Angola

I viaggi, qualsiasi, sono come i figli, sono tutti belli e bravi, l’Angola però è il figlio che prende un voto in più a scuola e in educazione fisica quello più veloce nella corsa. Non c’è niente da fare, lo scrivo perché in Angola ritornerò, anche molto presto, perché quella terra riassume l’Africa, un concentrato di un continente: c’è il deserto del Namib con le sue dune altissime che si gettano sull’Atlantico, ci sono i gruppi etnici di ceppo herero con le molteplici derivazioni nella regione del sud, ci sono le cascate di Calandula le seconde d’Africa, c’è la foresta e la savana, ci sono perfino i segni di una lunga guerra sugli intonaci decrepiti delle case, ci sono i colori degli innumerevoli Murales, c’è un popolo che ha tanta voglia di amore e di pace.
Il viaggio può essere diviso in due parti distinte: quella più grande del circuito ad anello da Lubango a Lubango che arriva fino al confine fisico del fiume Kunene con la Namibia e poi risale, con 1316 km percorsi su fuoristrada ad una media di 16.6 km/h, poco asfalto, tanto sterrato talvolta in pessime condizioni e deserto. Quella più piccola, diciamo l’appendice, che ha arricchito notevolmente il viaggio, ovvero l’escursione alle cascate Calandula di due giorni e l’ultima mattina a Luanda, che è una capitale africana bella da vedere. La prima parte è in tenda e in fuoristrada, la seconda in albergo e pulmino, la prima al sud arido, desertico e secco, la seconda al nord verde ed umido.
La città di Lubango, capoluogo della provincia di Huila, e aeroporto di arrivo per il sud merita una giornata di visita con le scenografiche gole di Tunda Vala uno spacco nella roccia di mille metri, il Cristo Rei che domina la città ed una passeggiata per il centro per fotografare murales e contrasti tra le dolci case portoghesi e gli squadrati condomini stile sovietico. Da Lubango andiamo verso ovest, scendendo per il passo “serra de Leba”
arriviamo fin sull’oceano nella coloniale Namibe o Mocamedes, proseguiamo per l’ultima città del sud, Tombwa, quindi da qui in poi il mare, il deserto, il nulla imponente della natura, sempre verso sud.
I nostri fuoristrada prendono la via della spiaggia, c’è il relitto del peschereccio Vanessa, poi stormi di cormorani, gabbiani, pellicani, alcuni seguono in velocità i nostri mezzi, è una meravigliosa corsa, poi ci sono le otarie che velocemente riprendono il mare, gli occhi sono estasiati, nelle orecchie gli uccelli e le onde, nel naso l’odore del mare e del pesce. Poi l’ampio bagnasciuga inizia via via a stringersi e all’orizzonte ecco le prime dune, prima basse, poi si alzano sempre di più finché non arrivano a picco sul mare alte fino a 100 metri, inizia la Baja dos Tigres, ci avvertono proprio le dune con il loro colore alterno chiaro e scuro come il manto della tigre. Oggi la Baja però non è più Baja, la penisola che dal continente africano collegava alla terra ferma il villaggio di pescatori portoghese Sao Martinho dos Tigres fu spezzata da una violenta mareggiata nel 1962, isolando per sempre gli abitanti, che in pochi anni lo abbandonarono ed oggi è un affascinante villaggio fantasma a 12 km dalla costa. Più scendiamo a sud e più la natura diviene selvaggia, unica, forte. Il nostro punto di arrivo sarà la foce del fiume Kunene, che poi è anche il confine naturale con la Namibia, e da qui in poi la direzione sarà ad est.
Verso est cambia tutto, al deserto sabbioso si sostituisce il deserto sassoso disseminato di “Welwitschia Mirabilis” la pianta più longeva al mondo, che ci ricorda che il mare non è così lontano poiché prende acqua dalle nebbie di avvezione dell’Atlantico che arrivano fino a 200 km nell’entroterra. Poi ai sassi iniziano a far compagnia le acacie e gli alberi di mopane, siamo nel “bush” o in francese nella “brousse”, c’è acqua e ci sono i villaggi, alcuni con qualche casa in muratura come Iona, altri addirittura con il bar come Oconcua, il resto solo capanne in banco disseminate in un territorio enorme. Tutti i gruppi etnici di questa zona, secondo gli antropologi, provengono da un unico ceppo Herero migrato intorno al 1550, e poi successivamente differenziato in tanti sottogruppi, che si differenziano soprattutto grazie all’acconciatura femminile. Quelli che noi oggi chiamiamo Herero emigrarono però in Namibia, molto più a sud, mentre una parte di questo gruppo si fermò attorno al Kunene e vennero chiamati Himba, ovvero i mendicanti, perché rimasero svestiti e poveri. Questi Himba si divisero poi in sottogruppi come i Tjimba, Mu Himba, Ndimba, Mu Hakaona o Mu Cawana: i Tjimba o Mu Chimba ne vediamo tantissimi, le bambine portano due trecce sul volto, poi nella pubertà verranno sciolte e infine quando saranno mogli le trecce si portano indietro impastate con burro ed argilla; le donne Mu Cawana invece hanno una frangetta fatta di argilla e burro, decorata con perline e motivi geometrici e vivono principalmente nell’area di Oconcua; infine i Ndimba, meno numerosi ma con capanne pitturate e splendidi granai ovalizzati.
Salendo verso Lubango, la vegetazione diventa sempre più verde, da Canah in poi, inizia l’asfalto e i telefoni ci riconnettono con il mondo; noi però deviamo per sterrati alla ricerca delle cascate di Chibia e del gruppo etnico Huila, le classiche donne con le grosse trecce di argilla, uno dei simboli dell’Angola, ogni tanto ne incontriamo qualcuna sulla strada. Più saliamo e più si vedono le tracce del colonialismo portoghese, vecchie case decrepite, chiese, qualche segnale stradale in marmo, ma ciò che più mi colpisce sono i murales, gli angolani disegnano i muri, e i muri raccontano un po' la loro storia: quasi sempre c’è Agostinho Neto, Dos Santos e a volte Lenin. E il tema Murales sarà un crescendo proprio della parte finale di questo viaggio, infatti la capitale Luanda, tutti i villaggi che abbiamo incontrato fino alle cascate Calandula ne mostrano di bellissimi e quelli del paese di Calandula sono speciali, forse i più belli.
Ecco l’ultima parte del viaggio, l’escursione di due giorni alle cascate Calandula, è vero che richiedono moltissime ore di pulmino, ma sono veramente belle, le seconde d’Africa dopo le cascate Vittoria, poi sono lo sfondo cinematografico del film di Ettore Scola, “Riusciranno i nostri eroi….” Con Alberto Sordi e Nino Manfredi, quando ancora si chiamavano le cascate del Duca di Braganca. Torniamo a Luanda in tempo per l’ultima cena ad ascoltare la Kizomba in un ristorante, musica da cui derivano le afro caraibiche. Al mattino prima di prendere l’aereo, visitiamo il “Palazzo di ferro” costruito da Eiffel, il lungomare con le palme e la fortezza dove c’è il museo che ripercorre tutta la storia dell’Angola. Gran bel Paese l’Angola.
GIORNO per GIORNO:
23 settembre, sabato: voli serali da Roma e Milano Ethiopian, alle 23:40 tutto regolare
24 settembre, domenica: cambio ad Addis Abeba, incontro con il resto del gruppo e proseguimento per Luanda dove arriviamo alle 13:30, fortunatamente sono il primo della fila e riesco ad esserlo anche all’ufficio VISA dell’aeroporto, così da essere i primi del volo ad ottenerlo in una confusione incredibile, tanto che non si capisce quanto costa: sicuramente meno dei 120 euro previsti, c’è chi paga 50 e chi 80. Tuttavia alla fine del viaggio scopriamo che dal 1 ottobre il VISA per l’Angola è ufficialmente abolito. Dal terminal internazionale dobbiamo spostarci al terminal domestico dei voli TAAG per prendere il Luanda/Lubango, è necessario prendere un taxi e contrattare sul prezzo perché sparano subito molto alto. Questo volo avrà cambiato orario circa una decina di volte e fino alla fine non si smentisce, nonostante il check-in fatto online, il volo cambia nuovamente, comunque decolla alle 18:00 e atterra a Lubango alle 19:35. Dall’aeroporto al “Casper Lodge” sono circa 15 minuti, il posto è favoloso, mangiamo finalmente tutti insieme tranne uno, che volava “Air France” e ha avuto il volo cancellato, arriverà solo dopodomani mattina! Ma questo non è l’unico problema della giornata, in tutto il sud dell’Angola manca il diesel, è uno dei paradossi africani: siamo in Angola uno dei primi produttori al mondo di carburante e manca il diesel, proprio così.
25 settembre, lunedì: senza il diesel non si può partire, senza il nostro compagno di viaggio non si può partire quindi diciamo che i due problemi si compensano. Al “Casper Lodge” la colazione è eccezionale, più italiana che internazionale, c’è un prosciutto crudo buonissimo sembra “pata negra”; mentre i driver vanno a cercar diesel per i vari distributori o al “black market”, noi usciamo tutti insieme per una passeggiata a Lubango, sono le 09:30. C’è la piazza principale con il busto di Agostinho Neto, la casa del governatore, ma ciò che balza agli occhi è il forte contrasto tra i condomini squadrati in stile sovietico e le villette portoghesi graziose e colorate. Pranziamo al “Casper lodge” e dopo pranzo escursione all’impressionante falesia di “Tunda Vala”, una spaccatura nella roccia che offre un panorama fino al mare di Namibe nei giorni tersi, ci sono anche delle donne e bambine di etnia “Huila” per farsi fotografare dietro compenso. Il gruppo etnico “Huila” è uno dei simboli dell’Angola e vivono nella regione di Huila appunto, il cui capoluogo è Lubango: tipica è l’acconciatura femminile con le voluminose trecce da 2 a 5, irrigidite da un impasto di terra e sterco, bordate di perline e terminanti con un pom pom. Dopo Tunda Vala, scendiamo nuovamente a Lubango e risaliamo al “Cristo Rei” che il ricorda il Cristo del Corcovado e domina tutta la città di Lubango; sul viso e sulle mani del Cristo sono ancora visibili i fori delle pallottole sparate durante la guerra civile. Per queste due escursioni, sono sufficienti 2 ore. Alle 18:00 torno in aeroporto a prendere finalmente il nostro amico Air France, con lui viaggiano anche alcune turiste italiane che vengono al lodge assieme a noi. Il problema Diesel sembra quasi risolto, mancano ancora 40 litri di gasolio, forse domani si parte. Mangio una bistecca e poi a letto.



26 settembre, martedì: ancora i 40 litri, maledetti! C’eravamo quasi, ma la pompa si è rotta. Senza i 40 litri non si può partire, poiché il circuito ad anello che faremo fino al Kunene e poi risalita ha solo due punti di rifornimento: Namibe e Tombwa, ma se il gasolio non c’è a Lubango è difficile che ci sia più giù. Poi alle 11:45 la svolta, pompa riparata e si può partire, a questo punto dopo pranzo, ci vuole il tempo per impacchettare tutti i bagagli. Mangio dei calamari della “pirelli” conditi benissimo ma difficili da mandar giù e alle 14:40 siamo a bordo, si parte. Prima sosta al miradouro della “Serra de Leba” l’incredibile strada a serpente che scende per 1200/1300 metri in pochi chilometri. Montiamo il primo campo nella brousse non molto lontano dal mare perché c’è così tanta umidità che sembra pioggia. Il nostro primo aperitivo con Martini, le farfalle al pomodoro e un bel filetto di carne con vino rosso sudafricano.

27 settembre, mercoledì: prima colazione all’aperto, all’alba. Poi ci incamminiamo tutti insieme per una passeggiata di un’oretta e mezza seguendo la pista, troviamo una bomba esplosa chissà in quale guerra. Arriviamo a Namibe, anche qui c’è il gasolio e facciamo nuovamente il pieno, poi andiamo in città che è molto carina, un porto pieno di pescatori e tante casette colorate in stile portoghese, passeggiamo fino alla base della Marina Militare in alto e qualcuno arriva fino giù al porto. La baia di Namibe il cui nome ufficiale e Mocamedes fu scoperta da Diego Cao nel 1485 ma solo dopo tre secoli vi approdò una missione scientifica e fu costruito il forte di “Sao Ferdinando” nel 1840. Dal 1848 vi si stabilì una colonia di brasiliani del Pernambuco in esilio quaggiù per aver dimostrato contro il governo. Arrivarono con la nave “Tentativa felix” e iniziarono a coltivare cotone e canna da zucchero. Con l’abolizione della schiavitù nelle colonie portoghesi nel 1856, molti pescatori dell’Algarve furono incentivati a trasferirsi a Namibe soprattutto per sviluppare la produzione ittica.
Prima di lasciare Namibe, andiamo in un enorme supermercato dove c’è di tutto, compriamo acqua da bere e altri 10 litri di vino portoghese, ci fermiamo a pranzo lungo la strada e poi proseguiamo fino a “Lagoa dos Arcos” o semplicemente “Arco”, sono 40 km da Namibe. Arrivo ad Arco alle 15:30: prima di piantare il campo andiamo a vedere il lago, ma l’acqua non c’è più, è diventato un enorme pascolo, c’è un grande arco di arenaria e cristalli di sale, e tante formazioni attorno di questo genere con i fossili di conchiglie all’interno. Ad Arco c’è il piccolo villaggio di Curoca, uno degli abitanti ci accompagna come guida e poi visiteremo le loro misere capanne. Il luogo con l’acqua sarebbe completamente diverso, un’oasi tra questi pinnacoli gialli di arenaria; purtroppo però non piove da tre anni sugli altipiani. Mettiamo il campo in una specie di “wadi”, e a cena mangiamo pasta con pomodoro e pancetta, pollo con piselli, e macedonia come dolce.




28 settembre, giovedì: risveglio ad Arco, c’è il sole. Dopo la colazione facciamo una lunga passeggiata fino all’asfalto, cioè fino alla strada costiera che scende fino a Tombwa, oltre solo “off road”. Le macchine ci caricano e arriviamo fino a Tombwa, un piccolo villaggio di pescatori, qui compaiono i primi cenni di dune, è la propaggine più a nord del deserto del Namib. Anche qui hanno magicamente il gasolio, e riempiamo di nuovo i serbatoi, a questo punto siamo pieni più del necessario, per poter tornare a Lubango. Anche Tombwa nasce come villaggio di pescatori portoghesi, e la sua storia è strettamente legata a “Sao Martinho dos Tigres” il villaggio, oggi “fantasma” giù alla Baia dos Tigres, che erroneamente viene ancora definita “baia” ma non lo è più, perché l’istmo è stato spezzato dal mare. Oltre al rifornimento, ci fermiamo sulla scogliera per scattare delle bellissime foto ad una chiesa sconsacrata e abbandonata e il dirupo a picco sull’oceano; questo è anche il luogo della scena finale del film “Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico scomparso in Africa?” con Alberto Sordi e Nino Manfredi. Qualche chilometro dopo il distributore, la strada finisce ed inizia una pista sulla sabbia ma le dune sono ancora piccole e rade: ci fermiamo ad un casotto verde dove le autorità del Parco nazionale dello Iona annotano i nostri dati e prendono 10 dollari ciascuno; sgonfiamo un po' le ruote e si va verso il mare, davanti a noi continui miraggi, acqua con tanti scogli disseminati. Arriviamo in spiaggia proprio davanti al relitto “Vanessa” un peschereccio russo naufragato e lasciato lì, bello e romantico nella sua desolazione, ormai un mucchio di ferro arrugginito, la sabbia arriva fino al ponte, la risacca entra ed esce dalla cabina del comandante. Pranziamo proprio lì, con insalata, formaggio, salumi, due foche che timide ci guardano e l’aria dell’oceano, fredda e salmastra! Una meravigliosa corsa delle jeep sul bagnasciuga, le otarie che frettolose riprendono subito il mare e stormi di cormorani e gabbiani che costantemente ci seguono alla nostra altezza, brillano sul mare, sono attimi di viaggio meravigliosi. Ecco le dune, prima basse, poi sempre più alte pettinate come il manto della tigre dai costanti venti freddi del sud, su e giù, iniziamo a divertirci e lontano all’orizzonte ci appare anche il paese fantasma di “Sao Martinho dos Tigres”. Era il 1860 e il Portogallo inviò esperti pescatori in questa parte remota della colonia che fondarono il villaggio, furono costruite grandi e moderne infrastrutture per la pesca tanto che fino al 1950 era uno dei centri di pesca più importanti d’Africa. Nel 1962 una violenta mareggiata spezzò l’istmo di collegamento al continente creando l’attuale isola di Tigres e isolando per sempre Sao Martinho. La popolazione, tutta di discendenza portoghese, iniziò a soffrire problemi di approvvigionamento di acqua e cibo, poi dopo l’indipendenza nel 1975 e la guerra civile fu definitivamente abbandonata e il paese divenne fantasma, e noi siamo lì a guardarlo, a 12 miglia dalla costa. Mettiamo il camp due/tre chilometri all’interno per evitare il vento e l’umidità del mare, tra le dune, stasera a cena spezzatino di orice e pasta con verdure miste.



29 settembre, venerdì: eccolo, finalmente è arrivato, è il giorno della Baja dos Tigres, sveglia prestissimo, alle 04:45, andiamo a piedi seguendo le tracce dei pneumatici di ieri sera anche se alcune il vento le ha quasi cancellate, arriviamo quasi al mare ed ecco le nostre tre jeep, pronte ad affrontare la Baia, fanno un piccolo scalino ed ecco il bagnasciuga: percorreremo tutta la baia da latitudine S 16° 22’ a 16° 44’; da subito le roccette uno dei punti più critici perché con marea oltre 0.6 non si possono superare, oggi siamo a 0.2 e andiamo via. Il tempo è naturalmente ventoso con tanta foschia del primo mattino, che poi sarà via via dissipata con l’avanzare del mattino, regalandoci vedute spettacolari del villaggio fantasma di Sao Martinho. Ci sono tante otarie morte, alcune ancora vive sulla spiaggia, ma quando sono così isolate il loro destino è segnato, sono troppo stanche e malate, non riescono più a stare con il branco e si lasciano morire sulla spiaggia. Anche due grossi carapaci di tartaruga e tanti uccelli, cormorani, gabbiani, aironi e pellicani. Superiamo la prima baia più piccola, e poi la seconda più grande percorrendola fino alla punta dove si vedono le finestre della chiesa a Sao Martinho, con il cannocchiale naturalmente e qualche delfino che salta. A pranzo rientriamo tra le dune per cercare riparo dal vento, abbiamo insalata, affettati e formaggio. Poi lasciamo la baia andando verso l’interno, l’ultimo punto quello del promontorio che un tempo collegava il villaggio alla terra ferma non lo attraversiamo, non è sicuro, vanno controllate bene le onde e la loro frequenza, inutile rischiare. Iniziamo invece un bel su e giù tra le dune, lanciandoci da belle altezze, divertentissimo. Facciamo campo a 6 km Est, tuttavia il vento è piuttosto sostenuto, infatti sarà la notte più fredda e con molta fatica riusciamo a star fuori per cenare e per sostenere la tenda. Comunque mangiamo tortellini in brodo, salsiccia e fagioli, e piccole zucche ripiene. Una iena ha trasportato il corpo di una foca fino al nostro campo, mentre gli avvoltoi aspettano il nostro cibo.



30 settembre, sabato: per fortuna il vento al risveglio si è calmato, facciamo colazione tranquillamente e lunga passeggiata con direzione 290° che ci porterà direttamente alla penisola spezzata di Dos Tigres, ma le auto ci recuperano 2 km prima. Belle le dune nella nebbia che viene dal mare, che poi è tipica dell’ecosistema del deserto del Namib e proprio questa nebbia fa crescere la pianta più longeva al mondo, la “Walwischitia Mirabilis”: essa assume l’acqua dai pori sulle foglie, nasce con solo due foglie e il tronco diviso a metà, poi le foglie vengono tagliate dal vento, le femmine hanno una pigna mentre i maschi un pedunculo. Quando rivediamo il mare abbiamo davanti a noi la cartina geografica di Baia dos Tigres, tanto il paesaggio è chiaro; scendiamo giù con le auto e continuiamo sulla spiaggia verso sud, fino a Foz do Kunene, il confine fisico e politico tra Angola e Namibia, il fiume. Qua ci sono tre pescatori che pescano con un peso piccolino e tre ami attaccati, e devo dire che di pesce ne prendono; prima di arrivare qua però vediamo le vecchie tracce della
strada che portava a Sao Martinho e i resti delle tubature di acqua dolce. Pranziamo al Foz do Kunene con insalata di riso, da ora in avanti il viaggio non avrà più direzione sud ma est, seguendo pressappoco il corso del fiume. A qualche km dal mare c’è il posto di polizia, dove controllano i passaporti e la vecchia stazione di pompaggio dell’acqua per Sao Martinho, oggi completamente abbandonata, davanti a noi, sull’altra sponda del fiume le dune gialle del parco nazionale “Skeleton Coast” in Namibia. Ripartiamo direzione Espinhera, lungo un plateau roccioso dove avvistiamo zebre di montagna molto lontane. Due divieti di accesso che segnalano le strade ancora minate, una vecchia cadillac cubana e infine l’avamposto di Espinhera, quattro case in tutto ma a noi sembra una città. Un tempo questo luogo ospitava i portoghesi che andavano a caccia oppure a pesca nell’oceano. Il Plateau roccioso è pieno, disseminato ovunque di “walwischitia” un giardino di questa bizzarra pianta. Oggi subito dopo la discesa del sole, il tramonto, sale la luna ed è luna piena, per la prima volta vedo il fenomeno dell’alba lunare. Cena con spaghetti olive e tonno, filetto di impala e fagiolini.



1 ottobre, domenica: sveglia ad Espinhera verso le 05:45, un po' fresco e il copritenda e fradicio, c’è stata molta umidità, la colazione è stupenda perché bevo il caffè osservando il sole che sale dietro alle montagne. Partiamo per la nostra passeggiata mattutina, seguendo il sentiero che porta al pozzo sbagliamo strada, ma l’app maps.me ci riporta in carreggiata attraversando un campo minato, almeno così dicevano i cartelli. Dopo questa pianura e le ultime “walwischtia” segnale che la nebbia dell’oceano atlantico arriva fin là, la strada inizia a salire, uno sterrato su è giù, piuttosto accettabile fino al posto di polizia di Iona. Iona è un piccolo villaggio di frontiera con la Namibia, un tempo controllato dai portoghesi, oggi è solo miseria, due alimentari completamente vuoti, qualche casa sparsa disordinatamente e un cimitero mezzo distrutto con croci decrepite. Dopo Iona la strada peggiora notevolemente, alcuni passaggi estremi e tanti guadi secchi da superare ad indicare che durante la stagione delle piogge è impossibile percorrere quella strada. Incontriamo qualche springbook e qualche faraona, è un “bush” di acacie e mopane, i primi pastori con greggi di capre e finalmente ecco le prime capanne Himba, prima gli scheletri in legno e poi il villaggio vero e proprio. Arrivano le donne, sono 5/6, tutte truccate e agghindate con i loro monili, sono tutte maritate perché portano le treccine dietro alla testa e tutte hanno al collo un pendaglio con conchiglia che simboleggia la nascita di un figlio. I ragazzi ancora non sposati invece, portano i capelli modellati a corno di toro sulla testa ben rasata. Pranziamo praticamente assieme a loro con insalata, carote e pomodori, roastbeef di orice, lonza e formaggio. Proseguiamo il viaggio verso est, tra la catena dei mont Curoca, a 10/15 km/h massimo, ogni tanto spunta qualche Himba, dei giovani ragazzi e una bambina, ancora non donna, con le trecce rivolte in avanti, sulla faccia, secondo la tradizione. Montiamo il campo su uno spiazzo piuttosto ventoso, tanto che le stesse acacie
sono cresciute piegate dal vento, anche per noi non è facilissimo montare le tende, ma ci aiutiamo a vicenda. Ceniamo con risotto alla milanese, spiedini di pollo e manzo, zucca al forno.



2 ottobre, lunedì: inizia la giornata con la solita passeggiata del mattino nel bush, tra acacie, albero di mopane e albero del burro che sembra una specie di baobab nano, e qualche bucero dal becco grigio sui rami. Dopo un’ora e mezza arrivano le macchine, riprendiamo il viaggio e ci fermiamo ad una pompa d’acqua sul letto di un fiume, giri la ruota ed esce l’acqua, ci laviamo a pezzi un po' tutti. Intorno alla pompa ecco i “mucuvane” un’etnia diversa dagli Himba, perlomeno nell’acconciatura, e si fanno tutti fotografare tranquillamente. I “Mucuvane” anche conosciuti come “Mu Hakaona” vivono tra lo Iona e il fiume Kunene, sono considerati tra i gruppi etnici africani più intatti. Hanno una perfetta conoscenza della vegetazione, utilizzandola a fini medici, spirituali e cosmetici. Si cospargono il corpo di grasso e la pelle è bella lucente, le donne portano una frangetta di argilla nera decorata con perline e lunghissime trecce sulle spalle. Ci fermiamo a mangiare poco più in là della pozza con patate, cipolla, formaggio e bresaola; arrivano due donne “mucuvane” e gli regaliamo gli avanzi della nostra colazione. Dopo il pranzo, ci fermiamo ad Oncocua, qua prendono timidamente i cellulari giusto per inviare un messaggio: è un piccolo centro con un dispensario, un ospedale e un bar con le birre fresche. Lasciamo al dispensario un borsone con vestiti e giochi per bambini, non dimenticherò mai l’euforia di un bambino che alza come un trofeo il pupazzo dell’uomo ragno, scene che riempono il cuore. Alcuni di noi sono invitati a fare un giro nell’ospedale, ci sono alcuni himba ricoverati e facciamo medicare la ferita ad una gamba di un nostro amico. Ad Oncocua ci sono moltissimi Mucuvane ma non vogliono farsi fotografare, ne incontriamo tantissimi anche sulla strada, ci saremmo dovuti fermare in un villaggio ma da poco è stato celebrato un funerale e sono tutti ubriachi. Quindi proseguiamo sempre in direzione est e facciamo campo in un letto di un fiume vicino ad una pompa d’acqua, infatti presto accorrono moltissime donne e bambini himba incuriositi dalla nostra presenza. Aperitivo con “martini” ad aspettare il tramonto e cena con pasta al pesto e bistecche di maiale.



3 ottobre, martedì: vicino al nostro camp, c’è un villaggio Himba che visitiamo di primo mattino, in questo villaggio osserviamo bene la disposizione standard che rispecchia lo schema: Kral(recinto animali) quindi ingresso del villaggio, segue la linea retta il fuoco sacro dove ci sono bastoni mezzi bruciati rivolti a freccia verso la capanna del capo. Poi lunga passeggiata di 7 km, vado per mio conto e penso. Quando i fuoristrada ci caricano andiamo prima in direzione S, poi E, quindi NE, ci fermiamo a pranzo su un fiume secco sotto alle fronde di grossi alberi che producono un frutto tipo mallo con noce; mangiamo pomodori, carote e affettati con formaggi. La strada diventa pessima, sono innumerevoli gli Himba che incontriamo e spesso gli diamo caramelle e qualcuno compra il bastone del comando direttamente dal capo. Nel pomeriggio arriviamo alla foresta di baobab, e lì vicino vediamo il primo villaggio “Ndimba”, qua dentro ad una capanna rettangolare c’è il granaio sferico dei Ndimba, molto particolare. I “Ndimba” appartengono sempre agli Himba, ma fanno parte di un piccolo gruppo che durante la grande migrazione di fine ‘800 si rifugiarono sulle montagne. Di questo villaggio è molto bella la capanna centrale decorata con motivi geometrici, è qui che incontriamo le due ragazze che portano tutti i capelli davanti al viso, perché sono da poco diventate donne ma non hanno ancora marito. Facciamo campo nella brousse, qua fa veramente caldo, il cielo è grigio e basso tanto che piove anche qualche goccia d’acqua: mangiamo filetto di kudu, patata lessa e zuppa di zucca.



4 ottobre, mercoledì: altra bella colazione all’alba, nei viaggi in tenda si gode particolarmente l’aurora ed io la amo. Oggi la passeggiata mattutina è lungo uno stradone sterrato, tutto dritto che taglia la savana rossa in due. Quando arrivano i fuoristrada ci caricano e la direzione è il centro abitato di Canah, circa 40 km, qui ritroviamo l’asfalto e la linea che permette ai nostri telefoni di ricevere gli innumerevoli whatsapp di una settima circa. Mangio un bel panino vuoto di pane fresco e bevo una coca-cola. Lasciamo Canah, ci fermiamo a pranzo lungo la strada, a bordo asfalto, sotto ad un grande albero allestiamo il nostro pic-nic per insalata di riso, nel frattempo accorrono tutti gli abitanti delle capanne vicine e alcune donne si mettono con il machete a ripulire lo spiazzo dall’erba alta. Direzione Chibia dove dovremmo incontrare l’etnia “Muhila”, si vede qualche donna sparsa qua e la ancora truccata e agghindata il resto porta ormai abiti tradizionali. Ci fermiamo in un’azienda vivaistica per riempire le taniche d’acqua e incontriamo innumerevoli donne che tornano dai campi; la zona è molto rigogliosa e piena di corsi d’acqua. Proseguiamo per le cascate di Chibia, ma gli ultimi km per arrivarci sono pessimi: quando arriviamo il luogo è incantevole, una cascata con un laghetto balneabile, il luogo ideale per una gita fuori porta, infatti le rocce sono piene di iscrizioni portoghesi risalenti a prima del 1974, anno dell’indipendenza. Mettiamo il nostro campo non molto lontano, in una radura nel mezzo della strada, è la nostra ultima cena all’aperto dopo 9 consecutive, c’è tristezza perché il viaggio l’abbiamo vissuto in maniera meravigliosa assieme ad una natura strabordante. Raccolgo la mancia per il nostro driver Thomas detto “Tate”, cena con fettuccine al ragù e filetto di manzo, poi ci impegniamo tutti quanti a finire il vino, quindi torno in tenda ubriaco, bellissimo.


5 ottobre, giovedì: l’alba nella brousse di Chibia, la moka e il latte, la colazione e poi si parte per la passeggiata mattutina, un sali e scendi continuo, tra agave e fattorie, qualche ruscello, un tempo all’epoca dei coloni portoghesi era un bel posto di campagna, poi tutto è stato lasciato andare. Questa passeggiata però l’interrompiamo perché fa troppo caldo, e ci fermiamo tutti all’ombra di un albero in attesa dei fuoristrada. Il territorio che attraversiamo è dell’etnia Huila ma non se ne vedono tantissime, qualche donna sparsa qua e
la; ci fermiamo al primo villaggio sulla strada per visitare un vecchio ristorante lasciato decrepito che all’interno conserva ancora murales molto interessanti, pittoreschi, una testimonianza dell’Angola appena post-indipendenza dal Portogallo. Sui muri sono raffigurati i due simboli dell’Angola di quegli anni, il padre della Patria Agostino Neto e il suo delfino e presidente Dos Santos seduti a tavola con le consorti e addirittura Lenin. Nel frattempo fuori, attorno alle macchine, si è raccolta una folla di persone, qualche donna Huila e viene offerto qualche oggetto da comprare come una chitarra e le bamboline angolane a tronco unico. Proseguiamo e arriviamo a Jau, questo centro è annunciato da un lungo viale alberato, quindi il campanile e la chiesa, c’è una diocesi importante con tanti bambini che vanno a scuola. Ci accoglie un seminarista vestito di bianco candido e poi arriva il parroco che parla italiano per aver studiato al Vaticano, si trattiene un po' con noi ma abbiamo fretta, dobbiamo andare. Proseguiamo ed ecco nuovamente Lubango, dopo nove giorni, sbuchiamo alle spalle del Cristo Rei ma prima di scendere sosta per fare benzina al distributore “Palanca Negra”, ma come al solito, quando sta per toccare a noi, va via la corrente e si ferma l’erogazione, dobbiamo aspettare. Aspettano solo gli autisti però, noi abbiamo fretta di lavarci perché prima del volo serale abbiamo le camere in day use al Lodge, e facciamo l’autostop, in pochi minuti riesco a fermare 3/4 macchine che ci portano giù senza voler nulla in cambio, belle risate sul rimorchio di un pick-up guidato da una donna bellissima. Finalmente doccia, pranzo con una bistecca di pesce e birra freschissima, riposo fino alle 17:30, quando la navetta dell’hotel ci porta in aeroporto, check-in e imbarco piuttosto veloci nelle afose sale e in anticipo di 20 minuti decolliamo, veramente strana la compagnia aerea TAAG. Fuori ci aspetta Etson la guida per questi due giorni e Joao l’autista di un bel bus Mercedes pieno di acqua, patatine, biscotti e succhi di frutta. Dieci minuti e siamo a “Casa de Luana GH Miramar” una specie di villetta proprio di fronte all’Ambasciata Ucraina, in un quartiere molto tranquillo.



6 ottobre, venerdì: partenza da Luanda alle 07:30, purtroppo salutiamo Gianni e Roberto che tornano a casa due giorni prima, siamo rimasti in 8, a Luanda piove fitto fitto, ma durerà giusto il tempo di uscire dalla capitale. Il viaggio è noioso e arriviamo a N’Datalando alle 12:30, dopo due soste in autogrill, un continuo saliscendi su una strada trafficata da grossi camion da sorpassare, tante buche per terra, infiniti villaggi e capre sulla strada. Penso che l’Angola offra veramente tanto alla macchina fotografica, ovunque chiese diroccate belle da impazzire e murales. Prima di pranzare visitiamo il giardino botanico di N’Datalando, c’è un tunnel di bambù, il fiore della porcellana e un matrimonio a fare fotografie, così ci inseriamo pure noi e alla fine non si capisce più loro che vogliono fare foto a noi e viceversa, tutto molto bello, felice e cordiale. Pranzo al lussuoso hotel Terminus con cibo a buffet e birra inclusa, hanno un divano componibile meraviglioso. Il
cielo resta comunque grigio, lattiginoso, quei cieli che deprimono. Arriviamo a Pedra Negra – Punta Andongo a vedere le rocce proprio al tramonto, quando il cielo si è aperto e ci permette di scattare qualche bella foto sulla valle del fiume Kwanza. Arriviamo alla “Posada Calandula” alle 20:00, le cascate sono lì, di fronte a noi, ma non possiamo vederle perché è tutto buio, ne sentiamo il fragore e le goccioline d’acqua, è meraviglioso così. L’hotel fu costruito nel 1962, poi chiuso durante la guerra e restaurato nel 2007: ha un fascino esotico incredibile, le stanze conservano un lusso antico anni ’60, la sala ristorante è ben arredata, tovaglie bianche, tavoli in legno massiccio, divani e arredi africani, nel complesso molto elegante. Mangio un filetto di carne e poi vado a letto, addormentandomi con il misterioso fragore delle cascate di Calandula.


7 ottobre, sabato: ore 05:10 circa del mattino, la luce rischiara la notte, ho la testa sul cuscino, guardo fuori ed eccole la, le mitiche “Cascate di Calandula” un arco d’acqua lungo 400 metri e alto 100, un semicerchio fragoroso, è il fiume Lukele, emissario del Kwanza, che salta giù. Prima dell’indipendenza le cascate si chiamavano “Duca di Bragancia” rese celebri dal film di Alberto Sordi e Nino Manfredi, “Riusciranno i nostri eroi a trovare l’amico scomparso in Africa” girato qui da Ettore Scola nel 1968. Due ragazzi della Posada ci accompagnano lungo diversi sentieri per ammirarle da più punti di vista, vediamo un macaco, è una semplice passeggiata di 40 minuti. Lasciamo la Posada alle 09:20 e dopo un’ora esatta siamo dalla parte opposta del semicerchio, adesso il nostro albergo ce l’abbiamo di fronte. Si riparte alle 11:00, attraversiamo il paese di Calandula che ha dei murales bellissimi, che vale la pena fotografare, e poi il lungo viaggio di ritorno verso Luanda. Sosta pranzo allo stesso hotel Terminus di N’Datalando, e via con la monotonia della strada, siamo alla periferia di Luanda praticamente al tramonto, alle 18:30 in hotel. Usciamo a cena utilizzando l’app “Yango Lite” l’Uber africano e andiamo a mangiare al ristorante “Chà de Caximbe”, il locale della musica Kizomba, tipica angolana ed esportata dagli schiavi nei caraibi, soprattutto a Cuba; stasera c’è un concorso musicale, anche noi partecipiamo alla votazione del miglior cantante, serata molto bella anche se, forse troppo chiasso nel locale.

8 ottobre, domenica: sveglia alle 06:30, colazione e partenza alle 08:05 per un mini city tour di Luanda. Vediamo il palazzo di Ferro di Eiffel, esposto a Parigi, venne donato al Portogallo che pensò di spedirlo in Mozambico, ma una tempesta obbligò la nave a scaricarlo qua a Luanda. Ci fermiamo per una foto alla scritta “I love Luanda” sulla Cornice, poi alla fortezza che domina la città con annesso museo Militare dove viene raccontata la storia della guerra civile, naturalmente dalla parte dei vincitori, l’MPLA, nessun riferimento al nemico. Molto belli sono gli “Azulejos” che ritraggono paesaggi africani, animali, e tra questi l’antilope “Palanca Negra” che è il simbolo dell’Angola. Infine la cattedrale dove il prete e tutti i fedeli stanno uscendo in processione, ed alcuni palazzi governativi. Alle 11:00 siamo in aeroporto. Volo regolare per Addis Abeba, quindi Roma il lunedì mattina.