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Ascesa del Monte Kenya, Kenya

1° GIORNO: è la terza montagna d’Africa in due anni, la seconda sul podio delle altezze africane, ma anche la più difficile e l’entusiasmo della partenza ancora non sapeva, si sentiva quasi invincibile proprio perché è in Africa, ma non è sempre così, e per fortuna. Il Mt. Kenya ha tre cime: la Batian di 5199 metri, la sua gemella Nelion poco più bassa di 90 metri, e infine la cima Lenana di 4985 metri; le prime due presentano difficoltà alpinistiche fino al 4/5 livello, la cima Lenana invece, cara a noi italiani come racconterò in seguito, si raggiunge con un trek di 2/3 ore dal campo base. L’obbiettivo in questo giorno di partenza è il pianto di gioia che mi scoppia spontaneo ogni volta che raggiungo un traguardo importante, me lo aspetto anche stavolta, sicuro di aver fatto tutto il possibile per riuscirci, ma inconscio delle difficoltà tecniche che avrei incontrato, seppur la natura e la fortuna, sapevo esserle dalla mia parte. Da Fiumicino partiamo con un leggero ritardo di un’ora per Il Cairo, scalo in quest’aeroporto famigliare dove inizio a raccontare ad i miei amici la neonata idea di “Ospiti in Africa”, con enfasi visionaria finché non ho la gola secca dalle tante parole che raramente pronuncio nel quotidiano. In tarda serata l’altro aereo per Nairobi.

2° GIORNO: arriviamo a Nairobi al mattino presto, è ancora buio e verso le 5 del mattino usciamo fuori nell’ultima aria della notte, quella più fredda che precede l’alba. L’autista ci accompagna subito in un centro commerciale aperto H24, ma oltre a fare colazione e comprare l’acqua, nel bar ci aspetta Patrick, il titolare dell’agenzia che con regolare fattura riscuote subito l’intero importo del pacchetto: 4250 USD, che comprende praticamente tutto, con la guida tecnica, per 3 persone. Poi, con il primo chiarore della giornata ci mettiamo in viaggio per Nanyuki, sono circa 3 ore di viaggio per una distanza di circa 200 km, la strada è buona ma fa sempre fresco, a riscaldarci ci penserà un bel sole al “Bantu Mountain Lodge” un albergo ai piedi del monte Kenya, a poche centinaia di metri da quello che era il campo di prigionia inglese per gli italiani catturati in Etiopia, Somalia ed Eritrea durante la seconda guerra mondiale. Siamo già a 1750 metri al “Bantu Lodge”, c’è un bel prato di erba verde e viva dove pascolano cavalli e giocano babbuini, io ne approfitto per dormire un po’, disteso a terra con il viso rivolto al sole. In attesa delle guide e dei portatori, ancora stanchi e spaesati dal viaggio, rimaniamo al Bantu Lodge anche per il pranzo mangiando un ottimo pollo al curry. Si parte, con la squadra al completo dopo pranzo: dal centro abitato di Nanyuki, dopo aver scavallato la linea dell’equatore che passa proprio per il Mt. Kenya ed aver assistito al solito gioco di prestigio del mago di turno con il vortice d’acqua, inizia la strada sterrata che sale per 10 km circa, fino al “Sirimon Gate”, siamo a 2690 metri, da qui inizia il trekking. Da qui la strada è percorribile anche in fuoristrada fino ad “Old Moses Camp”, circa 3350 metri di altitudine, dove passiamo la notte. Dal gate si parte alle 14:30 e alle 17:30 siamo all’ “Old Moses”, incontriamo un numeroso gruppo di elefanti che quasi ci sbarra la strada mentre mangia e dobbiamo aspettare pazienti; tutta l’aerea del parco è abitata inoltre da antilopi, bufali e leopardi. Alle 18:30 il puntuale tramonto equatoriale che colora di arancione la vetta del Mt.Kenya, uno

spuntone di roccia altissimo, in una cornice panoramica meravigliosa. Se ne va il sole ed inizia anche il freddo, si cena presto con dei pezzi di pesce fritto e delle patate.

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3° GIORNO: Al mattino mi accorgo del primo errore, un acclimatamento sbagliato, troppo frettoloso. Io ho cercato di bere molta acqua alzandomi varie volte durante la notte, ma nel letto a castello del campo ad un certo punto ho avuto una sensazione di soffocamento e mi sono sbrigato ad alzarmi, avevo bisogno di respirare. Il mio amico Ernesto invece sta male già da ieri sera, la notte non lo ha aiutato ma si mette ugualmente in cammino, alle 08:00 in punto, è una bella giornata. Inizialmente anch’io mi sento un po’ affaticato, ma passa presto; dopo 1 km dall’ “Old Moses” c’è la stazione meteorologica automatica, il sentiero è stretto ma ben segnato, attraversiamo prima il fiume Ontulili, poi il fiume Liki North e infine, dopo 3 sali e scendi di creste scendiamo nella valle di McKinder, da percorrere tutta fino allo “Shipton Camp”. Il percorso nella valle che prende il nome dal primo scalatore che arrivò alla Batian nel 1899, è sicuramente più suggestivo del precedente, cambia anche la vegetazione con distese infinite di Lobelie giganti e Seneci. Il picco roccioso delle due cime gemelle Batian e Nelion è sempre più vicino e imponente fin quando ci arriviamo proprio sotto, al rifugio “Shipton” a 4236 metri di altitudine. Il britannico Sir Halford Mackinder raggiunse la cima Batian il 13 settembre 1899 accompagnato dalle due guide alpine svizzere Joseph Brocherel e Cesar Ollier, mentre la prima ascesa della cima Nelion è datata 1929 da Eric Shipton. Io arrivo allo “Shipton Camp” alle 12:45 ma ho corso abbastanza, se volete camminare comodamente, ci vuole 1 ora e mezza in più. Poco dopo il mio arrivo, i ragazzi del rifugio mi hanno fatto ascoltare un eco che proveniva proprio dalla cima Batian, era un turista francese che aveva appena raggiunto la cima, ritornerà al rifugio alle 19:30, distrutto di fatica ma felicissimo. Nel pomeriggio arriva anche David, la guida tecnica che dovrà portarci in cima, un ometto di 45 anni, piccolo, mite e muscoloso: a lui espongo tutte le mie ansie, timori e paure verso quel picco di roccia che da qua sotto sembra invincibile. Guardando invece le foto del ragazzo francese riprendo coraggio: la speranza in questo viaggio va e viene, secondo gli umori della giornata. Domani abbiamo in programma di arrivare a Punta Lenana, per favorire l’acclimatamento e poi arrivare al punto di partenza della scalata di dopodomani per iniziare un po’ di pratica.

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4° GIORNO: La giornata inizia prestissimo, alle 05:40 io ed Amedeo con Caesar, la guida, stiamo salendo verso punta Lenana, mentre Ernesto ha deciso di scendere, ha passato una notte terribile, e vuole solo star bene, quindi rinuncia. Per questo, e ci tengo a sottolinearlo nuovamente, non sottovalutare mai l’acclimatamento, il secondo giorno siamo passati dalle poche centinaia di metri di Nairobi ai 3600 dell’ “Old Moses”, e un errore simile può compromettere un viaggio. La salita a tratti è veramente ripida, ma niente di impegnativo se non per il fiato corto dei quasi 5000 metri, inizia con un grosso ghiaione poi il sentiero costeggia due laghi turchesi d’alta quota, sembrano lunari più che terrestri, poi alcune rocce da saltare a mo di grossi gradoni, e infine l’ultima parte che è ferrata: alle 08:45 siamo a Punta Lenana dove sventola la bandiera Kenyana. La cima della montagna è già nota in Italia per una memorabile evasione, nel febbraio 1943, organizzata da tre esperti alpinisti, Felice Benuzzi, Giovanni Baletto e Vincenzo Barsotti, detenuti di guerra nel campo di prigionia inglese di Nanyuki alle pendici del monte Kenya. I tre con il solo scopo di scalare la vetta, raggiungere punta Lenana e poi riconsegnarsi agli inglesi, guardavano ogni giorno quella splendida montagna dalle nevi perenni all’equatore anelando la sua scalata. Per mesi progettarono l’impresa costruendo, durante la prigionia, l’attrezzatura rudimentale per la scalata. Per riportare alto l’orgoglio dell’Italia e per voglia di libertà , organizzarono la fuga e iniziarono l’ascesa il 6 febbraio del 1943, si fermarono a Punta Lenana, tolsero l’Union Jack Britannica e la sostituirono con il nostro tricolore; poi ridiscesero a valle e si riconsegnarono alle autorità inglesi che comunque apprezzarono il loro gesto e gli comminarono una punizione simbolica.

Tornando alla nostra modesta impresa, godiamo di alcuni minuti al vento freddo della cima guardando la parete sud e nord del Batian e Nelion, non c’è una nuvola, una mattina bellissima e da questa distanza scalare quegli spuntoni di roccia sembra facile. Ed invece non è così, scendendo dal Lenana mi incontro con David che saliva con i portatori e saliamo insieme, al “chipped rock”, la roccia dove inizia la scalata c’è una targa che ricorda la morte di due ragazzi inglesi di 20 anni nel 1990, caduti proprio da lassù, non è un buon inizio. Infatti dobbiamo rinunciare, ci provo ma è la montagna che non mi vuole, non sono pronto per scalarla, sto male, ho nausea e fiatone. Ho passato un bel fine serata a scherzare con Caesar sulle parole in lingua Kikuyo che estrapolo dal mio libro “Sogni in tempo di guerra”. La lingua Kikuyo è il dialetto del Kenya, mentre lo Swahili è la lingua ufficiale e l’inglese la lingua amministrativa. I nomi Batian, Nelion e Lenana sono in onore di tre capi Masai, Batian il più celebre e mitologico è il nonno, Nelion il figlio e Lenana il nipote, di quest’ultimo ci sono anche delle foto insieme ai coloni inglesi, ormai definitivamente assoggettati i

Masai furono poi cacciati dall’aerea del Mt.Kenya proprio dai Kikuyo. Intanto il cielo equatoriale si sta riempiendo di stelle, e per la prima volta mi viene mostrato Giove, che brilla grande lassù. Stanotte al rifugio “Shipton” stanno male in due per il mal di montagna, io ancora resisto e vado a dormire.

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5° GIORNO: Quante volte ho guardato la punta Batian mentre scendevo lungo la “Chogoria route” pensando che in quegli stessi momenti avrei potuto essere lassù: ma l’ho fatto non per rimpianto piuttosto perché questa giornata l’avevo pensata e preparata da mesi. Credendo che nella vita quando un qualcosa lo vuoi a tutti i costi e fai del tutto per ottenerlo poi ci riesci, ma per il Mt. Kenya non è stato così poiché la natura è innumerevoli volte più forte di me e decide quello che gli pare. Io e Amedeo siamo partiti dallo “Shipton” alle 06:30 per arrivare a Banda, al “Kenya Mountain Lodge” alle 14:10, da 4300 metri a 3000 metri d’altitudine, 21 km lungo la meravigliosa “Chogoria route”. Appena usciti dal rifugio siamo saliti fino a 4600 metri sul colle Simba in 1 ora, percorso obbligato: poi in cima, si è aperta davanti a noi tutta la valle di Gorges, stupenda: piena zeppa di seneci e lobelie, il fiume Nithi che l’attraversa e talvolta si allarga e diventa lago Michaelson. Le rocce sono a picco, è un canyon e Caesar sul costone opposto mi mostra lo “Shining” ovvero i resti luccicanti di un aereo schiantatosi nel 1999. La valle è sempre bella e imprevedibilmente stupefacente fino ai 3800 metri, all’altezza delle cascate Nithi, per l’ultima volta guardo l’ormai lontano e imprendibile Mt. Kenya. Da qui inizia una monotona e veloce discesa lungo colline e crinali; una frugale sosta pranzo vicino ad un torrente e il sentiero si allarga diventando percorribile da una Jeep, giù fino a Banda. Poco prima di Banda, termina il “mooreland” la macchia bassa ed iniziano a comparire i primi alberi della foresta equatoriale. I lodge sono su un’incantevole prato alberato del tutto simile ad un nostro castagneto: tutte casette di legno con il tetto verde, un’atmosfera vagamente inglese. Con Caesar e Giulias (uno dei portatori, gli altri si chiamano Joseph e suo fratellino Alex, Samuel il cuoco e l’altro Samuel) andiamo a cercare un punto dove i telefonini prendono: abbiamo camminato per mezzora e parlato di tutto come se ci conoscessimo da anni per un sentiero pieno di cacche di elefanti, leopardi e soprattutto bufali. I bufali di giorno sono all’interno della foresta a mangiare mentre la notte si fermano a dormire sui prati aperti, con il tramonto aumentano sempre di più e verranno a dormire proprio sotto le nostre abitazioni che con la notte vengono avvolte da una nebbia

spessissima, non si vede nulla dalla finestra. Concludo la serata scrivendo davanti al camino che i portatori ogni tanto attizzano, una lampada a cherosene illumina la cucina dove stanno lavando i piatti nel semibuio, fumo una sportsman e bevo un thé caldo.

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6° GIORNO: Di nuovo al lodge del primo giorno a Nanyuki: osservo una cinquantina di Kikuyu di mezza età, donne ed uomini, disposti a semicerchio sul grande prato verde dietro alla mia stanza, con giochi per i bambini, tavoli, altalene ed un laghetto, ma cosa stanno facendo? Uno di loro parla con il microfono e ogni tanto esplodono in grandi risate, giocano con una corda unita circolarmente che tirano come se fosse tiro alla fune e naturalmente chi rimane in piedi vince una busta piena di caramelle che si azzuffano per prendere: una gran mama se ne porta via felice due manciate piene. Sono le 17:30 e mentre scrivo non riesco a staccare gli occhi dallo spettacolo, sono quasi tutti vestiti elegantemente e chiedendo scopro che fanno tutti parte di una società che si occupa di costruzioni e stanno facendo un meeting per valorizzare lo spirito di squadra.

La cronaca della giornata:partiamo alle 07:45 dal Banda Lodge, la nottata è stata fredda da dopo le due quando mi sono svegliato per andare in bagno e sbirciare fuori alla finestra i bufali ma la nebbia nasconde ancora tutto, mi consolerò al mattino evitando di calpestare le loro cacche ancora fresche. Da Banda siamo scesi lungo un sentiero di 7 km fino al punto dove ci aspettavano due Land Rover alle 09:30. Si cammina nel mezzo della foresta, osserviamo orme di leopardo, la perfetta zampa felina impressa nel fango indurito. Al punto convenuto ci aspetta un mezzo forse meglio definirlo un “pezzo” di ferro degli anni ’60 che ci accompagnerà, quasi a passo d’uomo, per 23 km fino al centro abitato di Chogoria: percorrendo una strada rossa che taglia la foresta, tagliata longitudinalmente da solchi così profondi che mi arrivano alle spalle, infatti seppur l’autista è molto bravo io ho paura e spesso preferisco scendere e proseguire a piedi, tanto la velocità è la stessa. Veri e propri fossati di laterite, rossi ocra quasi splendenti, dove le gomme della Land Rover pattinavano come se seguissero un binario, tanta era la destrezza del nostro driver con la felpa nera, gialla e rossa, i colori dell’Uganda. Arriviamo a Chogoria alle 11:30, gli ultimi 7 km di strada, superata la foresta, sono comodi e a destra e a sinistra piantagioni di caffè, thè e bananeti: qua le piante, per antonomasia la natura non cresce ma esplode. A Chogoria ci è venuto a prendere Joseph, un uomo di Patrick, che in due ore di strada asfaltata ci riporta a Nanyuki, praticamente stavamo nel lato opposto del massiccio del Mt. Kenya. Questa strada attraversa le cosiddette “White Highlands”, sterminati latifondi gestiti ancora oggi dai figli di quelli

che erano i coloni britannici dell’Africa di Meryl Streep nel celebre film. Qua si coltiva anche in serra, le mucche sono belle pasciute, hanno ottimi pascoli, e il contrasto è netto con le loro sorelle che dall’altra parte della recinzione elettrificata con filo spinato brucano una misera striscia di terra delimitata dall’asfalto. Proprio questa stretta striscia di terra, saranno 3 metri al massimo, viene coltivata con piccoli orti dalla povera gente, mentre il contrasto beffardo vuole che un mastodontico trattore trasporti una lunghissima asta dotata di ugelli per irrigare gli ettari arati e infiniti, esempi modernissimi di meccanizzazione agricola. Arriviamo al lodge alle 14:00 distribuiamo le mance e incontriamo Ernesto che ci stava aspettando. Finalmente di nuovo insieme trascorriamo il pomeriggio alla visita dell’ex campo di prigionia inglese dove venivano detenuti gli italiani e quindi è da qui che partirono gli eroi di Punta Lenana. Ormai del campo di detenzione non c’è più traccia, solo una garitta malandata e forse riprodotta, ma il luogo è gradevole: il ragazzo che ci accompagna ci mostra due bizzarre specie botaniche, due grandi alberi che crescono l’uno sopra all’altro, in simbiosi. Poi c’è l’albero con le foglie medicamentose e soprattutto, attrattiva principale, i pericolanti ponti tibetani, fatti con tavole e cavi di acciaio che collegano un albero all’altro superando fiumi e laghetti d’acqua che scende direttamente dal monte Kenya.

Intanto che scrivo i Kikuyo continuano nei loro giochi di ruolo, tra grida, vittorie e buffe sconfitte, il sole è sceso ed inizia a far freddo a quasi 2000 metri. Inganno l’ora che mi separa dalla cena leggendo il libro di Ngugi Wa Thiong’o autore di “Sogni in tempo di guerra”, il più celebre romanziere kenyano e kikuyo contemporaneo che tutti conoscono, orgogliosi e stupiti di vederlo tradotto in italiano. Anche l’allegra brigata di provetti costruttori cena insieme a noi, ma meglio anticiparli di qualche minuto, poiché appena entrano inizia l’assalto al self service, e ritornano ai tavoli con dei piatti immensi, giganteschi; pensandoci bene però parlare di educazione alimentare in Africa è quantomeno prematuro.

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7° GIORNO: sono alla “Rock House” di Patrick a Nairobi, a dir poco sontuosa e kitsch allo stesso tempo. Si trova alla periferia della grande megalopoli kenyana, un quartiere residenziale; il cancello di entrata è già un programma, sembra quello dei “Flinstones”, tutto in finta pietra,

all’interno un giardino tropicale intenso e verde, la piscina con bar e la casa; tutto è in finta pietra e gli animali della savana sono presenti ovunque, in legno, in ferro, in pietra, ci sono ippopotami, bufali, elefanti, leoni, è tutto quanto di più africanamente lussuoso si possa immaginare, sfarzo e manifestazione della nuova borghesia Kenyana, rampante e di successo. I clienti siamo solo noi; Patrick ed un suo amico sono da due ore intorno ad un tavolo, uno con un PC mac, l’altro con lì I- Pad, hanno pranzato e bevuto birra ma non credo abbiano parlato granché. Alcuni muratori sono intenti a ricoprire con finta pietra nuovi muri e Lidia, la gran Mama che ci ha accolti, espleta tutte le varie faccende di casa. È il volto sfacciatamente ricco dell’Africa: rispetto ad una qualsiasi bancarella di legno che vende là fuori un casco di banane e tre ananas non ne è il contrasto, quanto l’evoluzione di uno stile primitivo, molto bello comunque.

Stamattina siamo partiti da Nanyuki alle 07:10 per il parco “Sweet Water”, un modo per occupare la nostra giornata, ma ci rifiutiamo di entrare per il prezzo incredibile che praticano: 75 USD a persona e 48 USD per l’auto, una follia per un parco nazionale piccolo e sconosciuto. Quindi torniamo a Nairobi in 3 ore e mezza accolti da un traffico nauseante, denso di gas di scarico neri ed oleosi. Il pomeriggio usciamo a fare un po’ di acquisti, ma i negozi di souvenir molto più dei centri commerciali, sparano dei prezzi fuori mercato, sto scoprendo un Kenya molto caro, molto più vicino alla follia che alla qualità della merce venduta. Ceniamo al “Carnivor” un ristorante eccellente, paradiso della carne dove è ancora possibile mangiare coccodrillo (ha un retrogusto di pesce), lo struzzo, il manzo, pollo, tacchino, agnello, tutto viene servito senza limite fin quando non si decide di ammainare la bandierina sul proprio tavolo. Il locale è molto esclusivo, frequentato da turisti ma soprattutto dalla classe agiata di Nairobi che dopo la cena si concede balli di musica occidentale nella discoteca annessa, mentre i Masai sono fuori al parcheggio a tirar su qualche spicciolo.

8° GIORNO: sveglia alle 06:00 per visitare il “Nairobi National Park” ma anche qui rinunciamo, è piccolissimo, quasi uno zoo, e chiedono 40 USD a persona. L’autista ci porta al museo nazionale di Nairobi, entriamo da primi visitatori della giornata e ci godiamo con tranquillità le sale del museo: niente di particolare, tutto molto semplice ed ovvio, qualche reperto preistorico il resto è fatto da animali impagliati, fotografie e qualche costume. L’unica ala davvero interessante è quella che ripercorre la recente storia del Kenya, dai Mau Mau ad oggi. Accanto al museo abbiamo tempo anche di visitare il puzzolente e deprimente rettilario, un lugubre corridoio dove serpenti, iguane e coccodrilli si mostrano all’interno di teche di vetro dai vetri opachi. Prima di rientrare alla “Rock House” ci fermiamo all’orfanatrofio per i piccoli di elefanti: una onlus gestita da inglesi che cura gli elefanti abbandonati e rimasti senza mamma, all’ingresso vendono anche gadget sull’argomento e chi vuole può esercitare il nobile atto dell’adozione per un anno di un elefante. Quasi strappalacrime se non fosse che a pochi chilometri sorge una bidonville infinita, di essere umani stavolta, e chissà se un orfano qualsiasi, nero e brutto, va a bussare alla porta di quei “nobili” d’animo che aiutano gli animali, e trova un piatto di cibo e un ricovero. Misteri dell’umanità. Il pomeriggio, invece, proprio perché non avevamo più nulla da fare, andiamo in un parco privato dietro alla casa di Patrick dove è possibile dar da mangiare alle giraffe, un’attrazione per bambini. È notte, scrivo davanti al fuoco della hall dell’albergo: il Kenya è il paese che più di tutti in Africa ha

mantenuto una sfumatura coloniale, british, integrata nel presente; ville vittoriane di mattoncini rossi, con i tetti spioventi, gli infissi alti e bianchi, l’edera che ricopre i muri sono parte integrante della savana, dove facoceri e giraffe pascolano i giardini.

9° GIORNO: Volo notturno per Il Cairo, osservo le luci di Nairobi dall’alto, ci rivediamo presto mia Africa.