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Camerun, i "leoni indomabili"

E’ il Camerun, o perlomeno mi piace pensarlo con molto romanticismo, il primo paese africano di cui sono venuto a conoscenza, i “leoni indomabili” che nei mondiali di calcio pareggiavano con l’Italia, oppure battevano l’Argentina campione del mondo, capaci di essere la prima squadra africana ad arrivare ai quarti, e c’erano sempre gli stessi campioni di 8 anni prima: Roger Milla, Francois Oman-Biyik e il super portiere Thomas N’Kono. Quindi per me il Camerun è sempre stato sinonimo del calcio in Africa, anche quando ci sono veramente andato 25 anni dopo, per me quel paese non era rappresentato da Samuel Eto, ma da quei giocatori quasi leggendari, piuttosto che dal pluridecorato e pagato e anche più forte attaccante di Douala.

1° GIORNO: arriviamo nel vetusto aeroporto di Douala nella notte e ci sistemiamo a dormire in albergo vicinissimo. Quando suona la sveglia, al mattino, mi sorprende nel pieno sonno ma soprattutto mi sorprende di ritrovarmi finalmente in Africa, e subito me lo ricorda l’odore del cuscino sul mio naso. La colazione è lentissima ma mangio parecchio, ci viene a prendere Adelaine, cambiamo i soldi e partiamo subito per Buea: questa cittadina è un po’ fuori dall’immagine comune dell’Africa, è ordinata, fresca, si respira un aria buona di montagna. Aspettiamo almeno due ore sul prato di fronte all’ufficio della Cooperativa Eco - turistica che gestisce il parco del Mt. Camerun, infatti siamo pronti per scalare la cima più alta dell’Africa occidentale, e nel frattempo ci mangiamo cannoli fritti con pesce e salsa piccante, molto buoni e che non ritroveremo più nei giorni a venire. Partiamo alle 12:45, il sentiero è una bella salita a tratti più o meno ripida, a metà strada Adelaine ci da il pranzo, del pollo piccante e del platano fritto, arriviamo al rifugio N.1, alle 15:45. Riposiamo e chiacchieriamo nella baracca di tavole e lamiera, e talvolta le tavole a terra nemmeno ci sono ma buchi. Oltre la baracca gli alberi della foresta vanno via via degradandosi, per lasciare il posto ad una fascia di vegetazione sempre più bassa, modellata da nere colate laviche che si intravedono sotto l’erba secca. Ceniamo intorno alle 20:00, con un ottimo riso, cipolle e fagiolini, come secondo un pescione di lago simile ad una carpa. Subito dopo ci prepariamo per la notte stendendo i sacchi a pelo sulla tavole dure.

2° GIORNO: sveglia con la luce intorno alle 06:30, oggi è una bella giornata, senza nuvole. Dopo un abbondante colazione partiamo alle 07:45, quindi presto finisce la foresta e ci troviamo ad affrontare un tratto ripidissimo di salita sotto il sole, l’erba secca e la terra sempre più nera. Sosta ad un primo rifugio, quindi altra sosta più su all’albero magico (l’unico presente), dove iniziamo a maturare l’idea di raggiungere la cima domani mattina con una sveglia alle 4, piuttosto che farlo oggi, anche perché le nuvole stanno salendo e probabilmente dalla cima non vedremmo nulla, meglio l’alba del mattino che avrà sicuramente maggiore visibilità. Ci fermiamo al rifugio N.2 piuttosto presto, intorno alle 12:00, siamo a 2850 m asl, abbiamo di fronte tutta la giornata e nel pomeriggio vado a fare una passeggiata lungo un crinale. Sono le 17 del pomeriggio, il cuoco è indaffarato a preparare la cena e l’odore che sale dal fuoco è ottimo, un mio amico sta insegnando ad un portatore a fare oricami a forma di ranocchia, l’allievo sembra interessato ed impara velocemente. Naturalmente quassù non c’è granché da fare, dopo il lavaggio dei denti e la sigaretta proviamo tutti a dormire: stanotte le tavole sembrano più flessibili ma meno sicure, sotto

di noi dormono i 5 portatori, Matthias la guida e Adelaine, tutti infilati in grossi sacchi a pelo verde militare adagiati su dei giacigli di paglia, sicuramente più comodi.

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3° GIORNO: Scrivo la cronaca della giornata dall’albergo di Buea, dopo aver fatto una doccia doppia e essermi messo comodo in ciabatte a bere una birra: sveglia alle 03:30, colazione con pane formaggino e albicocche, e alle 4 puntuali si parte per la cima, sotto una notte senza nuvole e tante stelle. Non facciamo altro che salire in alto, lungo un sentiero sempre ripido, mi carico sulle spalle uno zaino pesantissimo poiché Matthias infila nel mio che è mezzo vuoto, banane, arance, pane e sardine, vorrebbe portarlo lui ma non glielo lascio fare. Di questa ascesa mi piace ricordare Venere, stella del mattino, che compare all’orizzonte tutta rossa proprio quando l’alba inizia a colorare il cielo blu notte di arancio; e tutto sotto, ma tanto sotto, i puntini illuminati della città di Buea. Arriviamo in cima alle 07:45, siamo 4050m asl, scattiamo le nostre foto d’entusiasmo, non fa freddo e ci riposiamo un po’ in cima. Ridiscendiamo, quasi senza mai fermarsi, dalla cima ai 900m di Buea: una discesa massacrante, a dire che all’inizio è dolce, al rifugio N.3 (3700m asl) mi mangio pure pane e sardine in scatola. Poi inizia a diventare un calvario, sul tallone del piede destro mi si forma una bolla d’acqua, le gambe sono sempre più stanche ed incerte, non essendo più di assicurazione sulle cadute, il sole dell’equatore è ora alto in cielo e ti brucia nel sentiero senza ombra. Ritorniamo al rifugio N.2 alle 10:00, per ripartire alle 10:30, poi alle 12:30 siamo al rifugio N.1, dove ci fermiamo a mangiare, Adelaine e i portatori già scesi ci hanno preparato spaghetti al sugo di pesce. Ripartiamo alle 13:45 e alle 15:00 sono in un bar proprio dove finisce il sentiero, accanto alla prigione di Buea, a scolarmi una coca-cola d0 66cl. Torniamo all’ufficio del turismo dove l’altro ieri è tutto iniziato, elargisco le mance e facciamo le foto tutti insieme. Quindi qui fuori all’albergo a bere birra Beafourt, fatta nella brasseria di Douala, a scrivere e a godere del fresco della sera mentre i muscoli finalmente riposano. Per cena mi mangio un grosso pesce fritto con platani.

4° GIORNO: è impresa assai difficile scrivere dalla carrozza di un treno assai scorbutico, ne approfitto durante le frequenti soste: siamo nella cuccetta 581 che da Yaoundé ci porta a N’Gaounduré, partenza alle 18:10 e arrivo previsto tra le 8 e le 10 di domani mattina. Abbiamo lasciato Buea alle 08:10 del mattino con molta fretta e siamo arrivati a Yaoundé alle 15:30 facendo pochissime soste: la prima per far riparare i freni, la seconda per consegnare una bicicletta che Adelaine aveva promesso al nipote e la terza per mangiare in un ristorante self service con

polpette fritte e una Fanta. Insomma del viaggio in pulmino non c’è tanto da dire, tranne il noioso, abbiamo attraversato la foresta parco naturale dell’Edea, una lunga strada poco trafficata se non da camion carichi di tronchi d’albero. E poi un caldo umido asfissiante. Non so in quale stazione del paese siamo fermi, fuori nel buio si sentono gli uccelli e gli insetti sugli alberi che verdi e oscuri circondano interminabilmente la ferrovia. Alla stazione di Yaoundé siamo arrivati con due ore di anticipo e godiamo dell’aria condizionata della sala d’aspetto, salutiamo la dolce e gentile Adelaine che mi da una busta da consegnare a Victor. Ceniamo in cuccetta, e mi prendo un gigantesco zampone di capra, buono, ma così duro e con l’equilibrio così precario, che riesco a strapparne solo qualche pezzo. Mi sazio con il riso e l’ananas. Poi passeggio per le carrozze, conto 17 vagoni, c’è l’Africa che si muove e più vado avanti e più sono costretto a scavalcare e saltare corpi, l’odore aumenta, sempre più forte e acre, i passeggeri iniziano ormai ad occupare tutti i corridoi per dormire la notte, infine tanti i bambini, tutti buoni e fermi ai loro sedili con i propri genitori, piccoli angeli.

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5° GIORNO: la massiccia sagoma di Victor ci da il benvenuto a N’Gaoundoueré alle 8 del mattino, siamo nella fascia del Sahel, il sole sta salendo e colora di giallo ocra la terra, c’è una luce bellissima. La colazione in treno non è andata bene, il caffè e latte mi si è rovesciato negli ultimi sobbalzi e da fuori al finestrino inizio a vedere il secco, sterpaglie e boscaglia. Victor carica la jeep e ci lascia con la guida Charles, un ragazzo alla prima esperienza, Amadou un navigato autista delle strade camerunensi e la giovane Maida che aiuta da cuoca. Partiamo per un lungo e faticoso viaggio che terminerà alle 21:00 della sera nel cortile di casa del Lamido di Wangay. Iniziamo lungo una strada per modo di dire asfaltata, con i soliti lavori in corso e movimenti di terra interminabili: il pranzo è particolare, su un prato, stendiamo un telo di rafia a terra e ci vengono preparati cipolle, pomodori, tonno, peperoni e giardiniera in scatola, mi sdraierei a dormire sotto agli alberi. La strada asfaltata termina alle 14:20, quando svoltiamo al bivio per Poli, da qui in avanti solo sterrato, con voragini che spesso sembrano invalicabili, ponti distrutti e vacche. Incontriamo innumerevoli villaggi, alcuni hanno dei cumuli di cotone candido come la neve, un bianco così folgorante che non c’entra nulla con il resto: il giallo arso dal sole, il bel marrone del banco delle capanne, il grigio nero cenere del suolo bruciato. I bambini sono onnipresenti, salutano sempre e alcuni già lavorano nei campi. Sosta in un mercato incontrato per caso, animato da bellissime

donne bororo con il viso scarificato, brillantini appiccicati e vesti sgargianti. Scende la notte e le ultime ore di strada le facciamo al buio: ora mentre scrivo sto facendo un pediluvio mentre aspetto la cena, in un luogo incredibile, il giardino del Lamido, ovvero il capo assoluto di tutta la sua area, Wangay e tutti i vari villaggi all’intorno, circa 6000 persone, un capo spirituale ma anche politico, un feudatario è forse il termine giusto; in quanto in Camerun i Lamidi contano e tanto, si dice che quello più importante, che sta a Rey Buba, abbia più autorità dello stesso presidente. Prima notte in tenda.

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6° GIORNO: Sveglia con il gallo che già cantava da qualche ora alle 06:15; una buona colazione sui tappeti in rafia nel cortile, mentre al nostro fianco stanno iniziando i preparativi per fare a tutta la popolazione un documento di riconoscimento: c’è un impiegato in giacca e cravatta, abito fuori dal contesto, con un computer oggetto alquanto alternativo e sconosciuto, per quasi tutti, e in fila, prende generalità e impronte digitali; naturalmente è dotato di un generatore perché non c’è corrente elettrica. Mi da fastidio, come se fosse una violazione della loro libertà, quelle genti che sempre hanno vissuto libere nella loro campagna iniziano a venir schedate. Partiamo alle 07:30 per arrivare alle 11:20 al primo villaggio Koma di montagna, siamo a Libro: qua donne e bambini indossano l’abito tradizionale fatto di un fascio di foglie verdi e grandi legate attorno alla vita. Gli uomini non ci sono, di giorno lavorano o sono a Wangay per diventare “cittadini”. Prima di arrivare a Libro incontriamo diversi villaggi Koma di pianura dove assaggio un sorso di birra di miglio, calda. Alle 13:00, dopo il pranzo leggero, saliamo su una piccola altura dove c’è il villaggio di Naingamalo, un ora di ripidissima ascesa sotto il sole cocente. Questo villaggio conosciuto pure come quello dei “tre baobab” è semideserto, c’è una donna che ci mostra come si lavora il miglio e come accende la sua pipa con i sassi, un uomo invece ha la brasseria in casa, una grossa cesta in vimini dove il miglio fermenta e scola la birra. Scendiamo da Naingamalo per l’ultimo villaggio Koma dove passeremo la notte, e dove, il “comandante” così si fa chiamare la nostra guida ci ha detto che avremmo potuto fare il bagno in un piscina, ma ci credo poco perché è un burlone e perché l’ambiente circostante è talmente secco che difficilmente farebbe pensare alla presenza d’acqua. Invece, i nostri occhi rimangono sbalorditi, una laguna dall’acqua turchese e smeraldo circondata da rocce e da tanta rigogliosa e tropicale vegetazione: ci sbrighiamo a scendere giù e a togliere i vestiti, è una rigenerazione totale e inaspettata, tutta la polvere se ne va e restiamo parecchio a nuotare e riposare in laguna. Ceniamo in anticipo, alle 18:30, il sole se ne sta appena

andando e Maida inizia a portarci le solite verdure crude, patate fritte e un ottimo pollo ruspante. Rimango sui tappeti di rafia a guardare le stelle, intanto si è alzato l’Harmattan, il vento del Sahara caldo e polveroso: durante la notte agita i teli della tenda ma è piacevole anche questo.

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7° GIORNO: i galli hanno iniziato a cantare a notte fonda, forse quando il vento si è calmato. Mentre facevamo colazione, dai villaggi sono arrivate donne e ragazze Koma con i loro bambini che ci hanno inscenato una danza tradizionale con tanto di tamburi, molto piacevole da ascoltare: non mi dilungo con la solita critica di queste manifestazioni per turisti, se sono vere oppure no, non mi interessa più, è una questione di dignità, che va sempre ricambiata anche se è sfacciatamente per turisti. Questo villaggio Koma si chiama Nanglaback, partiamo alle 08:00 e arriviamo a Wangay alle 10:00, dopo due ore di una piacevolissima passeggiata in campagna: qui ci riposiamo qualche minuto nel cortile del Lamido, che ci vuole conoscere e ci concede un udienza: scambiamo qualche parola, non so che dirgli ma gli prometto che gli invierò la foto che abbiamo fatto insieme tramite Victor. Si riparte da Wangay alle 11:00, dopo che ci hanno controllato i passaporti al posto di polizia, pranziamo in un paese vicino al campo di calcio dove i bambini che stanno giocando si danno sempre più da fare, forse perché ci siamo noi ad osservarli. Arriviamo a Poli che sono le 16:00 del pomeriggio, non proseguiamo oltre perché c’è troppa strada da fare, prima di fermarci a montare le tende ci beviamo una bella birra fresca nell’unico bar che ha il frigorifero, tenuto gelosamente dietro alle sbarre e sottochiave. Alziamo le nostre tende dietro una casa che forse è l’ente del turismo, quindi andiamo a passeggiare per Poli, compriamo acqua, birra per cena e nel frattempo osserviamo i fedeli che escono dopo la preghiera in Moschea. Maida, che ha la propria famiglia qui a Poli, ci porta del cibo tradizionale cucinato dalla mamma: del riso da condire con una salsa di legumi e la polenta di mais. Prima di mettermi in tenda mi lavo a pezzi in un secchio d’acqua: c’è un clima perfetto e mi ricorderò questa notte speciale, poiché ho dormito veramente bene, scoperchiando tutta la tenda mi ha accarezzato un leggera brezza, ero comodo sul terreno e tanti insetti facevano rumore, ogni tanto mi svegliavano ma era piacevole anche questo, abbandonare i sogni per qualche secondo e tornare nell’incantevole realtà della mia Africa.

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8° GIORNO: all’ombra di un sicomoro fotografo l’Africa che davanti a me si muove: c’è il lago e le piroghe stracariche di corpi neri che vanno e vengono, dietro di me un falegname che pialla una tavola. C’è fresco, un po’ d’aria mi sta dando sollievo dal caldo soffocante e dalla polvere del mercato di Lagdo, che è lì, a poche decine di metri da me. Non sono in Camerun, sono in qualunque posto d’Africa: tutta uguale e tutta attraente. Ancora la maggior parte delle donne resiste, ed elegantemente indossano le loro vesti tradizionali e piene di colori, gli uomini no: troppe magliette delle squadre di calcio italiane, inglesi e spagnole, tra qualche anno porteranno solo quelle. Qui al mercato di Lagdo siamo arrivati alle 11:00 dopo esser partiti alle 07:00, ci siamo fermati a far foto a dei bambini di una scuola che marciano e cantano il riscatto della gioventù camerunense per il domani, sono disciplinati come soldatini al primo mese in caserma. La bellezza del mercato di Lagdo è lo sfondo del lago e l’andirivieni delle barche dei pescatori. A pranzo ci fermiamo vicino alla diga costruita dai cinesi vent’anni fa e lontanissimi si vedono degli ippopotami. Alle 15:30 siamo a Garoua, una città piena di polvere con le tipiche architetture africane, stile moderno anni ’60, giardini, archi, finestre che potrebbero essere del palazzo di Idi Amin. In albergo una doccia porta via tutta la polvere e l’acqua nella vasca diventa quasi fango: alle 17:00 ce ne andiamo al centro artigianale per fare acquisti dove mi compro una bellissima maschera a scudo. Poi trascorriamo un ora nell’ufficio di Victor, progettiamo il prossimo viaggio, e già sogno. Una cena meravigliosa nel ristorante da Lina, filetto di pesce Capitano panato e brochette di carne con patatine fritte, vengono pure Charles, Amadou, Victor e Daud un’altra guida dello staff.

9° GIORNO: stanotte le zanzare di Garoua sono state il mio incubo, anche per colpa mia, visto che ho fatto l’incauto errore di arieggiare la stanza; e quanto ho rimpianto la notte in tenda di ieri, e quasi stavo per piantarla nel giardino dell’albergo. Partenza alle 7 da Garoua e arrivo alle 9 alle gole di Kola, vicino Guider. Una piccola sosta di mezz’ora in un piccolo canyon con un ruscello d’acqua che continua a scavarlo da millenni: il bello sta nel camminare a piedi nudi nell’acqua fresca. Giusto in tempo per il pranzo, arriviamo a Rhumsiki alle 13:30 dove ci fermiamo a dormire in dei bellissimi bungalows a bordo piscina e terrazza che guarda direttamente il Pic de Rhumsiki. E dopo il pranzo mi fermo a dormire al sole sulla sdraio, c’è un piacevole vento. La passeggiata comincia alle 16:00 e termina alle 18:30, anche se il tramonto sulla valle è imbastardito dalla foschia, anche se i colori, almeno sulle foto non fanno poi una brutta figura. Qua a Rhumsiki ho il tempo di tagliarmi finalmente la barba: il solito barbiere, i soliti poster al muro che raffigurano le

diverse acconciature, seduto su una sedia da bar sgangherata e tanti bambini a guardarmi. Prima di cena anziché fare la doccia mi guardo il primo tempo della finale di Coppa d’Africa Burkina Faso – Nigeria, quest’ultima è vicinissima, a meno di 1 km, praticamente subito dopo il Pic. Andiamo a cena in un ristorante isolato anche se buono, e quando la Nigeria trionfa per 1 a 0, iniziano un po’ di caroselli con le motociclette, sarei voluto rimanere a guardare la partita al bar con tutti gli altri africani di Rhumsiki.

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10° GIORNO: a Bokolo ci fermiamo per una sosta merenda di mezza mattinata e con l’occasione ci preparano anche panini con l’omelette da mangiare a pranzo: il paese non sembra piccolissimo e c’è un campo sportivo allestito a e strapieno di bambini e ragazzi vestiti con le divise scolastiche: è la 47° festa della gioventù, mentre le autorità locali leggono un messaggio del presidente Paul Byia, le ragazzine sono quelle più disciplinate e ben vestite che rispettano i loro ranghi di appartenenza, mentre i maschi sono sicuramente più sciolti e indipendenti. Alla colazione del mattino, grazie ad una consultazione più attenta della mia eccellente cartina geografica decidiamo di cambiare itinerario: non ci fermiamo più a dormire a Maroua, ma saliamo più verso nord per fermarci al parco nazionale di Waza, al mattino dopo, lunga tappa di trasferimento per Pouss, e quindi ultima notte a Garoua. Scrivo dalla terrazza dell’unico residence vicino all’entrata a Waza, davanti a me c’è un orizzonte sconfinato di savana come se fosse il mare, sono le 17:30 e beviamo una birra fresca; la giornata l’abbiamo trascorsa praticamente sempre in jeep, poche soste, una per il pranzo in un centro di artigianato con i morbidi panini con l’omelette, un'altra per la benzina e niente di più.

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11° GIORNO: sveglia notturna al Waza, la colazione piano piano arriva ma non arriva il mercante di collane e devo rinunciare al ciondolo che avevo iniziato a contrattare ieri sera, era una croce tuareg. Amadou porta la jeep dal gommista per gonfiare le ruote e poi ripartiamo all’alba per l’attraversamento longitudinale di tutto il parco nazionale di Waza, dove nell’ordine riusciamo a vedere: tante faraone (che tra l’altro ieri sera le abbiamo mangiate a cena), uno sciacallo e un antilope, bilancio molto misero per uno dei parchi più rinomati del Sahel. Prima di arrivare al mercato di Pouss, tentiamo di cambiare i soldi a Maga ma non ne hanno, in questo grande mercato ci perdiamo per più di un ora, sotto il sole ad una temperatura di 36° C, compro delle carote da riportare in Italia prodotte dalla terra d’Africa, una lunga stoffa che i locali usano come vestito mentre io ho pensato ad una tovaglia, anzi due. Dopo il ricco mercato andiamo a visitare le case a cupola e in banco dell’etnia Mousgoum: esse sono ormai rare e le poche rimaste non sono più abitate, conservano tuttavia un alone di mistero e di magia, non so da dove provenga, forse nelle forme o nell’abbinamento dei colori nero, arancio, bianco e marrone. Anche la casa del Lamido di Pouss è da vedere, se non altro per fotografarla, poiché è pitturata con disegni di leoni e giraffe, infantili e sommari, ma il bello forse è proprio lì. Prima di lasciare Pouss, facciamo un giro in piroga a motore sul lago Maga, mi addormento al sole, e vengo svegliato dall’avvistamento di un gruppo di ippopotami che sbadiglia quanto me. Mi son messo a scrivere sul tavolino di un bar di Maroua, quando sono le 19:00 ed è già scesa la notte, non c’è luce, tranne quella dei lampioni, ed abbiamo ancora 4 ore di strada fino a Garoua. Ci fermiamo per la cena ad un distributore Total a Lulingwe, mi siedo su un gradino con una guinnes e un buonissimo panino con l’omelette, anche se constaterò che la carne dentro un cartone, con cui cenano Charles e Amadou è più buona. Arrivo a Garoua alle 23:30.

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12° GIORNO: parole dal Tchad: spesso può essere solo un caso, un po’ come con le donne, e con esso si verificano quelle coincidenze che forse un giorno mi riporteranno in questo aeroporto e in questo paese. Infatti, l’aereo di Garoua prima di arrivare a Douala, fa due fermate, prima a N’Djamena, già Fort Lamy, e poi a Yaoundé, ecco perché sul biglietto aereo leggevo 4 ore di volo: è la mia incredibile, grossolana, calda e lenta Africa! Stavolta a Garoua mi sono svegliato bene, riposato, poche ore di sonno ma perfette. Ho salutato Victor con cui spero di collaborare presto, ho distribuito le mance e prima di andare in aeroporto, abbiamo speso gli ultimi franchi CFA nel negozio di artigianato. Riscrivo da un altro aeroporto, quello di Douala, e stavolta il viaggio è

davvero finito: qua il clima è di nuovo afoso e insopportabile, nemmeno le sigarette si fumano bene. Abbiamo preso una stanza nello stesso hotel del primo giorno, per passare qualche ora e fare un doccia prima della partenza: scendiamo a cena giù di sotto, in un ristorante sudicio ad angolo dove ci facciamo portare un ottimo pollo alla piastra con spiedini serviti su carta chimica da stampante, mentre dalla bottega a fianco una ragazza ci prepara due piatti di patatine con un uovo fritto sopra e un altro bar accanto, ci vende 7/8 birre: insomma tre locali in un uno, e risultato eccellente, una delle cene più belle che chiude un viaggio fantastico.

 

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