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Camerun del Sud

sabato 20 gennaio: giornata umida ma non fredda a Roma, c’è qualche banco di nebbia sul raccordo, è sabato e non c’è traffico, arrivo spedito a Fiumicino, alle 08:20: ecco comincia il viaggio. Da Roma partiamo solo in due, volo Turkis per Istanbul, dove incontriamo gli altri provenienti da Venezia e Bologna e brindiamo al viaggio con un bel boccale di birra; quindi coincidenza notturna per Yaoundé dove atterriamo oltre la mezzanotte.

Domenica 21 gennaio: tra ritiro bagagli e tutto il resto arriviamo all’hotel Merina alle 2 di notte, grandioso il mio incontro con Victor, dopo 5 anni è bello rivedersi. Metto la sveglia alle 05:40 ma Victor ha pensato bene di svegliarmi alle 05:20 perché c’è il cambia valuta che è giù ad aspettarmi. Bene, scendo “pazientemente” giù, raccolgo i soldi e facciamo tutte le varie transazioni economiche, trovando anche il tempo di fare una colazione velocissima. Già è tutto frenetico, seppur l’Africa trasmette calma e serenità annullando il tempo io sono ancora impostato con l’Italia e sono stanco di sonno: finché alle 06:30 saliamo su “Andy” la Blue Eagle del Camerun, il pulmino 4x4 che ci accompagnerà nel profondo sud, chissà come andrà.

Usciti da Yaoundé inizia la giungla tagliata dalla strada asfaltata per il momento, e ai lati vive il Camerun, un’incessante vita che si svolge lungo la strada, a volte si concentra in centri abitati altre volte solo baracche, ma c’è sempre qualcuno che passeggia, un bambino che esce fuori dalle foglie e ti saluta, una donna che vende ananas, carote, noccioline, banane o manioca. A merenda ci fermiamo non so dove e assaggiamo il primo boccone di “bushmeat”, la lepre, piccante e buona, con una baguette. Poi la sosta pranzo è a Bertoua, laddove finisce l’asfalto ed inizia la pista. All’hotel-ristorante “Christiane” ci stavano aspettando, il pranzo è pronto e buono, di quest’albergo non si può dimenticare il sontuoso trono in legno con i cauri e le monete incassati che ti accoglie alla reception. Sono le 15:00, si riparte ed inizia la pista rossa e dissestata: procediamo ad una velocità massima di 25 km/h, infatti verso le 17:00 iniziamo a renderci conto che sarà impossibile raggiungere Yokadouma con il pulmino, solo un 4x4 può coprire in un giorno la distanza Yaoundé/Yokadouma, al prezzo di almeno 13 ore di guida se tutto va bene. Inoltre non si può viaggiare di notte in una strada simile con un solo mezzo, sarebbe troppo pericoloso, e scegliamo, anzi siamo costretti a dormire a Batouri, l’unico villaggio/città tra Yokadouma e Bertoua, all’auberge “chez Silvienne”, niente male, un alloggio dignitoso calcolando il luogo. Scendendo nel cuore della foresta incontriamo innumerevoli tir che trasportano grossi tronchi di legno, per un minimo di 3 ad un massimo di 5, tanto sono grandi e belli. A Baturi arriviamo alle 19:15, cena con pesce e banane fritte poi a letto stanchissimi per questo primo giorno intero di viaggio. Yaoundé/Bertoua sono 344 km di asfalto, mentre Bertoua/Batouri sono 132 km di pista.

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Dalla rivista “Africa” del 2/2008:

<<È questa la strada percorsa dai camion delle multinazionali del legno che penetrano in quella che noi ci ostiniamo a chiamare la foresta vergine del bacino del Congo (ma che di vergine non ha più nulla). Le zone di taglio definite dalle concessioni forestali, che nel 1960 comprendevano meno del 20% della foresta, oggi ne coprono quasi il 90%. Secondo un recente rapporto della Banca Mondiale, la quasi totalità della vendita del legname della provincia orientale del Camerun è fuori dal controllo delle autorità. I tronchi vengono tagliati al di fuori delle zone consentite, oppure in concentrazioni eccessive all’interno delle concessioni o ancora esemplari troppo giovani. Poi il legname viene portato nelle zone dove il taglio è permesso e timbrato con il martello che dovrebbero avere solo i funzionari governativi ma spesso, chissà come, finisce in mano alle aziende. A quel punto il gioco è fatto: una volta che il tronco è sul camion, con tanto di marchio che ne garantisce il controllo governativo, nessuno sarà in grado di accertarne la provenienza illegale.

Lo sfruttamento del legname dovrebbe garantire risorse preziose al territorio, la legge assegna metà delle tasse alla regione del taglio. Ma quei soldi seguono ben altri percorsi. Basta vedere Yokadouma, la capitale della provincia dell’est, se tutto quel denaro arrivasse qui, la città sarebbe un gioiello. Invece l’abbattimento della foresta ha portato meno di un chilometro di asfalto sulla via principale, ormai in gran parte liquefatto. Per il resto non c’è che terra, polvere, buche, povere casette e la gente abbandonata a se stessa…

L’Italia è il primo importatore di tronchi pregiati dal Camerun con oltre 32.000 metri cubi di mogano, ebano, iroko, ayous, aniegré, pachyloba e talì: e non sempre questo legname segue le strade ufficiali, macchiandosi di illeciti come denuncia Greenpeace>>.

 

Lunedì, 22 gennaio: oggi altra tappa lunghissima, sempre più dentro al cuore verde, partenza da Batouri alle 05:30 e arrivo all’hotel Elephant di Yokadouma alle 15:30, per percorrere 205 km di pista rossa molto accidentata e zeppa di controlli di militari, gendarmerie e sicurezza sanitaria (controllano la febbre gialla) ! Quasi tutti pretendono i soldi, alcuni con simpatia, altri con arroganza, come un poliziotto che ci ha trattenuto quasi un’ora minacciando di non consegnarci i passaporti: del resto in questa angolo di mondo lo Stato esiste solo formalmente e chi ha l’arma o la divisa ha il potere di fare ciò che vuole. Alle perdite di tempo aggiungiamo anche una foratura, per fortuna e miracolosamente l’unica di tutto il viaggio, e in tutto ciò aggiungiamo anche la polvere rossa che ormai entra ovunque all’interno del nostro sgangherato pulmino: “la poussiere rouge de l'est du Cameroun” come dice Victor, che ci colora d’ocra ovunque.

Siamo a Yokadouma, appena arriviamo si pranza con riso bianco e una specie di spezzatino, dopo la doccia che porta via il nostro bel colore e passeggiata al centro della capitale della regione dell’est, tipica, rumorosa, polverosa, disordinata dell’Africa più classica: non c’è asfalto, un distributore di benzina, un unico albergo accettabile (il nostro) senza connessione wi-fi, e tanta vita vera. Al mercato non vendono “bushmeat” come invece mi aspettavo, tanto pesce secco e le donne sminuzzano finemente una foglia simile a quella del banano per far poi una specie di zuppa. Si mangia e poi si dorme sotto la zanzariera, anzi crollo sotto la zanzariera.

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Martedì 23 gennaio: altra giornata densa di avventura, anche tragica sotto certi aspetti. Sveglia alle 04:00 del mattino e partenza da Yokadouma alle 04:45 e arrivo a Mandelé alle 12:15, è questo l’ultimo villaggio prima del parco Lobeké, dove c’è l’ufficio del Parco per pagare e ottenere i permessi di entrata, abbiamo percorso 140 km in 7 ore e mezza. E’ buio e il pulmino è costretto a procedere ancora più lentamente, incontriamo il pastore con la mandria di zebù che avevamo visto ieri pomeriggio, riconoscibile dal bellissimo zebù con le corna orizzontali, sarà un Peul nomade che scende giù in Congo o in Repubblica Centrafricana a vendere le sue bestie. Alle 07:00 in punto sostiamo per la colazione al villaggio di Ngato ma tiriamo fuori le nostre cose, pane e nutella con nescafè, nel frattempo Sandro viene aggredito da un povero esagitato che aveva voglia di urlare di prima mattina solo per aver la macchina fotografica in mano, ci pensa Victor a prenderlo per la “cravatta” e rimetterlo nei ranghi. Dopo Ngato la foresta si stringe e si alza ancora di più, la pista è sempre più bella, ed iniziano anche le misere capanne dei pigmei Baka che vivono ai margini della foresta, ci fermiamo e scattiamo un po’ di foto con loro. Oggi i controlli di polizia sono molti meno, solo 3 e tutti tranquilli e simpatici. All’ufficio del Lobeké impieghiamo una mezzora per le formalità burocratiche, nel frattempo vado a togliermi un po’ di polvere nel ruscello dietro, e scatto la foto ricordo al cartello del Lobeké. Per i permessi fotografici si pagano 10.000 CFA a testa. Ritorniamo a Mambele per il pranzo con polenta di ugali, riso, qualche pezzo di carne e una salsetta tipo maionese con le foglie sminuzzate di una palma, quelle di ieri pomeriggio al mercato di Yokadouma. Nel frattempo Victor ed Adeline si occupano di reclutare una squadra di 7 portatori meticci pigmei/bantù e due “EcoGard” armate a protezione, sia contro gli animali ma soprattutto contro i bracconieri. Io nel frattempo mi intrattengo ad ascoltare i lamenti di una vecchia pigmea ubriaca e altri 3 pigmei: ridotti ai margini della foresta, non possono più cacciare animali selvatici per la salvaguardia del WWF, e sono ridotti allo schiavismo dagli stessi bantù che abitano la regione, non possono entrare nei loro negozi, possono solo mangiare un tubero e qualche pugno di riso. I pigmei sono piccole comunità millenarie che si spostano ogni sei mesi per “lasciar riposare” l’ecosistema. Ma, oggi, le antiche tradizioni degli “uomini della foresta” mal si conciliano con le nuove norme che non riconoscono loro il diritto alla terra e alla caccia. Responsabile di ciò è sicuramente il programma di salvaguardia del WWF che non vuole riconoscere il diritto dei pigmei di esser parte dell’ecosistema; la conversazione mi ha rattristato, proverò a testimoniare ciò che ho visto a “Survival”.

Partiamo da Mambele alle 14:40 per arrivare al vero e proprio ingresso del parco, che dista altri 40 km di pista rossa e 9 km di sentiero fangoso, l’odissea continua: sale in macchina con noi una EcoGard, mentre Victor con il resto della truppa ci raggiungerà in jeep. Proprio nel sentiero fangoso il pulmino si impantana, inutili gli sforzi nostri per tirarlo fuori, tra l’altro dovrebbe funzionare il 4x4 ma non va, girano solo le ruote posteriori, siamo bloccati in attesa dei soccorsi e poco dopo arrivano: tutti i portatori armati di machete scendono dalla jeep e in 5 minuti disboscano un pezzo di foresta per permettere al Land Rover di passare davanti al pulmino e quindi trainarlo, io sono stupefatto, una velocità di intervento pazzesca. Iniziamo il trekking alle 16:45, sono 7 km nella giungla, da fare prima che venga buio alle 18:30, ma le sorprese non sono ancora finite. Il sentiero che porta al I° Mirador del Lobekè è facile, quasi in piana con qualche guado da superare, tuttavia uno di noi sta male, non riesce a proseguire, riusciamo a fare si e no due chilometri e dobbiamo fermarci, si allestisce un campo di fortuna nella giungla, con i soliti machete disboscano un po’ di verdura e montiamo le tende: in fondo non si sta male a dormire qua, abbiamo pure un ruscello d’acqua per lavarci e di insetti non ce ne sono tantissimi. Adeline pazientemente ci prepara la cena, un ottimo pollo alla cacciatora, pasta e whisky locale, di Yokadouma. In tenda sudo, ho gocce di sudore che mi scendono sulla fronte mentre ascolta i rumori della foresta, sono innumerevoli.

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Mercoledì 24 gennaio: sveglia nella nostra piccola radura, il ruscello che scorre lento, gli uccellini che intonano mille cinguetti diversi: la foresta si risveglia assieme a noi, un caffè, le fette con la cioccolata e dopo aver chiuso le tende si riparte lentamente con la marcia, ci aspettano altri 5 km e ad un tratto compare il primo Mirador del Lobekè, verniciato di un celeste verdognolo: non è altro che una palafitta alta 5/6 metri con due stanze e balconata per osservare in silenzio gli animali. Fino all’anno scorso si dormiva e si faceva il campo proprio sul Mirador, per fortuna è stato vietato anche perché per quanto si possa fare silenzio e impossibile non fare rumore: il Mirador domina tutto il “bai” un’ampia radura che si apre nel mezzo della giungla dove durante il giorno accorrono gli animali a mangiare o pascolare, arriveranno bufali, antilopi bongo, sitatunga, gru coronate e soprattutto i gorilla. È importante indossare abiti mimetici, non usare profumi e fare il massimo silenzio se si vogliono avere più chance di effettuare indimenticabili osservazioni. Con noi rimangono solo le due EcoGard, mentre i portatori e Adeline rimangono al vero e proprio campo, dove montiamo le tende, che si trova a 300/400 metri dal Mirador. Pranziamo silenziosamente e alle 14:30 appare il primo gorilla “silverback” e dietro di lui tutta la famiglia, ne ho contati 5 in totale, ma sono sospettosi, timidi e rimangono ai bordi della radura, ogni tanto sembra che ci osservino ed ho la netta sensazione che si sono accorti di noi, infatti rimane solo il maschio finché non si nasconde e sentiamo solo i rumori. Al tramonto due forti grida, richiama tutta la famiglia e i gorilla vanno a dormire. Purtroppo l’infortunio nel gruppo non ci permette di proseguire il trekking al II° Mirador, sono 11 km e non

possiamo farcela, l’unica alternativa è andare e tornare domani in giornata, poiché le EcoGard sono inseparabili, devono essere sempre insieme e non possono lasciare un turista solo al campo del I° Mirador. Al campo si sta bene, c’è un ruscello dove ci si può lavare e ne approfitto per lo shampoo, un tavolo di bastoni intrecciati, alcune panchine e due grosse tettoie dove montiamo le tende in una e nell’altra la cucina di Adeline con il bivacco dei portatori. Preferiamo dormire sotto per essere più protetti dall’umidità e dalla pioggia, visto che nel pomeriggio mentre eravamo in osservazione ha fatto un bel rovescio, che rimarrà l’unico, isolato di tutto il viaggio.

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Giovedì, 25 gennaio: doveva essere la giornata al II° Mirador, andare e tornare in giornata, 22 km in totale, ma non tutti sono convinti, io compreso, poiché l’unica possibilità concreta di vedere i gorilla è al I°, al II° si vedono principalmente bufali e sitatunga anche se è molto più grande; mentre per gli elefanti di foresta, di cui osserviamo solo le orme, bisogna andare al Mirador del “bai” Ndaugaye che si trova ad una giornata di marcia, poiché ha l’acqua che attira i grossi pachidermi. Alla fine andranno solo Marco ed Emilio, impiegheranno 2ore e 45 minuti per arrivare, il sentiero sale e scende ed ha alcuni guadi da attraversare. Io, invece, alle 7 sono già silenziosamente al I° Mirador, ho il mio libro sui tormenti di Re Agamennone e passo la giornata a leggere, con una pausa pranzo al campo tendato alle 12:00. Tutto il giorno, finisco la lettura, paziente fisso il bai, gli alberi, ogni tanto stormi di uccelli si spostano da una cima all’altra, passa una sitatunga, poi una scimmia si intrattiene a mangiare qualcosa, ma dei gorilla niente. Ormai lo scoramento e la noia mi assalgono, ma, alle 16:30 ecco il silverback che spunta fuori dai cespugli, pochi secondi e tutta la famiglia, dopo 5 minuti ne arrivo a contare 13 totali, e soprattutto oggi sono molto più tranquilli, non sembrano sospettosi, e non sembra affatto che si siano accorti della nostra presenza, è un documentario dal vivo, una scena naturalistica che ci ripaga di tutte la fatica e la pazienza, e in tutto dura tranquillamente fino al tramonto, ne godiamo per un’ora e mezza.

Cena con zuppa di fagioli e riso al sugo con spezzatino e funghi, proviamo ad osservare le stelle, ma le fronde degli alberi ingannano la mappa stellare; da oggi abbiamo iniziato ad utilizzare il “micropur” la pastiglia per potabilizzare l’acqua del ruscello.

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Venerdì 26 gennaio: sveglia nel buio della giungla, alle 05:30, scendo a sciacquarmi il viso nel ruscello e già sta leggermente schiarendo mentre Adeline ha già messo l’acqua a bollire; oggi smontiamo le tende e torniamo indietro, al prezzo di 150 euro i portatori si occupano del nostro infortunato, lo porteranno loro a spalla per 7 km. Si parte alle 06:30 e alle 08:30 siamo al punto dove il pulmino ci lasciò 3 giorni fa, ma oggi non è ancora arrivato. I portatori non so come abbiano sopportato una tale fatica, un uomo di 90 kg sulle spalle per 7 km è sovraumano, anche perché gli stessi avevano pure tutti i bagagli e la cucina. Intanto che aspettiamo distribuisco le mance, 10.000 CFA a testa alle EcoGard e 30.000 CFA a tutti i portatori che già felicissimi per i 150 euro stavano bevendo rhum in busta di plastica. Quando arriva il pulmino aspetto anche la jeep che all’andata aveva portato i tutto lo staff, ed invece la jeep non viene e si caricano tutto sul nostro sgangherato mezzo, 4 non entrano e vanno sul tettino, facendo un conto sommario abbiamo messo dentro 2,5 tonnellate, quasi tocchiamo terra ed incrocio le dita, almeno arriviamo a Mambelé e miracolosamente arriviamo, fino al “bureau” del Parco Lobeké. Qui c’è un leggerissimo segnale wi-fi, registrano la nostra uscita, scrivo le nostre impressioni e consigli sul parco, poi a pranzo a Mambelé, con pangolino, gamberi di fiume, banane fritte e polenta di manioca.

Partenza da Mambelé alle 12:30 e arrivo a Yokadouma alle 18:30, al solito Hotel “Elephant”: la pista è bellissima, dominata dal rosso della polvere e dal verde degli alberi, ma pessima, arriviamo che siamo sporchi all’inverosimile devo farmi ben tre docce per togliere via tutta la sporcizia, tuttavia l’asciugamano bianco si sporca ancora di arancione. Siamo stanchi ma felici, questa è la vera Africa equatoriale. Cena con le solite banane fritte e riso; poi la sorpresa, Adeline e Victor stanno parlando con Michael, una guida turistica, che assicura di arrivare a Yaoundé in un giorno passando per un’altra strada che non è nemmeno segnata sulla mia mappa, dove si possono mantenere i 50km/h di media. Ci speriamo anche se abbiamo già imparato a dar poco credito alle informazioni su tempi di arrivo e stato delle strade, è tutto interpretabile, soprattutto in Africa.

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Sabato 27 gennaio: che giornata ! una lunga, infinita traversata che avrebbe dovuto portarci a Yaoundé, ed invece ci porta fino a Bertoua, a dimostrazione e conferma che in Africa i concetti di spazio e tempo sono molto più labili dei nostri, e forse è proprio la fortuna dell’Africa, ma questo è un altro discorso.

Partiamo alle 06:30 da Yokadouma, e Michael che prende posto con noi in pulmino è convinto e sicuro che alle 18:00 al massimo saremo a Yaoundé. E tutti noi ci crediamo, infatti a parte il primo tratto fuori Yokadouma che è in pessime condizioni, iniziamo a prendere altre piste, principalmente piste forestali, lasciando la strada principale che sale verso Batouri, ed anche la velocità media aumenta, tocchiamo anche punte di 60 km/h. L’unico inconveniente è dato dal fatto che stiamo andando in un’aerea dove, almeno dalla mia mappa “Reise” del 2010 non ci sono strade: intorno alle 10:30 siamo in un villaggio, leggermente meglio tenuto degli altri, due cose mi hanno colpito: un bar con frigorifero e un campo da calcio con pali e traverse quasi regolamentari, non i soliti bastoni. È questo il villaggio dei boscaioli, tutte le casette sono numerate, e in cima a tutte, come fosse un castello che domina il borgo, si erge un’immensa segheria, raccolte infinite di tronchi, per caso vediamo un piccolo hangar con un aereo privato, non ci sono cartelli, non si riesce a capire che società è, il wi-fi del telefono prende una connessione “SISCO Company” che cercavo poco fa in internet senza successo. Proprio fuori al grande cancello dobbiamo fermarci con il pulmino, suona la sirena e gli operai in pausa pranzo tornano a lavoro, mentre Adeline e Michael entrano dentro per ottenere il permesso di passaggio attraverso la loro concessione forestale. Pochi minuti ed abbiamo il lasciapassare, si entra: percorriamo una comodissima pista dove manteniamo una velocità di 70 km/h per circa 2 ore e mezza, sul navigatore e sulla mappa stiamo nel mezzo del verde, usciamo dalla concessione forestale a 7 km dal villaggio di Mbang, è quasi ora di pranzo e ci fermiamo in un assolato paese, cercando qualcosa e non troviamo granché, tranne uova sode, banane, biscotti ed una specie di istrice cucinato in un tegame, provo a togliere la pelle ma è mezzo crudo, meglio evitare. Proprio in queste paese, apro la cartina ed inizio ad avere dei dubbi, ma Michel mi rassicura, tra circa due ore prenderemo l’asfalto, quindi al massimo per le 16:00. La strada è tutto un interminabile saliscendi nel cuore della

foresta, ma dell’asfalto ancora nulla, piuttosto rischiamo grosso in una discesa: i freni ad Alexis non rispondono e ci troviamo ad attraversare a tutta velocità uno stretto ponte di legno con un rischio altissimo di finire dentro al fiume, grosso spavento e lo sgangherato ma indistruttibile pulmino Toyota resiste ancora, cede solo il portabagagli ma è nulla in confronto a quello che poteva essere. L’asfalto lo prendiamo alle 19:00, a 30 km da Bertoua e a 300 km da Yaoundé, praticamente almeno altre 5 ore di viaggio. Alexis il nostro autista è stanco e noi altrettanto, non può proseguire, andiamo a Bertoua a dormire, all’hotel Christiane quello con il trono, dove avevamo mangiato il primo giorno. Siamo stravolti, piene di polvere rossa che entra ovunque nel pulmino, ma come dice Victor: <<c’est la poussieré rouge de l’est du Camerun…Exactament!>>, le piste sono finite. Una bella cena e gli occhi si chiudono velocemente.

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Domenica 28 gennaio: il vantaggio della traversata di ieri ci ha concesso una sveglia ed una colazione tranquilla all’hotel “Christiane” di Bertoua, e soprattutto la certezza che di fronte a noi abbiamo solo asfalto. Victor ed Alexis tornano con il pulmino tutto ripulito dalla polvere, un gran lavoro credetemi: si parte alle 08:30 ma arriveremo a Yaoundé solo alle 15:45, perché? In primis perché il viaggio è lungo e la strada trafficata, poi ci fermiamo a fare un’altra colazione, ad ora di pranzo mangiamo qualche bocconcino di “streetfood” del manzo arrostito lentamente sui forni-bidoni e servito su pezzi di carta insieme a cipolla e polvere piccante ad Abong-Mbang, infine perdiamo un’ora esatta ad un posto di blocco dove un capitano zelante e incorruttibile (una notizia!) scopre che la patente di Alexis non è abilitata al trasporto di pulmino, quindi si prende una multa di 25.000 CFA. Arrivati a Yaoundé ci portano a mangiare in un ristorante self- service molto lussuoso, con le sedie foderate immerso in un bellissimo parco, siamo quasi fuori luogo.

Arrivati all’hotel Merina, quello della prima notte, scarichiamo tutto il pulmino poiché Alexis se ne va, sarà sostituito da un altro proprio per il problema sulla patente, riprendiamo il bagaglio che avevamo lasciato e le stanze, qua l’ottima connessione wi-fi rapisce un po’ tutti. Prima che venga notte usciamo per una passeggiata ma è domenica ed è tutto chiuso: siamo al centro di Yaoundé ma la capitale, a parte qualche palazzo ministeriale non offre nulla, come qualsiasi altra grande città africana, riesco solo a comprare un completo da calcio del Camerun per mio figlio. Tornato in albergo, prima di uscire per cena mi lavo nella vasca piena d’acqua, chissà che così riesco a togliere via tutta la polvere rossa. Alle 20:00 appuntamento per la cena, Victor ed Adeline con il taxi ci portano in un ristorante con spettacolo e musica dal vivo nei pressi dell’hotel Santa Lucia. Il chiasso è insopportabile, non riusciamo a parlarci, ma è così tipicamente africano, così rumoroso che mi piace: diverse scuole da ballo stanno facendo una specie di concorso ad applausi a chi muove il sedere più velocemente e sono tutte piuttosto pingui. Per la cronaca, mangiamo uno spezzatino di carne piccantissimo con patatine.

 

Lunedì 29 gennaio: oggi inizia la seconda parte del viaggio, quella etnico-culturale, infatti ci spostiamo verso nord-ovest, sull’altopiano, verso le antiche “chefferie”.

portano spesso il titolo di sultano, come nel caso della nobile etnia dei Bamoun a Foumban. In quanto centro dell’organizzazione sociale, lo chef esercita funzioni allo stesso tempo politiche e spirituali, con un’autorità che si estende su tutti i campi della vita quotidiana (persone, beni, terreni), legando la prosperità del regno al suo ruolo di mediatore tra il mondo dei vivi e quello degli antenati. L’autorità riconosciuta del Capo non significa che egli governi in totale autonomia senza nessun aiuto, al contrario si trova circondato e coadiuvato da una precisa gerarchia di dignitari e servitori, di assistenti fidati e di società segrete che contribuiscono all’esercizio del potere. Il centro simbolico del potere si identifica nel Palazzo che, come in qualsiasi altro paese, riflette la visione del mondo propria di ogni cultura>>. Da Guida Polaris “Camerun” ed.2008

 

Dopo colazione, a Yaoundé, cambiamo altre 50 euro in aggiunta alle 100 del primo giorno in CFA e poi si parte alle 08:30. È arrivato un nuovo pulmino da Douala con un altro autista Salomon, mi dispiace solo per Alexis che se ne è andato così, senza poterlo salutare e dargli una mancia. La strada è completamente diversa, asfalto scorrevole, stiamo salendo verso l’altopiano a 1300 metri e alla foresta equatoriale iniziano a sovrapporsi le conifere. I posti di blocco sono pochi e piuttosto sbrigativi, alle misere capanne della foresta si sostituiscono case in muratura e le prime “chefferie” con i tetti conici in lamiera, sembra che chi ha più coni è più importante. Arriviamo a Bandjoum, la capitale dell’etnia Bamileké, alle 13:30 e pranziamo in albergo, al “Centre Climatique”, dei bungalows molto belli. Poi nel pomeriggio inizia la visita, prima andiamo alla “chefferie” più lontana, quella di Baham con museo annesso che raccoglie abiti delle società segrete, troni, maschere, feticci e strumenti rituali, è questo l’unico museo dove è consentito fotografare. La signora che ci accompagna come guida ci spiega diversi aneddoti sul Fon e tutti i dignitari, iniziamo a capire come funzionano questi regni. Poi ci accompagna al luogo sacro “Foyou” dove in una grotta vengono fatti sacrifici di animali, infatti molti sassi sono sporcati da polveri arancioni, bianche e rosse. L’altra “chefferie” che visitiamo è quella più importante di Bandjoun con il palazzo molto bello e grande, mentre il museo è meno ricco del primo. Da lontano osserviamo il re, il Fon, che ascolta a distanza seduto due sudditi. I tetti in lamiera sicuramente tolgono moltissimo alla scenografia dei luoghi che rimangono comunque affascinanti poiché riportano ad un mondo medioevale. Attualmente il Fon di Bandjoum vive in un moderno palazzo annesso all’originale che fu distrutto da un’incendio nel 2005 e perfettamente ricostruito in 2 anni, ha più di 50 mogli che vivono nelle casette attorno. Torniamo al nostro “Centre Climatique” ceniamo e a letto, dopo un’altra giornata densa di nuovi ed interessanti contenuti.

 

I Bamileké: "Questo gruppo etnico sembra provenire da una migrazione di popolazioni provenienti dall’Alto Egitto le quali, una volta giunte nelle regioni occidentali del Paese, hanno attraversato il piano Tikar, l’alto Mbam ed il paese Bamun; i loro capi sembra fossero dei grandi cacciatori, essi sono depositari dei costumi ancestrali e sacri, esercitando una sorta di potere divino. Se a causa dell’intervento di forze esterne o interne impreviste un usurpatore dovesse prenderne il posto, il culto sarebbe interrotto ed il paese cadrebbe in uno stato di disgrazia. I Bamileké sono un milione e mezzo, disseminati per le praterie d'altopiano nella provincia occidentale del Camerun. Il Capo è appoggiato da società - non necessariamente segrete - e da consigli di anziani, che vengono consultati al momento della successione. Il Fon è ritenuto capace, grazie a poteri sovrannaturali, di trasformarsi in animale. Assicura protezione e garantisce fertilità alle donne. E' tuttora responsabile dei rituali agricoli, dalla semina al raccolto; del festival annuale della stagione secca; dell'apertura della caccia reale".

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Martedì 30 gennaio: percepisco che il viaggio si sta esaurendo, ogni giornata è più densa dell’altra, ed anche oggi ci aspetta l’escursione alla “chefferie” di Bafut, entriamo nella regione anglofona, quella più ostile al presidente del Camerun Paul Biya e che reclama una sua indipendenza. Da Bandjoun a Bafut ci sono 150 km circa, ma, partendo alle 08:00 arriviamo solo alle 12:45, poiché mentre i primi 100 km sono abbastanza buoni, il tratto nella parte anglofona è pessimo, ci sono più posti di blocco, e in uno di questi che è un po’ l’ingresso doganale ci trattengono per quasi un’ora. In questa regione la popolazione tenta di parlare inglese ma dopo qualche parola ripassa più facilmente al francese, saliamo molto alti, il passo è a circa 2200 metri, poi scendiamo nella valle dove si estende la città di Bamenda il capoluogo, ed infine Bafut.

Questo villaggio è il centro della cultura “Achum”, ha circa 700 anni d’età, e l’attuale complesso è stato costruito nel 1901 con l’aiuto dei colonizzatori tedeschi. Appena arrivati vorremmo mangiare, ma la guida (una delle tante mogli del fon) ci dice che non sono ancora organizzati e dobbiamo attendere: quindi ci accompagna alla visita del museo e poi per tutto il complesso del Palazzo Reale. Quest’ultimo, il più antico di tutti, seppur avvolto in un’atmosfera di totale decadenza, ha dei tratti particolari rispetto agli altri già visitati: le casette sono costruite con mattoncini rossi, le strade sono acciottolate, ci sono tantissimi

bambini sicuramente figli del Fon, nel complesso è più povero ma più animato, molto più vissuto rispetto agli altri due. La struttura centrale è meno spettacolare, anche perché è accerchiata da costruzioni e non ha un effetto di profondità: mangiamo in uno dei cortili interni con igname, una specie di spinaci, pollo e pesce, mentre nel cortile stesso dei bambini costruiscono un grande “balafon” per inscenare successivamente una danza tribale, sia con le donne poi con dei personaggi mascherati al ritmo dello strumento suonato da soli uomini e bambini.

Si riparte da Bafut alle 15:30 abbastanza frettolosamente, poiché non solo dobbiamo ritornare a Bafut percorrendo la strada a ritroso, ma dobbiamo arrivare a Foumban che dista altri 70 km: infatti solo alle 20:30 siamo all’hotel Pekassa dopo un’altra lunghissima e faticosa traversata di tutto l’ovest, ceniamo e wi-fi piuttosto veloce per dar sfogo al nostro bisogno di comunicare.

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Mercoledì 31 gennaio: sveglia a Foumban, una piccola città che conserva l’atmosfera di un villaggio, è bella, è viva è molto africana, e tra tutte è quella che mi ha colpito di più di tutto il Camerun. Fatta la colazione all’hotel Pekassa, a piedi, andiamo al mercato dell’artigianato, ci sono moltissime botteghe che vendono souvenir: dalle solite maschere agli sgabelli, oggetti, chincaglierie, peccato che a me piacciono sempre le cose giganti, c’era un bellissimo trono, come riportarlo? Alla fine prendo un pannello in legno che rappresenta una donna molto stilizzata, anche se oggi mi pento di non aver preso pure l’uomo, avrei avuto la coppia. Ritorniamo all’hotel per lasciare gli acquisti e sempre a piedi andiamo al celebre Palazzo Reale di Foumban dove regna dal 1992 il sultano Njoya Mbombo: confinante al palazzo è stato recentemente costruito il futuro museo, una costruzione così kitsch da diventare perfino bella, ovvero un grosso ragno con due serpenti intrecciati (il simbolo reale), dalle bocche dei serpenti le biglietterie e l’entrata, più simile alla casa dei mostri del lunapark.

 

Dalla guida Polaris “Camerun” ed. "al contrario degli altri regni dell’ovest, il paese Bamoun si è costituito in una società politica unitaria sotto l’autorità di un solo re, non essendosi verificata la prolifelazione di tante chefferie distinte ed autonome come accaduto per i Bamileké. Dal punto di vista storico i Bamoun  hanno per secoli rappresentato una barriera all’invasione islamica dei cavalieri Peul provenienti dal nord e rimasti nei loro lamidati feudali, sino a quando il Re Njoya adottò l’Islam come religione dello Stato. La figura del Re Njoya Ibrahim (1876-1933) rappresenta il momento centrale di tutta la storia e la cultura dei Bamoun, avendo condotto questo popolo verso la modernità, riformando e rinforzando l’amministrazione e l’esercito. Dopo aver conosciuto il Corano ed essere stato in contatto con i colonizzatori tedeschi, Nyoya decise di disporre di una propria scrittura. Creò così un’alfabeto, lo “Shu-Mon”, che riuscì ad espandere nel regno e a rendere accessibile a tutti. All’arrivo degli europei, Nyoya scelse di convertirsi all’Islam nel 1902 per contenere l’influenza religiosa dei missionari, divenendo così anche il capo religioso della comunità".

 

Il palazzo del Sultano costruito da Njoya nel 1917, si presenta come un misto di vari stili con forti richiami arabi, etnici, barocchi e coloniali. Vi si accede da un’entrata principale dove sorge l’imponente statua di bronzo del Sultano fondatore della dinastia. Il palazzo oltre ad essere la residenza del Sultano ospita un’interessante museo iniziato dallo stesso Nyoya Ibrahim nel 1920. Il museo si sviluppa su due grandi sale collegate da due corridoi laterali che portano ad altre sale minori che ospitano moltissime testimonianze storiche, curiosi sono gli abiti del re Mbuembue che era alto 2 metri e 60 cm !

Dopo la visita del museo, scendiamo giù nel grande cortile interno dove c’è proprio il Sultano che seduto sul trono davanti alla porta di ingresso del palazzo e riparato da un ombrello ascolta, benedice, dispensa consigli, a tutti i vari dignitari del regno Bamoun, ma ci sono anche donne e bambini che si inginocchiano al suo cospetto, alla fine della cerimonia andiamo anche io e Victor a dirgli “buongiorno” prima che salga sulla sua lussuosa Ford Lincoln. Dopo la cerimonia, attraversiamo tutto il vivace e caotico mercato per vedere il grande Tam-Tam cerimoniale ricavato da un tronco d’ebano il cui suono sembra possa essere udito sino a decine di chilometri di distanza. Terminata la visita di Foumban, alle 11.30 siamo pronti a partire, iniziamo a scendere verso sud, direzione Melong, ma prima di arrivare ci fermiamo a pranzo a Bafoussam in una classica bettola africana con pesce, pollo e manzo cotti sui bidoni in strada.

Poi ci sono le cascate della Metche subito fuori dalla città che visitiamo, sono sulla strada serve solo parcheggiare, qua è possibile andare dietro al getto d’acqua dove le tracce rimaste fanno pensare ad un luogo per sacrifici. Scendendo dall’altopiano, la strada è molto ripida, Salomon mette addirittura la 2°, e infatti alla curva successiva c’è un bus schiantato da qualche ora sotto al ponte, chissà se ci sono stati morti. Alle 17:00 siamo arrivati a Melong, anche se dormiamo in campagna, nell’incantevole “Ville Luciole” immersa in bananeti, ruscelli e cascate, uccellini, fiori colorati ed ampi bungalows. Sarà questa la base di partenza per il trekking di domani. La signora di “Ville Luciole” mi lava anche i pantaloni, pensavo sarebbe stato impossibile togliere lo sporco e la polvere del Lobeké, ed invece c’è riuscita.

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Giovedì, 1 febbraio 2018: oggi niente pulmino o quasi, un bel trekking per arrivare ai laghi maschio e femmina di Manengouba. Dalla “Ville Luciole” ci muoviamo alle 07:00 con il pulmino e alle 07:10 siamo alle pendici, pronti alla lunga camminata assieme a Rodric, la guida: quindi partenza alle 07:10 e arrivo ai laghi alle 11:00, 3 ore e 50 minuti di ascesa andando molto lentamente. Il primo tratto che corrisponde grosso modo alla prima ora e piuttosto ripido, prima si attraversano bananeti e campi di manioca, talvolta si entra e si esce dalla foresta, fin quando avvistiamo il primo villaggio Peul, da questo momento in poi il sentiero è piuttosto dolce e non presenta grosse salite. I Peul che vivono ai Manengouba sono ormai sedentarizzati seppur fanno parte di un’etnia nomade, allevano capre, pecore, cavalli e mucche, lungo il sentiero si incontrano diversi villaggi di poche capanne, le donne sono molto belle e vestite con molto colore, i tratti somatici sono quelli caratteristici nilotici con scarificazioni sul volto, molto più accentuate nel sesso femminile. Volendo si può salire anche a cavallo, sono gli stessi Peul che accompagnano, ad un prezzo di

25.000 CFA per tutta la giornata. Dopo 3 ore di cammino arriviamo alla cresta del grande, immenso cratere Manengouba che ospita i due laghi, anche se da qua si può osservare solo quello femmina, il maschio è coperto. Arrivati ai laghi c’è un capanno, il lago maschio è più piccolo e di un bel colore turchese, mentre il femmina è più grande e più scuro, quest’ultimo è balneabile l’altro no, sembra che esista una maledizione per la popolazione del luogo; in realtà osservandoli bene, si capisce chiaramente che il lago maschio non ha rive, ma solo roccia scoscesa, mentre l’altro ha anche piccole spiagge. Ripartiamo alle 12:00 e a scendere impieghiamo esattamente 50 minuti in meno, ovvero 3 ore: alle 14:50 siamo sull’asfalto, poco dopo il pulmino ci viene a prendere e piuttosto che andare subito alla “Ville Luciole” andiamo a berci una birra a Melong, io ne approfitto per accorciare un po’ la barba. Discuto un po’ con Victor, che oggi è piuttosto permaloso, ma facciamo subito pace. Torniamo ai bungalows, cena e a letto, questa è l’ultima notte in Camerun, domani sera saremo già all’aeroporto di Douala.

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Venerdì 2 febbraio: scrivo dall’hotel IBIS di Douala dove in 4 abbiamo preso una stanza d’appoggio per 4 ore al prezzo di 40.000 CFA, mentre diverse donne di “compagnia” mi guardano e sorridono.

Siamo partiti da “Ville Luciole” alle 08:30 con molta calma, e a qualche chilometro da Melong prendiamo una strada sterrata sulla sinistra per 9 km che ci porterà alle “chutés de Nkom”, le cascate rese famose dal film “Greystoke – La leggenda di Tarzan”: c’è un piccolo bar e una biglietteria, poi si scende per una lunga e ripida scalinata, soprattutto a salire, ammirando la bellezza della natura, un getto d’acqua nel mezzo di una vallata verdissima, posto incredibilmente bello, tra l’altro c’è anche la possibilità di vedere le cascate dall’alto, ma ovviamente non sono così scenografiche. Qua fa molto caldo, per la prima volta durante il viaggio si sente l’afa, ed è così più si scende verso Douala. La strada è sempre più trafficata, e taglia in due immense coltivazioni di banane e papaya; verso l’una cerchiamo un posto qualunque dove mangiare e dopo un po’ di indecisione, Victor ed Adeline ci portano in un ristorantino fuori dalla strada principale, un po’ defilato, e qui il menù è quantomeno strabiliante: varano, mangusta, boa e volendo anche il pesce! Questa chicca culinaria è un po’ la ciliegina sulla torta di un viaggio duro ma altrettanto meraviglioso, in un’Africa equatoriale, verde e rossa. Il proprietario ci permette perfino di fare foto ad un varano lungo almeno 1 metro e mezzo, tutti felici riprendiamo l’ultima parte di viaggio, e più entriamo a Douala e più il traffico aumenta, fino a bloccarci completamente, per almeno un’ora, nel ponte sul fiume “Wouri” chiamato dai portoghesi “Rio dos Camarões” il fiume dei gamberi, da cui il Camerun ha preso il nome. In Hotel arriviamo alle 16:30 e alle 20:00 viene a prenderci Victor per l’ultima cena in un ristorante con musica e balli dal vivo, molto rumoroso anche questo, ma africano e divertente. Poi all’aeroporto di Douala.

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Sabato, 3 febbraio: arrivo ad Istanbul e coincidenza per Roma presa al volo, dopo una lunga corsa. I bagagli a fiumicino non ci sono, ma è lo stesso, me li portano direttamente a casa. Alla prossima !!!!