Congo Brazzaville

Un viaggio nel cuore dell’Africa, lo aspettavo verde e pieno d’acqua, così è stato, quasi sempre avvolto da un mantello di nubi che ha svalutato i paesaggi, il sole si sa, esalta tutto al meglio. A distanza di pochi giorni i ricordi sono vivi e affettuosi nei confronti del popolo congolese, brave persone come in tutta l’Africa, il problema in questi paesi è chi ha indosso una divisa che sente e interpreta un potere alterato e corrotto, forse da sempre. Il nostro tour turistico, tra l’altro primo gruppo di italiani in Congo Brazzaville, si è sviluppato nelle regioni del centro sud: partendo dalla capitale Brazzaville abbiamo visitato un parco nazionale il Conkouati, una riserva il Lesio-Louna, una riserva della Biosfera Dimonika, tanti i villaggi attraversati, escursioni in piroga tradizionale e barche a motore, grotte carsiche, cascate, per terminare il viaggio al mare, a Pointe-Noire, il porto commerciale sull’ Atlantico. Il viaggio è durato 12 intensi giorni, volati via, grazie ad un gruppo unito e soprattutto ad un corrispondente locale che prima dei soldi ama il proprio lavoro e il proprio paese, coadiuvato da uno staff all’altezza.
24 settembre, sabato: partenza per quasi tutti da Roma con il volo Ethiopian delle 22:40, l’unica partecipante proveniente da Milano la incontriamo direttamente sull’aereo.
25 settembre, domenica: sbarchiamo in orario a Brazzaville, 11:10, con la pioggia e l’ambasciatore d’Italia ad accoglierci, un bel gesto che poi si concretizzerà l’indomani con l’incontro del primo ministro congolese. Destinazione subito in albergo, per scaricare bagagli e prendere le stanze al “Lion Hotel” (tutte singole, una costante in Congo, anche perché i letti grandi “alla francese” sarebbero stati stretti per due). Subito dopo tutti a pranzo nel ristorante dell’hotel Saint Michel, iniziamo a conoscerci davanti ad una classica birra “Ngok” che in lingala significa coccodrillo, e un piatto di pollo al curry servito insieme a fettuccine bianche slavate. Con la pancia piena, iniziamo la visita di Brazzaville, che ricordo, è l’unica capitale africana che ha conservato il nome del suo esploratore e fondatore Pietro Savorgnan di Brazzà, un onore concesso solo al gentiluomo friulano. Infatti, a buon auspicio per il viaggio, iniziamo proprio con il mausoleo dedicato a Pietro Savorgnan di Brazzà le cui spoglie qui riposano, dal 2006, dopo varie peregrinazioni: per me personalmente, è qualcosa di molto intimo e caro, poiché l’idea di “Ospiti in Africa” nasce proprio dalle sue parole. Proseguiamo le visite, gli autisti fermano le jeep sotto alla torre più alta della capitale che ospita uffici, da lì, inizia la passeggiata per la “walk of fame” tra mezzi busti di personaggi congolesi importanti, molti poeti e scrittori, ma soprattutto Patrice Lumumba, per arrivare davanti alla “Statua della Libertà” posta nel piazzale della malandata stazione ferroviaria, che attualmente accoglie solo treni merci, che trasportano il legname verso l’oceano, a Pointe-Noire; proseguiamo quindi per la “Saint’Anne Basilic” che gentilmente aprono per noi. Questa basilica fu terminata nel 1943 su disegno dell’architetto Roger Erell, fonde elementi europei con elementi locali, le guglie affilate ricordano le punte del diamante, le piastrelle verdi la natura del Congo, gli archi interni ispirandosi alle case dell’etnia “Mousgoum” in Camerun danno un effetto a “tunnel” come la vegetazione nella foresta del Mayombe.
Poi, finalmente il fiume in Congo, andiamo alle “rapides” ovvero il punto in cui il fiume cessa di essere navigabile dopo 1800 km da Kisangani, l’imponenza e l’emozione di aver davanti questa immensa via d’acqua che per anni ho pensato e desiderato, eccolo, e nella riva di fronte, Kinshasa, l’altra capitale, dell’altro Congo: un giovane mutilato, con una sola gamba, salta tra gli scogli che affiorano, si getta come un salmone tra le rapide, fa impressione guardarlo, e poi eccolo riemergere con un sorriso grande così, ha meritato sicuramente la mancia. Dietro di noi, un negozio di artigianato vende animali incredibili, quasi a grandezza reale, un elefante interamente realizzato con tappi di bottiglie di birra. L’infinita giornata, prosegue con i “Sapeurs”, l’incontro sicuramente più divertente e bizzarro che si possa fare in Congo: il nome “sapeurs” deriva S.A.P.E. che sta per “Società di persone che ama l’eleganza”, nacque nel periodo coloniale, come risposta ai bianchi, a dire, noi siamo più eleganti di voi! Ancora oggi, ogni sera, in questa via di Brazzaville (lo fanno anche a Kinsasha) si riunisce questa società per dar sfoggio dei propri abiti super eleganti e curati in ogni particolare dal calzino al bottone, naturalmente amano essere fotografati e ridere insieme dietro ad una bottiglia di birra Ngok. Terminiamo, stravolti dal viaggio, dal Congo, dal caldo umido, con una meravigliosa cena, probabilmente nel ristorante più chic di Brazzaville, “Mami Wiki” in terrazza sul grande fiume avvolto dalla foschia della sera, uno spettacolo, peccato la stanchezza.


26 settembre, lunedì: colazione a buffet alle 07:00 in hotel, c’era una buonissima papaya, mettiamo le SIM congolesi nei nostri telefoni, ottime per navigare un po' ovunque nel Paese, tranne nelle aree più sperdute e alle 08:00 siamo tutti pronti per l’incontro istituzionale, essendo il primo gruppo di italiani in Congo Brazzaville, il primo Ministro Anatole Collinet Massoko vuole incontrarci: si farà attendere una mezz’ora, poi l’incontro molto formale, solite frasi di circostanza e foto di gruppo finale. Finalmente alle 09:30 si parte per l’avventura vera e propria, poiché lasciamo la grande città, ci allontaniamo dal caos urbano, anche se Brazzaville, rispetto alla media delle capitali africani, ha sicuramente qualcosa in più da offrire. In circa 3 ore o poco più, le nostre jeep, raggiungono la riserva Lesio-Louna Lefini, cioè il nome dei tre fiumi che l’attraversano; di questi il più grande e conosciuto è il Lefini che un tempo segnava il confine del regno Bateke, il regno di Makoko Ilo II° il grande capo amico dell’esploratore Pietro di Brazzà. Scendiamo dalle jeep, mangiamo un sandwich per pranzo con birra o bibite fresche, poi una breve camminata per prendere la barca, ce ne sono due, due lance con motore da 40 cavalli per navigare il Lefini: e sull’altra riva a guardarci il primo gorilla, ansioso del nostro arrivo perché significa cibo. A questo punto c’è da fare una doverosa premessa: nella riserva i gorilla vengono reintrodotti gradualmente nell’ambiente naturale, alcuni provengono dagli zoo, altri sono orfani, altri malati o vittime del bracconaggio, motivo per cui i ranger del parco li nutrono ogni giorno con frutta e verdura, mantenendoli confinati su grandi isole nel mezzo del fiume per evitare che scappino. Quindi i gorilla sono facilmente avvicinabili proprio perché aspettano il cibo, non c’è la classica famiglia “silver Back”, moglie e prole: tuttavia rimane comunque un incredibile emozione, soprattutto quando incontriamo i due cuccioli di 6 e 7 anni, da poco reintrodotti, che hanno cercato in tutti i modi di salire sulla barca, ci hanno schizzato e giocato davanti ai nostri occhi. Continuiamo la navigazione per alcune ore, il paesaggio è mutevole, a volte foresta, altre sabbia e montagne, incontriamo gli ippopotami grandissimi, e infine ci fermiamo sotto al monte Ipopé per scendere e sgranchire un po' le gambe. Qui, volendo si può salire su una collina, e da lassù la vista del Lefini con le sue anse è impagabile, con lo sguardo si abbraccia l’orizzonte intero.
Alle 17:00 siamo di nuovo alle macchine, direzione Camp Iboupkro, che è sempre dentro la riserva ma dalla parte opposta: attraversiamo colline di un verde intenso che la luce del tramonto esalta, poi si prosegue, sempre su sterrato, finché scende il buio e nel mezzo della strada incontriamo la nostra “jeep cucina” insabbiata dall’ora di pranzo, avrebbe dovuto andare avanti per farci trovare la cena pronta ed invece,
quei poveretti, cuoco e autista, ci hanno aspettato lì per ore, senza potersi muovere. Purtroppo arrivare di notte all’Iboupkro Camp non è il massimo, le jeep vanno lasciate al margine della foresta,bisogna proseguire a piedi su passarelle di legno che attraversano lagune e sentieri, così da avere solo un impressione di disagio. Invece non è così, perché il camp, seppur spartano trovandosi in un luogo incredibile, è molto bello: prendiamo possesso delle stanze su palafitta, tutte provviste di zanzariera ed energia elettrica, con bagno in comune all’esterno, e poi aspettiamo lentamente la cena, che arriverà, abbondante, alle 22 circa, ma si sa, in Africa l’imprevisto fa parte del quotidiano, sempre.


27 settembre, martedì: risveglio all’Iboupkro Camp, tutto sommato ho dormito bene sotto la zanzariera, e forse verso il mattino ho avuto anche freddo. Scendo giù dalla stanza palafitta, una sciacquata al viso e pronti per colazione, in Congo tendono a prepararla più tendente al “salato” quasi senza il “dolce” e per me non va bene, ma di quella mattina ricorderò solo l’arancione dell’ottima papaya. A 200 metri dal camp c’è la “nursery” dove vengono ricoverati i gorilla feriti o i piccoli rimasti orfani, sono enormi gabbie nella foresta: i piccoli orfani per fortuna non ci sono perché reintrodotti da 2 settimane nell’ambiente naturale, mentre ci sono due gorilla, uno ormai vecchio e menomato, l’altro invece estremamente aggressivo e difficile da reintrodurre, è comunque squallido vedere questi animali in gabbia. Torniamo indietro, chiudiamo i bagagli e ripercorriamo a ritroso la strada che ieri notte avevamo fatto al buio, scoprendo di aver percorso un incredibile sterrato su una cresta con un paesaggio spettacolare da ambo i lati; e in fondo ad una valle c’è il “Blue Lake”, un laghetto a forma di goccia circondato da un boschetto scuro nel mezzo di una prateria verde chiaro, scendere fin giù con le jeep è pericoloso e complicato, vederlo dall’alto è più bello. Poi si riparte verso le grotte carsiche “Nkila Ntari”: lo sterrato prosegue fino al villaggio di Moudzanga, poi prendiamo la superstrada veloce per circa 250 km, ci fermiamo in un autogrill a pranzo con i nostri panini sul retro in un giardino e ci separiamo con la parte del gruppo che preferisce visitare un villaggio nei dintorni. Le grotte di “Nkila Ntari” si raggiungono con un breve trekking in salita di 6/700 metri: di origine carsica, sono lunghe circa 1.5 km, all’interno si percorrono tranquillamente ma per scendere e poi salire non è affatto facilissimo, va fatta attenzione seguendo le indicazioni della guida locale. Naturalmente sono necessarie le torce frontali
e all’interno c’è un laghetto generato da un fiume sotterraneo dove abbiamo fatto il bagno, queste grotte negli anni sono sempre state utilizzate come rifugio e nascondiglio, da chi fuggiva dallo schiavismo ai ribelli della guerra civile, e a terra si notano ancora i segni dei giochi che facevano per ingannare il tempo.
Dopo le grotte, direzione Dolisie, circa 1 ora e mezza, la terza città del Congo, ma della città ha ben poco, poco asfalto e tante baracche, un grande mercato al coperto ed una bella stazione stile bretagna: questa città nasce come snodo ferroviario alle porte della foresta del Mayombe e prende il nome da uno dei luogotenenti di Pietro di Brazzà, Albert Dolisie. Noi ci sistemiamo al residence Bouanga, niente di particolare, se non nell’aspetto del più classico albergo africano, nuovo e allo stesso tempo fatiscente, stanze enormi o buchi, insomma una perfetta contraddizione. Qui c’è anche il ristorante, molto buono invece.


28 settembre, mercoledì: oggi non carichiamo i bagagli perché rimaniamo un’altra notte a Dolisie. Andiamo al mercato di Dolisie, quello alimentare più suggestivo con una parte dedicata alla carne di fauna selvatica, è al coperto all’interno di un enorme edificio in ocra gialla denso di profumi, odori, colori ed rumori, poi all’esterno c’è il mercato abbigliamento dove spadroneggia il “made in china” ovviamente, il sintetico e la plastica. Dopo il mercato verso l’escursione della giornata al “Blue River”, dapprima la strada è asfalto, poi un lungo polveroso sterrato, impieghiamo circa 2 ore e mezza ad arrivare, e sulla strada ci fermiamo alle “Montagne della Luna” delle suggestive collinette a forma di panettone che si possono scalare per avere una visuale sull’intorno. Il “Blue River” invece, è veramente degno del suo nome, superando le aspettative: un corso d’acqua verde smeraldo nel mezzo di una rigogliosa vegetazione, un angolo di mondo molto simile all’idea di Eden. Qua a turno, perché ne hanno poche, si può fare il giro con la piroga tradizionale scavata in un tronco d’albero e guidate dai bambini del villaggio. Mangiamo i nostri panini, parliamo un po', regaliamo vestiti alla comunità e ritorniamo a Dolisie, dove avremo il pomeriggio libero a disposizione.


29 settembre, giovedì: prima di partire per il Mayombe, visitiamo la stazione ferroviaria di Dolisie, piuttosto decrepita ma comunque emblematica dell’architettura coloniale francese: ancora in funzione la ferrovia CFCO che collega Brazzaville al mare fino a Pointe-Noire è attualmente destinata al solo trasporto merci e non più passeggeri. Alla “Gare de Dolisie” la strumentazione vetusta ed esclusivamente meccanica rimanda a 70 anni fa, quando il cambio del binario si faceva manualmente attraverso una grossa leva e il “Timetable” era scritto con i gessetti sulla lavagna. Seguiamo più o meno il percorso della ferrovia, ci fermiamo al “Tunnel del Mayombe” una galleria di 5 km (la seconda più lunga d’Africa) che separa l’altopiano dalla foresta, anche qui strumentazione di un’epoca che fu e orgoglio ingegneristico di un tempo. Pochi km, di strada sterrata, separano il tunnel dalle cascate di Sossi, sopra all’omonimo villaggio: le raggiungiamo attraverso un breve trekking di 20 minuti nella foresta e li ci fermiamo a mangiare i nostri panini del pranzo. C’è solo un rivolo d’acqua che scende dall’alto, la stagione delle piogge non è ancora arrivata. Dopo Sossi, diretti verso il Mayombe al villaggio di Dimonika, ma sulla strada ci fermiamo in luogo simbolo per tutto il Congo Brazzaville che sicuramente meriterebbe maggior tutela: il baobab dove Pietro Savorgnan di Brazzà incontrò Re Makoko Ilo II°, i due diventeranno amici veri, si rispetteranno sempre e il Congo passò sotto la protezione della Francia, scappando per un soffio dalla schiavitù e dall’olocausto che travolse, nel silenzio internazionale, il Congo Belga di re Leopoldo. Questo Baobab viene raffigurato anche sui francobolli. Alle 16:00 arriviamo a Dimonika, nel cuore della foresta primordiale del Mayombe, un sudicio villaggio di baracche nato negli anni ’30 quando il signor Vigoreux, un francese, trovò l’oro. Il villaggio crebbe, fu costruita la scuola, l’ospedale e perfino una piscina fino alla decolonizzazione, la famiglia Vigoreux tornò in Francia e Dimonika cadde nell’abbandono. Noi alloggeremo proprio all’ “Auberge Vigoreux” rimasto tale e quale agli anni ’60 quando era la villa padronale, poi un belga lo acquistò, lo rimise in sesto, trasformandolo in un eccentrico e contradditorio “Auberge”: non c’è elettricità e nemmeno acqua corrente, ma un elegante cameriere in papillon ci serve la cena su una tavola apparecchiata con tovaglie bianche, bicchieri di cristallo, vino francese a lume di candela. Non dimenticherò facilmente questo luogo, parte di un Africa dimenticata, capace di suggestionare la mia fantasia portandola indietro di anni e anni, in un mondo che non esiste più, mentre sfogliavo un vecchio album fotografico della famiglia Vigoreux. Una nota sulla notte: l’Auberge sorge su una collinetta che domina il villaggio, per tutta la notte fino all’alba, abbiamo ascoltato musica altissima, erano
gli uomini di Dimonika, il giorno si spaccano la schiena per pochi grammi d’oro, la notte bevono birra Ngok
con Fentanyl, un farmaco oppioide sintetico.


30 settembre, venerdì: risveglio all’Auberge Vigoreux nel cuore del Mayombe, umido e caldo dopo una notte fatta di tanti sonni, scendo le scale di legno, e giù, nella sala da pranzo, affacciati sul giardino c’è una meravigliosa colazione con succo di Tamarindo e Carcadè, cioccolata e marmellata finalmente, il latte e il caffè. I disagi oggettivi dell’Auberge sono compensati dall’eleganza e professionalità dei gestori. E infatti, colui che era il nostro cameriere vestito di tutt’appunto con papillon, camicia bianca e bretelle nere, si trasforma in guida per la passeggiata nella foresta, con stivali in gomma, camicia verde e machete. Ci mostra i fasti andati di quella che era “Villa Vigoreux”, il serbatoio dell’acqua, la pompa che tirava l’acqua dal fiume, la casa della servitù, la cucina, oggi soltanto ruderi. Quindi prendiamo un sentiero che scende dal lato opposto della collina verso il fiume, e qua sotto i primi cercatori d’oro, c’è un uomo aiutato dal proprio figlio, poi più avanti altri che scavano lotti di terreno differenti. La ricerca avviene grosso modo così: nel paese di Dimonika c’è un solo compratore d’oro cioè colui che paga l’oro ai cercatori, i cercatori si dividono in squadre da 3, 4, persone, prendono un lotto di terra di terra di qualche metro quadro e iniziano a scavare, la terra rossa, anzi arancione, viene smossa dalla pala e setacciata con un metal detector che suona quando incontra il prezioso metallo. Così tutto il giorno, per trovare di media 1 o 2 grammi di oro, da dividere. In tutta l’area ci sono diverse squadre di cercatori, alcuni più attrezzati con setacci fissi, nella foresta troviamo anche vecchi tunnel scavati sotto la foresta ed oggi abbandonati perché probabilmente il filone dell’oro si è esaurito. Arriviamo infine al villaggio di Dimonika, solo baracche di lamiera e fango, tanti bambini, sembra che le scuole iniziano domani, niente di particolare da fotografare se non le vecchie case in muratura dei minatori, niente di più. Pranzo all’Auberge e pomeriggio libero per tutti, ci disperdiamo quindi, ognuno per proprio conto.


1 ottobre, sabato: oggi lasciamo Dimonika con destinazione finale Pointe-Noire sull’Atlantico. Scendiamo lungo grossi curvoni che tagliano la foresta, spesso siamo frenati dai grossi camion che lentamente trasportano i tronchi d’albero al mare: poi al villaggio di Malemba, al km 117 dell’ex linea ferroviaria ci fermiamo in una piazzola e scendiamo alle porte del Mayombe, ovvero due enormi rocce attraversate nel mezzo dal fiume Loukoula. Le porte del Mayombe sono legate a leggende: i locali credevano che negli anni ’20 esse di notte si richiudevano distruggendo il lavoro del giorno, effettivamente per costruire quel tratto di ferrovia morirono circa 15.000 operai, moltissimi annegati nel fiume. Le porte un tempo erano chiamate “Portes Romano” in omaggio al pioniere francese Michael Romano. Seguendo il corso del fiume Lokoula arriviamo al villaggio “Les Saras” il cui nome è legato direttamente alla ferrovia, infatti l’amministrazione francese fece venire operai dell’etnia Sara proveniente dal Tchad. L’idea della costruzione di una ferrovia fu di Pietro Savorgnan di Brazzà , ma i lavori iniziarono ufficialmente nel 1921 e il responsabile capo di questo progetto fu Raphael Antonietti. Solo nel 1934 il primo treno collegò Brazzaville a Pointe-Noire, ma i problemi tecnici nel Mayombe non furono mai risolti, tanto che nel 1976 si costruì un troncone alternativo da Dolisie a Bilinga di 91 km con 3 tunnel di cui quello che attraversa il Mayombe di 4.6 km visto 2 giorni fa, e nel 1984 l’attuale presidente Sassou N’Guesso allora colonnello inaugurò il nuovo percorso.
Al villaggio “Les Saras” c’è un’attività buffa e divertente, il “tubing” lungo il fiume Lokoula. Ci vestiamo con tutine nere attillate, un casco in testa, scarpe da scoglio e a tracolla grosse camere d’aria da camion per galleggiare e scendere il fiume. Vestiti così attraversiamo praticamente tutto il villaggio, poi ci immergiamo nell’acqua torbida e scendiamo placidamente trasportati dalla corrente, così lentamente che spesso dobbiamo aiutarci con le braccia. Tuttavia, al di là del divertimento, è un’attività che consiglio perché si osserva la vita del villaggio lungo il fiume: i bambini che pescano e si tuffano, le mamme che lavano i panni, che altrimenti non avremmo mai visto. Terminato il giro, risaliamo e pranziamo in un ristorante piuttosto eccentrico, costruito sull’albero, un grosso albero di ficus piuttosto alto. Si sale su una ripida scala di legno, una graziosa tavola apparecchiata due divani e una carrucola che permette di trasportare il cibo, i piatti, le tovaglie, su e giù, anche il cibo buono e soprattutto scenograficamente curato. Dopo pranzo hanno perfino la macchinetta per farci il caffè, peccato che non hanno lo zucchero! Ora diretti a Pointe-Noire, va tutto bene fin quando non entriamo in città, un traffico incredibile, bloccati in un fiume di auto nel mezzo di un mercato. Prima di raggiungere l’hotel sul mare, ci fermiamo forse all’unico mercatino di souvenir locale, vendono
maschere, dipinti, animali in legno, qualcosa di particolare c’era ma niente di che. Poi hotel e cena, ne approfittiamo per lasciare bagagli superflui e lavare vestiti, perché in questo stesso hotel ci torneremo l’ultimo giorno.

2 ottobre, domenica: oggi direzione nord, verso il Conkouati-Douli National Park dove trascorreremo 3 giorni, il parco seppur dista circa 150 chilometri, richiede un percorso molto impegnativo affrontabile solo con fuoristrada 4x4, sperando che non piova troppo. L’asfalto arriva fino al ponte sul fiume Kouilou di recente costruzione, noi ci siamo fermati al centro per fare foto al paesaggio in quanto c’è la foce ad estuario che si getta in mare e tanta vita africana intorno. La “Route Nationale 5” procede poi sterrata, talvolta voragini di almeno qualche metro spaccano la strada, oppure insabbiamenti, insomma è un viaggio piuttosto lento che raggiunge il suo apice colorito e particolare nel traghettamento sul fiume Noumbi. Infatti ad un certo punto la strada si interrompe, e, una chiatta di ferro completamente arrugginita fa la spola da una riva all’altra, pendendo ora a destra e ora a sinistra mentre un ippopotamo sbuffa acqua tra i giunchi. Traghettiamo due jeep alla volta, e nell’attesa mangiamo i nostri panini per il pranzo sotto la pioviggine. Sull’altra sponda siamo ufficialmente nel Conkouati-Douli NP: il parco fu istituito ufficialmente nel 1999, copre un’area di 300.000 ha, gran parte sulla costa fino al confine con il Gabon; nel parco ci sono tre fiumi Ngongo, Niambi e Noumbi, 2 laghi Tchibenda e Tchivok, e una vasta laguna attualmente separata dal mare. Ospita una grande varietà di ambienti naturali: dalla savana alla foresta, alle mangrovie, la palude, la collina e la spiaggia, è abitato da circa 3000 persone di etnia Vili e Loumbouli e i loro villaggi si trovano vicino alla laguna. Gli animali presenti sono scimpanzé, gorilla, mandrilli, leopardi, elefanti, maiali selvatici, coccodrilli e tartarughe marine ma visibili solo gli scimpanzé e gli elefanti. Infatti nella laguna, tre isole sono state destinate a santuario per gli scimpanzé, sono individui provenienti spesso da una precedente vita in cattività, oppure vittime del bracconaggio che vanno inseriti nell’ambiente naturale in maniera molto graduale, purtroppo solo 1 su 3 riesce successivamente ad avere un futuro. Le spiagge del Conkouati sono sede della deposizione delle uova di tartaruga, nella laguna invece, dove si mischia acqua dolce con acqua salata, i pescatori hanno molto pesce a disposizione: Pargogallo, Tarpone, Ombrine, Carpe, Barracuda e pesce chitarra.
Tornando alla cronaca della nostra giornata, dopo il traghettamento sull’altra sponda, altri 30 minuti di sterrato, finché in cima ad una collina verde di erba fresca illuminata dal sole arriviamo al nostro lodge, diciamo che chiamarlo così è un complimento perché non sono altro che baracche di tavole di legno divise tra loro, estremamente spartane ma in uno scenario paesaggistico meraviglioso a 360° gradi, a ovest si vede
anche l’oceano. Sono le 4 del pomeriggio, scarichiamo i bagagli, ci distribuiamo nelle stanze e partiamo per il safari, che poi scopriremo sarà il più fruttuoso poiché vediamo un elefante di foresta che gentilmente per noi è uscito dalla radura. Vedere gli animali in un contesto simile è estremamente difficile: innanzitutto c’è la completa impreparazione delle guide del parco, le strade praticamente non ci sono e si procede nella savana che a macchia di leopardo è disseminata di boschetti, ne consegue che qualsiasi animale appena sente il rumore di 4 jeep in arrivo si rifugia tra gli alberi giustamente. I locali dicono che i gorilla riescono a vedersi solo in giugno, quando si matura una papaya selvatica che cresce a cespuglio ed escono a mangiarla mentre per i mandrilli è praticamente impossibile. Al tramonto, prima di rientrare al lodge, ci fermiamo per un aperitivo, i colori dell’erba diventano sempre più vivi e spiccano dei termitai a forma di fungo alti poco meno di mezzo metro, una forma incredibilmente bizzarra e identica, sembra di stare nel regno dei “puffi”.


3 ottobre, lunedì: oggi le nostre attività sono interamente gestite dall’ONG “Help Congo” che ha la sua sede a circa 20 minuti dal nostro lodge: è gestita da Nina un esuberante ragazza francese e altri 3 volontari, uno di questi, Leò, ci accompagna. Sotto una leggera pioviggine che ogni tanto viene interrotta da raggi di sole equatoriali che squarciano le nubi e fanno brillare i colori della laguna, ci imbarchiamo su due lance a motore togliendoci le scarpe perché il molo in legno è completamente ricoperto dall’acqua e dobbiamo camminare per raggiungerle. La navigazione è lungo i fiumi Ngoungo e Luvenzi che unendosi formano il lago Tchimba: spesso i corsi d’acqua si restringono e ci sembra tagliare l’intensa galleria vegetativa che attraversiamo, poi si allarga e si restringe ancora, arriviamo fino ad un avamposto dell’ONG con posti letto e cucina, dove vengono liberati gli scimpanzé nel momento in cui finisce il periodo riabilitativo in cattività. Molti di questi tornano spesso, altri se ne vanno, altri muoiono purtroppo perché incapaci di procacciarsi il cibo; sulle rive limacciose dei fiumi spesso si notano impronte di elefanti, ma vederli è molto difficile e noi non siamo fortunati. Finita l’escursione torniamo al lodge dove il cuoco ci ha preparato un ottimo pranzo, per poi tornare da “Help Congo” alle 14:30, stavolta riprendiamo le stesse lance ma a bordo carichiamo tanta frutta e verdura, sono il cibo “le nurissage” per gli scimpanzé. Come già scritto precedentemente questi scimpanzé hanno tutti un passato burrascoso, o in cattività o vittime; “Help Congo”
ha destinato loro 3 isole diverse dove possono vivere in sicurezza ma vengono alimentati giornalmente dai volontari. Sulla prima isola ce ne sono 3 che ci aspettavano eccitati, ma lo spettacolo lo vediamo nella seconda isola dove ci sono due famiglie con i piccoli e infine la terza isola dove c’è un povero scimpanzé infermo con una sola gamba. Vederli è emozionante, arriviamo fino a 2/3 metri da loro, e nei loro occhi e nelle loro espressioni c’è tantissimo di noi, è quasi imbarazzante rispondere ai loro gesti che pretendono la frutta. Al ritorno al lodge dalla laguna, tentiamo un altro safari nella brousse prima del tramonto, niente.


4 ottobre, martedì: nel Conkouati, come in altri parchi costieri, c’è la possibilità di avvistare gli animali, soprattutto gli elefanti che si lavano con l’acqua del mare, quindi decidiamo di fare un tentativo verso la spiaggia alla primissima alba, senza nemmeno fare colazione. Partiamo dal nostro lodge con il buio, ma la completa impreparazione della guida del parco ci farà perdere una mezzora, prima di prendere il sentiero verso la spiaggia: un infinito bagnasciuga a perdita d’occhio, dritto, sabbia bianca ma piuttosto sporca dall’immondizia proveniente dal mare, e onde del mare, degli elefanti vediamo soltanto le tracce, alcuni rami spezzati ed escrementi. Mi rendo conto che un’osservazione seria dei pachidermi sul mare ha bisogno sicuramente di ore di appostamenti nel posto giusto, andare così è solo questione di fortuna e non l’abbiamo avuta. Torniamo al lodge in 20 minuti e facciamo finalmente colazione, poi si chiudono i bagagli e si torna indietro, dopo l’acquazzone notturno la strada del ritorno sarà peggio dell’andata; il primo stop forzato lo abbiamo al guado del fiume Noumbi, la chiatta è praticamente sommersa dall’acqua e prima di riprendere a fare la spola tra le due rive va svuotata, ci pensano due ragazzi con delle pompe a gasolio e all’incirca in un’ora iniziamo il traghettamento. Una volta sull’altra sponda, una delle nostre 5 jeep, peggiora i problemi che dava già da qualche giorno e Celestine il suo autista è costretto a fermarsi insieme a lei e aspettare un fantomatico meccanico che arriverà. Noi ci stringiamo, utilizzando anche i posti della “jeep cucina” e riprendiamo la strada verso Pointe-Noire: sarà una traversata lunghissima, e arriveremo al meraviglioso lodge sul mare, il “Malonda lodge” verso le 16:00 del pomeriggio. Il “Malonda” fornito di piscina, un ottimo ristorante, campi da tennis, è una struttura composta da tanti lodge matrimoniali bellissimi e
arredati in stile afro che guardano direttamente sull’oceano sotto un giardino di palme: tuttavia è completamente vuoto e il brutto di questo luogo è proprio il mare. Una spiaggia infinita come quella al Conkouati, onde enormi e pericolose che si infrangono, ma soprattutto molto sporca, piena di plastica. Ci disperdiamo, ognuno nel proprio bungalow, ognuno dopo giornate “wild” ha bisogno di lavarsi, di sistemare le cose, ma, ha bisogno anche di farsi un tuffo in mare e sentire il sale dell’Atlantico. Appuntamento per la cena alle 20:00 sotto il patio del ristorante: il pesce è cucinato in svariati modi e c’è l’aragosta per tutti.


5 ottobre, mercoledì: oggi completa giornata di relax al “Malonda Lodge”, ognuno per proprio conto ci rivediamo al ristorante per il pranzo e la cena. Ho camminato per km lungo la spiaggia, rincoglionito dal rumore delle onde che più di una volta hanno tentato di buttarmi a terra e risucchiarmi e tanta, tantissima plastica di tutte le dimensioni, ovunque.
6 ottobre, giovedì: oggi ultimo giorno “intero” nella Repubblica del Congo dedicato ai musei che non sono niente male, considerando il paese in cui ci troviamo. Quindi, dopo l’ottima colazione al “Malonda Lodge” lasciamo il mare per Pointe-Noire, il nome inizialmente dato dai portoghesi era “Pedra Negra” per uno scoglio nero sul mare, poi i francesi lo hanno ripreso. Ci rechiamo al museo etnografico installato nel “Cercle Africain” ovvero l’ex circolo dei neri che non potevano avere accesso al circolo dei bianchi, erano prevalentemente operai della ferrovia CFCO: all’interno è esposta una collezione di maschere, feticci, libri e fotografie della ferrovia donate da un dirigente dell’ENI, infatti l’ENI Congo è lo sponsor di questo museo; nei corridoi esterni invece c’è una collezione fotografica dei tempi della rivoluzione e una mostra di dipinti congolesi, nel complesso un luogo ordinato, elegante e piacevole da visitare. Dopo il museo andiamo a vedere la fatiscente ma meravigliosa stazione dei treni di Pointe-Noire, un edificio che restaurato per bellezza potrebbe essere il simbolo della città, invece cade a pezzi. L’edificio fu realizzato sullo schema architettonico della stazione di Trouville-Deauville in Normandia, infatti i tetti sono spioventi come se dovessero far cadere la neve, invece ci troviamo sul mare e sull’equatore, probabilmente è proprio il bizzarro inserito in questo contesto che mi piace. Tra visite varie è arrivata l’ora di pranzo, Kiki ci porta in un bel locale del centro, ma i menù in Congo hanno sicuramente poca fantasia, ma nel complesso sono tutti buoni. Dopo pranzo invece, a 25 km dalla città, andiamo al museo “Ma Loango” a Diosso: l’origine del nome è strettamente legato al regno di Loango. Il primo palazzo reale costruito era in legno nel XVII sec, e secondo la tradizione quando un Re
moriva la sua casa non poteva più essere abitata. Nel 1952 l’amministrazione francese fece costruire una casa su un unico livello di 220 metri quadri per Moe Poaty III che qui visse fino al 1975. Questa casa rimase disabitata per 6 anni e nel 1982 fu istituito il museo che da allora è diventata un’istituzione pubblica a preservare la storia del Congo, un vanto per tutto il paese. Interessante lo smoking che indossava il Re, un “tam tam” ovvero il telefono della foresta che arrivava fino a 20 km di distanza, statue in legno propiziatorie per la fertilità e soprattutto una guida appassionata e simpatica, anche un po' petulante, che ci ha accompagnato durante la visita. A 1 km dal museo, ci sono le gole di Diosso, con esse salutiamo il Congo che ci ricambia con questo splendido paesaggio: un anfiteatro naturale di rocce rosse appuntite alte fino a 50 metri, sotto la foresta e laggiù l’oceano. Torniamo in hotel, ci prepariamo per la cena: un bellissimo ristorante, un ottimo cibo, luci e lounge bar e i gestori che parlano italiano meglio di me.


7 ottobre, venerdì: è il giorno della partenza e come tutte le partenza porta con se ansia e tristezza. Per uscire, non per entrare, in Congo Brazzaville richiedono un tampone PCR negativo e se non lo presenti sei automaticamente positivo, in realtà nessuno di noi ha fatto il tampone abbiamo solo pagato più di 50 euro per avere questo foglio di via. L’aeroporto di Pointe-Noire è intitolato ad Agostinho Neto leader rivoluzionario angolano reminiscenze di quando il Congo Brazzaville era schierato con i Paesi del patto di Varsavia. E’ un aeroporto con pochi voli ma mille controlli, qualcosa di estenuante e sfacciatamente corrotto, ad ogni passaggio la polizia o militari chiedono soldi altrimenti vanno a fondo nelle perquisizioni e magari capita che per un accendino ti creano problemi. In 2 settimane in Congo nessuno mi ha mai chiesto soldi, ho incontrato un popolo di una dignità straordinaria, lo schifo come sempre è nelle istituzioni. Prendiamo regolarmente il volo Ethiopian con scalo ad Addis Abeba e il giorno dopo siamo tutti regolarmente in Italia.


Un grazie al mio gruppo e a tutto lo staff di Kiki che ci ha accompagnato con dedizione e passione per il Congo!