire a piedi. Nelle rocce si apre una fessura, altissima e così stretta che allargando le braccia a volte se ne toccano le due pareti, essa poi si riapre in un altro canyon, in fondo al quale troviamo due pozze di acqua piovana, bella verde.
Proseguendo il nostro tour nel giardino del Sahara il paesaggio cambia, alle dune gialle coperte di erbetta secca si sostituisce la sabbia arancione, le formazioni di arenaria non sono più guelte ma si trasformano in una serie infinita di pinnacoli di qualsiasi forma voi potreste immaginare, vicino al luogo del nostro campo, a me sembra ce ne sia uno con la testa di un leone. Questo altipiano si chiama Abaiché, è molto ventoso e quasi tutti iniziamo a mettere il copritenda, fa anche più freddo, siamo a circa 550 metri slm. Pascal per cena ci ha preparato un’ottima pasta con caponata di verdure.


4 dicembre, venerdì: alba sull’altopiano di Abaiché, siamo a circa 20 minuti dalla città di Fada, basta solo scendere a valle. Questo villaggio sviluppatosi attorno all’oasi è sicuramente più piccolo di Faya Largeau, ha un fortino con una guarnigione militare, un mercato dove si può trovare un po’ di tutto, una grande piazza d’armi, qualche modesto bar, e il comune con un bel poster dell’attuale presidente del Tchad Idriss Deby e il suo discorso alla nazione del 1990 quando ebbe la meglio sulle armate libiche di Gheddafi (proprio a Fada arrivarono i carri armati libici, e alcuni di essi sono ancora fermi e scoppiati alla periferia del villaggio). La sosta a Fada è comunque necessaria per ottenere permessi di circolazione, rifornirsi di acqua potabile e benzina. Nel frattempo bevo per la prima volta nella mia vita una birra analcolica, uno schifo. Quindi poco fuori la città ci fermiamo al museo all’aperto dei carri armati e proseguiamo.
Sosta alle pitture rupestri di Totor, non sono certo indimenticabili rispetto alle altre, e sosta pranzo alle pitture rupestri di Bichigara, queste si che meritano, esse raffigurano dei cammelli straordinariamente eleganti. Pranzo veloce con insalata mista e sardine, infatti venerdì pesce. Nel pomeriggio il paesaggio perde un poco della sua bellezza, diventa monotono, ma, non faccio quasi in tempo a dirlo (e chi era in macchina con me può testimoniarlo) che aggirando un massiccio a sinistra ci appare la meraviglia del massiccio del Cortolulà, di cui, vedendo solo le foto il turista medio direbbe che è il gran canyon americano, anche se per me è anche più bello. Ci accampiamo nell’oasi di Anoa, tentando invano di convincere la popolazione locale ad ospitarci in una capanna, se non altro per evitare il fastidio del vento, ma non è possibile. Tuttavia montando le tende tra le palme, vicino ad un piccolo laghetto acquitrinoso, riusciamo a parare un po’ del furore dell’Harmattan anche se, in compenso qua ci sono le zanzare. Pascal prepara la cena: spezzatino di pecora e patate al sugo, poi per chi vuole è sempre disponibile a cucinare un omelette.


5 dicembre, sabato: lasciamo l’oasi di Anoa alle 07:30, tornando indietro un piccolo tratto ed iniziare ad affrontare il passo di Cortolulà, qualche insabbiamento, a volte dobbiamo scendere e aiutare a spingere per
brevi tratti le jeep. Più saliamo e più aumentano i sassi, sempre più grossi e pericolosi, si procede molto lentamente, c’è anche una vecchia carcassa di jeep, fusa in parte, probabilmente saltata su una mina chissà quanti anni fa. Durante questo difficile passaggio, per non far mancar nulla, ci sono i bassorilievi di Cortolulà (les gravurés), rappresentano principalmente una grossa vacca dalle corna giganti, potrebbe essere l’uro, il grande bovino ormai estinto. Quindi dopo il plateau, abbastanza nettamente, siamo nella depressione di Mourdi, piuttosto il mare di sabbia: iniziano dune e dune, tutte uguali, dove sembra impossibile orientarsi, con in atto una tempesta di sabbia; il vento lo ricordo a chi legge, è stata una costante di tutto il viaggio.
Poi a nord, appaiono come miraggi delle montagne, sono i massicci di Bezze Teranga,Mayar e Terkezì. Alla sabbia iniziano ad aggiungersi dei ciuffi d’erba che fanno ballare non poco le jeep, ma è mezzogiorno, ci fermiamo a mangiare nel mezzo della pianura: Pascal ha preparato un ottima insalata di pasta con mais, tonno e fagiolini, per frutta un cocomero. Se guardiamo in alto nel cielo c’è un alone solare, generato dalle nubi alte, i cirri, con il sole; dopo qualche ora queste nubi inizieranno ad abbassarsi e le giornate inizieranno ad essere quasi sempre nuvolose, fino a Faya Largeau, togliendo moltissima luce per le foto.
Proseguiamo in direzione nord/est, attraversando la valle delle dune arancioni di Mardà, in un’area qualsiasi sono ancora conservate delle macine preistoriche in pietra, alcuni cocci, sassi bellissimi, laggiù sullo sfondo un canyon. Attraverseremo questo canyon, prendendo la direzione nord, quindi altre dune arancioni e l’incontro inaspettato con le carovane del sale, sono circa 200 cammelli, divisi a gruppi di 10 circa, sono carichi di sale animale (quello marrone che sembra roccia friabile), e lo stanno trasportando per la vendita nelle regioni del sud del Tchad. Subito dopo l’oasi di Demi, dove stanno appunto le saline: in questo villaggio non solo capanne, ma anche case di mattoni in banco, una scuola dignitosa, bei palmeti e naturalmente la fonte d’acqua. Stasera voglio preparare io la cena, con gli ingredienti a disposizione scelgo la carbonara di zucchine e Pascal è contento perché può aggiungere un altro piatto al suo menù; è buona ma avremmo dovuto prepararne un mezzo chilo in meno in rapporto al condimento, e poi a viaggio finito, mi sento di dire che i piatti di Pascal erano di gran lunga migliori, io è meglio che cucino in Italia.


6 dicembre, domenica: un vecchio, presumibilmente il capo villaggio di Demì, ci accompagna alle saline, ma noi, ignari, non abbiamo capito nulla, c’erano soltanto delle ceste piene di stracci e terra rossa, un paio di case semidistrutte: ma tra quei sassi, in quelle ceste, guardando più attentamente si notavano i cristalli del sale, era infatti il sale grezzo destinato ad uso animale. Ma l’abbiamo saputo dopo. Prima di partire da Demì, compriamo un capretto intero per 40.000 CFA, un prezzo esorbitante ma ricordo che è stata l’unica spesa in cassa comune di tutto il viaggio. Lasciato il villaggio, le nostre jeep iniziano a fare su e giù per le
dune di Erbì, ci fermiamo quindi all’oasi salina di Teguedì, un piccolo laghetto salato circondato da palmeti e papiri che fanno da confine tra l’acqua e la sabbia.
Oggi il mezzogiorno cade proprio al lago dolce di Ounianga Serir, l’unico poiché gli altri sono salati: ed impiego pochissimo a farmi un bel tuffo nelle acque gelide che si portano via tutta la polvere e la sporcizia di questi giorni, poi ci pensa il vento e il sole ad asciugarmi in poco tempo, se oggi avesse fatto più caldo questo luogo sarebbe stato delizioso per lavarsi e nuotare un po’. Finalmente oggi si pranza con lo speck che Renato aveva portato dall’Italia e un l’insalata che invece ha preparato Pascal, subito dopo mi addormento sotto il sole. A soli 500 metri dal lago dolce c’è il lago Ounianga Serir, quello salato e molto più grande, sulle rive il sale fa un po’ di schiuma. Vicino al lago c’è il villaggio, un presepe di case sparse, alcune sono di mattoni in banco altre sono capanne nomadi, e di molte capanne solo lo scheletro in legno: in questo modo i pastori quando tornano devono soltanto mettere le stuoie di papiro e la loro casa è pronta. Anche qua c’è una scuola, sulla lavagna il testo di un dettato, ma oggi è domenica. Qua gli autisti ci riforniscono di acqua potabile direttamente dal pozzo, poi, montate le tende il solito aperitivo di datteri, olive ed arachidi con l’aranciata in polvere, mentre Pascal prepara il capretto con le verdure e il cous cous. Prima di andare a dormire sentiamo gli sciacalli con i loro ululati, anche stanotte ha fatto freddo.


7 dicembre, lunedì: al risveglio faceva freddissimo, il cielo completamente coperto da nubi basse e il solito vento; poiché il pane ieri sera era terminato, Pascal ha lavorato fino alla mezzanotte preparando lui una focaccia per la nostra colazione, veramente lodevole. La prima parte del viaggio in jeep è tutta dune, talvolta sembra che sbaglino strada, poi si riprendono, sosta per procurarsi un po’ di legna per il fuoco, e poco dopo siamo al lago Katan che è comunque collegato al bacino idrografico di Ounianga Kebir. Ma fa un grande freddo, il rimpianto più grosso è proprio quello di non poter godere con il caldo queste meraviglie naturali: Katan ha due colori separati da una lingua di terra, le acque rosse da una parte e le acque turchesi dall’altra. Poco più avanti c’è l’Ounianga Kebir (ovvero Ounianga il grande), è probabilmente l’ultima perla naturalistica del nostro viaggio e anch’esso ha una piccola parte di acque rosse, sicuramente ricche di ferro. Successivamente andiamo al villaggio, dove Djebril deve sbrigare le formalità burocratiche legate ai nostri permessi, mentre noi abbiamo il tempo per passeggiare tra la polvere, i militari e le baracche; compro qualche matita e le regalo al maestro di una scuola, stava insegnando ad una classe di ben 44 alunni.
Oggi il mezzogiorno cade sulle rive del lago, sotto al villaggio praticamente, le palme coprono abbastanza, e sui tappeti rossi in stuoia mangiamo dell’insalata di riso. Torniamo sull’altura dove stamattina l’Ounianga Kebir si è rivelato ai nostri occhi, per provare a fotografarlo con una luce migliore e poi tre ore di viaggio noiose per un deserto brullo e pieno di sassi, dove la pista è lievemente percettibile. Piantiamo il campo vicino ad alcune palme solitarie, come se esse fossero un simulacro di protezione, ma in realtà non proteggono da nulla, poiché siamo nel nulla, solo in lontananza, direzione sud/ovest, c’è una piccola riga di
montagne che frastaglia l’orizzonte, è l’altopiano di Bembeché, che domani dovremo attraversare. Cena con pasta, sugo di tonno e vegetali vari, qua fa troppo freddo per rimanere a parlare sotto il lume della lampada, presto in tenda, con calzamaglia e cappello di lana dentro al sacco a pelo. Il nostro fuoco è solo un fioco lumicino sotto alla volta stellare, un granello infinito come tanti altri.


dicembre, martedì: partenza dal nulla abbastanza presto, perché il freddo mette fretta. Ancora un po’ di quel deserto brullo e piatto, poi finalmente iniziamo a salire il famigerato altopiano del Bembeché: cominciano dune altissime e spuntoni improvvisi di roccia, piccole montagne di arenarie e passaggi strettissimi, dove trovare la via d’uscita è solo roba per esperti del luogo, e Omar lo è. Alkalì, il mio autista di oggi, sbanda e squarcia una gomma, ci vogliono 20 minuti per sostituirla, in fondo questa ruota bucata è stato il solo e piccolo imprevisto di tutto il viaggio, e per il Tchad è un lusso. A volte bisogna scendere e spingere le jeep insabbiate, un’altra volta scendiamo per ammirare i bassorilievi rupestri di giraffe ed elefanti, incisi quel giorno che il Sahara era verde e qua c’era la savana.
Più scendiamo verso Faya Largeau e più la sabbia diventa più fine per la presenza dell’oasi e quindi del wadi, mentre in cima al Bembeché era di granulometria più grossa: ciò comporta che la visibilità è sempre più ridotta, mentre quella grande fa più male sul viso ma il cielo resta terso. A Faya, capoluogo di tutta la regione ed unico centro nel nord del Tchad dotato di un aeroporto (solo voli charter e militari) e di un ospedale costruito dalla cooperazione internazionale, non ci sono alberghi, o meglio non ci sono più, ma noi siamo ospitati nella “Case de Passage” della nostra agenzia, con un bel cortile e lo stile architettonico che ricorda quello di un fortino della legione straniera, e magari lo era. Qui ci sono le stanze ma senza letti, almeno non dobbiamo montare le tende e non sentiremo la furia del vento per la notte, poi c’è l’acqua corrente, la possibilità di farsi una doccia e di usare un bagno. Per il pranzo Pascal propone l’insalata, le sardine e i formaggini, che con il pane fresco sono ottimi. Alcuni riposano, io prendo il sole e alle 3 del pomeriggio ci muoviamo per il “city tour” d Faya, insieme a Abdullai, una guida estemporanea, che ci porta a passeggiare. C’è polvere ovunque, attraversiamo il misero mercato in chiusura, ci sono dei portici intonacati di bianco e le solite botteghe strapiene di scarti cinesi, nonché la sede del consolato libico. Torniamo nella “case de passage” infreddoliti: avevano apparecchiato il tavolino da campeggio nel mezzo del cortile, ma noi lo spostiamo subito sotto ai portici, almeno stiamo riparati: riflettendo, agli uomini del deserto, soprattutto ad Omar e Djebril che vengono dal Tibesti, non piace proprio l’idea di stare sotto ad un tetto, loro amano vivere all’aperto, infatti anche stanotte, nonostante abbiano camere a disposizione, preferiscono dormire sotto alle stelle sferzati dal vento.
Cena con zuppa piccante, l’altra metà del capretto e le patate fritte, dopo giorni che le chiedevo a
Pascal.


9 dicembre, mercoledì: la giornata più noiosa, piena di vento che ha generato nebbia, talvolta la visibilità era di pochi metri, dalle 8 alle 9 ore di jeep da Faya a quasi vicino Kouba; scrivo dal nostro 12° campo, il penultimo, in una radura con un po’ di acacie spinose, le prime piante della giornata, il resto, solo un interminabile deserto di dune alternato a qualche tratto più battuto. Prima di lasciare Faya, con noi sale Yaya (porta con se in dote un’ottima marmellata di datteri ed una pasta di arachidi), è il fratello di Djebril, e deve andare a N’Djamena, sembra che sia un funzionario del ministero dei trasporti, mentre Pascal compra altro montone. La pista è segnata da bidoni, pezzi di missile, a volte pali biancorossi con le indicazioni chilometriche e carcasse abbandonate di auto, l’unica attrattiva fotografica della mattina è stata una carovana di cammelli che andava verso sud, attraverso un ignoto deserto giallo. Durante il pranzo, c’era talmente tanto vento che ho preferito mangiare in auto l’insalata di riso, per non gustarla condita con la sabbia. Nella seconda parte della giornata aumenta il traffico, incrociamo alcuni pick-up carichi all’inverosimile di merci e persone, oppure camion degli anni ’50 che, a fatica ancora camminano. Abbiamo coperto, mediamente una distanza di 300 km, fa leggermente più caldo, e il nostro cuoco prepara cous cous di montone e verdure, per chi desidera omelette.
10 dicembre, giovedì: oggi ancora più polveroso e più bianco rispetto a ieri; la pista è quasi comoda tranne la prima parte piena di buche, la sabbia anziché far male è talmente limacciosa che si impasta in bocca, del resto stiamo più o meno seguendo il wadi del Bahr El Gazhal, il fiume che in estate si riempe d’acqua. Anche oggi percorriamo circa 300 km, l’ultimo campo lo montiamo a 50 km da Moussoro, in una radura protetta e insperata nel mezzo della nebbia. Al mattino abbiamo gonfiato le gomme a Kouba, segno che le dune sono finite, poi fino al pranzo niente di particolare, tranne qualche cammello isolato; e proprio il pranzo è stato sorprendente. Immaginate il nulla bianco e ventoso, talvolta qualche capanna e proprio dentro a quelle capanne dei nomadi, troviamo riparo per mangiare: un luogo magico, colorato innanzitutto, tappetti a terra, barattoli in ceramica profumati, ciotole di vetro, lampade ad olio e la bellissima proprietaria, il viso con i segni del suo ceppo etnico, le dita affusolate, il sorriso, i denti bianchissimi. Noi mangiamo insalata di riso e cocomero, mentre i bambini iniziano ad entrare insieme al puzzolente marito della bella. Siamo quasi vicino al villaggio di Salal, più o meno dove finisce il deserto ed inizia il Sahel, macchia bassa, villaggi con case in banco che accennano le orecchie di coniglio negli angoli, tipiche di Zinder e dell’architettura sudanese. Mentre ai cammelli vanno sostituendosi gli asini e i cavalli. Prima di montare il campo riempiamo le taniche di acqua in un pozzo pieno di bimbi e Renato inizia a giocarci, io mi lavo braccia e testa. Quindi ultima cena, con montone, verdure e pasta, omelette per chi vuole. Prima di andare in tenda osservo Pascal, i suoi gesti precisi e misurati, lava tutti i piatti e le posate, le ripone ordinatamente, prepara il pranzo per domani, il tutto nel retro di una jeep, nella sua cassetta di legno precisamente.


11 dicembre, venerdì: al mattino dell’Harmattan è rimasto solo qualche debole soffio, la nube di sabbia non c’è più, il cielo è terso, qualche sparuto cirro si dissolverà velocemente, oggi si torna in capitale, di nuovo a N’Djamena. La strada è sempre una pista, superiamo numerosi villaggi e gli alberi più scendiamo e più diventano alti, c’è anche un baobab, iniziano le pozze d’acqua residui della stagione delle piogge. Ultimo pranzo sull’erba con insalata di pasta, pomodori, fagiolini e sardine, anche Pascal ha terminato il suo eccellente lavoro. Subito dopo il pranzo, qualche chilometro e torna l’asfalto, siamo a Massakori. Percorriamo la strada del lago Tchad, numerosi i posti di blocco della polizia, ma, appena vedono bianchi ci lasciano andare velocemente, cercano piuttosto Boko Haram, che da queste parti è particolarmente minaccioso, più tardi veniamo a sapere che l’ultimo attentato è avvenuto il 5 dicembre scorso, sul lago. Prima di tornare in albergo andiamo a visitare il villaggio di Gaoui, alla periferia opposta di N’Djamena, forse una o la sola delle attrattive turistiche in capitale, che non è altro che la solita bidonville, fatta di baracche, confusione, immondizia e strade dissestate, poi c’è la strada principale, quella larga con i grattacieli ai lati, quella che percorrono i presidenti.
A Gaoui entriamo nella casa-museo del sultano, costui oggi non vive più qui, dalle foto è diventato un sultano moderno, con ray ban a goccia e spocchia del boss, mentre il suo predecessore è campato fino a 116 anni, ma non garantisco sull’attendibilità dell’anagrafe che lo ha registrato. Il biglietto d’ingresso è di 2000 CFA, all’interno sono esposti oggetti di diverse epoche, vestiti dei sultani e qualche foto ingiallita, particolare è la struttura della casa, in banco a due piani con cortile interno e i muri colorati di motivi geometrici. Prima del tramonto siamo all’hotel “Chez Wu”, il nome non tradisce la gestione, accanto all’aeroporto: c’è Moussa ad aspettarci, elegantissimo nel suo Bobou bianco, distribuisco le mance, e siamo liberi di lavarci e metterci addosso qualcosa di pulito. Prima di cena scendo al bar a bere una grandiosa birra “33” da 66cl: stasera senza cuoco ci serviamo del ristorante, pesce capitaine con il pomodoro. Adiacente all’albergo c’è un casinò, con Renato andiamo a vedere per passare un po’ di tempo, è pieno di cinesi incalliti al gioco; anche perché ci hanno sconsigliato la visita della città, i bianchi sono troppo visibili in questo periodo storico.


12 dicembre, sabato: mi alzo presto, allo stesso orario della tenda, all’alba, ed infatti sono il primo a far colazione al buffet. Poi risalgo in camera, altra doccia e preparo bene lo zaino, oggi si parte, alle 10:00 in aeroporto, alle 12:00 il volo per Il Cairo. Sono su una sdraio a bordo piscina a riscaldarmi al sole, quando mi accade uno degli incontri più incredibili della mia vita: arriva Ilaria, la riconosco, l’ultima volta che l’avevo vista è stato in 5° elementare, quindi più o meno 26 anni fa, ci abbracciamo e ci raccontiamo per un po’, poi il tempo scade nuovamente e devo partire.
L’aereo sorvola il Sahara, ero laggiù poco fa, su quelle piste, in quell’ambiente che dall’alto è un monocolore, in quel deserto che è vita: è un paradosso ma è proprio così, l’assenza da riempire, un viaggio sentimentalmente fisico.Infine, Il Cairo, lo stesso Novotel dell’andata, fuori piove, una ragazza canta al piano bar della hall, devo solo tornare.
13 dicembre, domenica: del viaggio di questa giornata già non ricordo più nulla, scrivo le ultime righe del mio diario ciadiano sulla metro B per Ponte Mammolo, Roma.
Alessio