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Nigeria nord e sud

La Nigeria, finalmente ho visitato il gigante dell’Africa, non è stato facile pianificare il viaggio, non è stato facile affrontare il viaggio perché l’imprevisto in questo Paese è sempre pronto a sconvolgere i piani; tuttavia, oggi che posso tirare le somme dico di essere stato fortunato e di aver incontrato una guida speciale, veramente brava che costantemente ha risolto gli innumerevoli problemi che si presentavano. In Nigeria, senza una guida, un qualcuno che ti accompagna, non entri nemmeno in un ristorante: ovunque è necessario oleare i meccanismi contorti della burocrazia, ovunque c’è qualcuno che gestisce la situazione e va pagato. In Nigeria si contano oltre trecento gruppi etnici: i tre maggiori sono gli Haussa, principalmente musulmani nel nord; gli Igbo, per lo più cristiani, che abitano il sud/est; e gli Yoruba, che vivono nel sud/ovest e si dividono tra musulmani e cristiani. Questo rende la Nigeria il solo posto al mondo in cui la popolazione è equamente divisa tra cattolici e musulmani. E il fatto che i musulmani siano soprattutto nel nord e i cristiani al sud, aggiunge una polarizzazione geografica alle controversie religiose. Quindi affrontare nello stesso viaggio sia il nord che il sud, o meglio, avere un assaggio di entrambi, mi ha reso evidente, netta, completa, questa polarizzazione. Probabilmente disegnerei lo stesso itinerario, aggiungendo solo un giorno in più al nord e uno in meno al sud: perché il nord culturalmente ha qualcosa in più, persistono ancora le tradizioni, il sud invece è più caos, più traffico, una baraccopoli dai confini indefiniti. Tra qualche anno la Nigeria diventerà il terzo Paese più popoloso al mondo, dopo Cina ed India, è il colosso d’Africa dai piedi di argilla.

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28 novembre martedì: è solo il giorno della partenza, sia da Roma che da Milano, ci affidiamo all’ Ethiopian Airlines con il comodo volo serale per Addis Abeba.

  1. novembre, mercoledì: ad Addis Abeba ci congiungiamo e proseguiamo tutti insieme per Kano, l’aereo atterra alle 12:15 in perfetto orario, ma usciremo dall’aeroporto solo alle 14:30: noi unici non-nigeriani insieme a due coreani dobbiamo prendere il VISA di cui abbiamo solo l’autorizzazione on-line al prezzo di 400 euro: e in queste due ore abbondanti subiamo tutta l’arroganza, la supponenza della polizia di frontiera che è uguale in tutto il mondo, il potere esercitato dalla divisa genera i mostri, ovunque. Alle 15:10 siamo al “Tahir Palace” di Kano, un albergo enorme, moderno, ha stanze enormi ma, almeno la mia, piena di zanzare. Alle 15:30 si parte. La prima fermata è al palazzo dell’Emiro di Kano, lui non riceve mai i turisti, tuttavia abbiamo la fortuna di incontrarlo mentre esce dal suo palazzo: i dignitari allargano i “bobou” per coprire la sua persona, entra dentro ad un’auto storica celeste con il suo tipico turbante con le orecchie, e via, seguito da un bus di dignitari che suonano le lunghe trombe. Questo Palazzo in tipico stile sudanese, fu costruito nel XV sec, dall’Emiro Rumfa, al suo interno tra segretari, notabili, dignitari, donne e bambini vivono circa 700 persone, un’enorme famiglia. Oggi l’Emiro continua ad avere una forte influenza a livello locale, a Kano e provincia, che non dimentichiamo, è una città di 4 milioni di abitanti, è lui ancora oggi ad avere le maggiori responsabilità nei confronti dei propri sudditi. È un tipo di società feudale, che frammista alla modernità, continua e permane in tutta la Nigeria, in ogni città della Nigeria, cambiano i nomi e la vocazione religiosa, ma il potere è lo stesso; lo Stato centrale non arriva, preferisce delegare agli Emiri o agli Oba (i re Yoruba). Nel frattempo ci comunicano che stanno allestendo un “Durbar” abbiamo giusto il tempo per visitare il museo della cultura Haussa, il “Gidan Makama Museum” ricavato nell’antico palazzo del sultano è composto da 11 gallerie che ripercorrono tutta la storia dell’emirato, è interessante, ma noi andiamo di fretta e in più non c’è elettricità quindi le stanze sono buie. Il “Durbar” originale, il più grandioso, viene organizzato come festa per la fine del Ramadan, oppure per celebrare un matrimonio, un evento importante; per noi è stato messo in scena un piccolo Durbar, 8 cavalieri vestiti benissimo con i cavalli tutti bardati, hanno fatto la parata, la corsa, poi mentre la nostra cerimonia stava finendo, un altro Durbar sulla strada che stava celebrando un matrimonio e corriamo a fotografare. Finalmente è notte, scrivo finalmente perché la giornata è lunghissima, mangiamo in una catena di fast food, la “Chicken Republic” che al nord è una salvezza per lo stomaco, e poi a dormire e uccidere zanzare, una notte tormentata.

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    30 novembre, giovedì: iniziamo la visita della città di Kano con il “Kurmi Market”, la luce del mattino che illumina gli stretti vicoli e le prime botteghe che aprono le serrande, passiamo dai venditori di pietre di potassio, poi tessuti e cuoio ed infine le spezie. È un mercato antichissimo, del 1500, che accentrava tutte le carovane transahariane: è diviso in sezioni per le diverse merci, nel 1902 fu completamente demolito e poi ricostruito e riaperto nel 1909 con 755 negozi, solo il mercato degli animali fu trasferito altrove, fuori città. Dopo andiamo al “Kofar Mata Dye Pits” attivo dal 1498 è l’emblema di Kano, la sua vocazione storica: qui vengono tinti diversi tessuti, principalmente il cotone poi la rafia e la seta, con il metodo tradizionale. Il processo prevede l’uso di potassio, di cenere e dei rametti di indaco che danno il colore, questi ingredienti mescolati all’acqua creano una soluzione blu dove i tessuti vengono immersi, l’intensità del blu è data dal tempo di immersione, mentre il disegno sui tessuti dai nodi che le donne fanno prima di immergere. Kano è una storica città, facente parte dei 7 regni Haussa, fondata nel 900 d.C. e soprannominata “capo dell’Indaco” poiché nelle pianure circostanti veniva coltivato il cotone poi tinto e commercializzato.

Oggi Kano è una città di circa 4 milioni di persone, e le vecchie mura costruite nel 1095 e definitivamente completate nel 1500 con 15 “gate” oggi si confondono con le case, con le strade, rimangono solo simulacri in banco che raccontano una storia ormai quasi dimenticata: noi ne vediamo alcuni pezzi qua e là, finché non veniamo aggrediti da un ragazzo facinoroso, e ce ne scappiamo via. Il primo nucleo abitativo della città di Kano è “Dala Hills” una collina di 543 metri, che raggiungiamo attraverso 101 gradini e dove si vede tutta la città a 360°. Nel 700 d.C. una comunità viveva su questa collina e lavorava il ferro, in effetti la collina è arancione ricca di ossidi di Fe. La leggenda narra che il gigante Barbushe che si caricava gli elefanti sulla schiena, costruì a Dala un santuario per la venerazione di Tsumburbura una divinità pre-islamica del popolo Haussa. Successivamente anche l’Islam ritenne sacra questa collina, e ancora nel 1819, l’Emiro si recava quassù in preghiera. Andiamo a pranzo in un tipico ristorante Haussa dove mi servono la cotica di vacca in brodo, abbastanza immangiabile; la cucina nigeriana è piuttosto povera ma soprattutto estremamente speziata e piccante, che per noi diventa difficile mangiare. Nel pomeriggio c’è l’incontro di “Dambe” la lotta tradizionale Haussa in un ring tra i palazzi fatiscenti, ma proprio fuori in uno spazio di cemento stanno disputando un incontro di calcio tra poliomielitici, sono tutti ragazzi oltre i 20 anni, hanno le gambe legate su uno skateboard e si muovono velocemente giocando il pallone con le mani, ma perché tanti ragazzi così ridotti nonostante ci sia un vaccino dal 1955? La risposta è nel “contenzioso di Kano” del 1996, quando la Pfizer testò un vaccino contro la meningite su 250 bambini, 5 morirono e 245 rimasero con danni permanenti; la popolazione si impaurì, in moltissimi iniziarono a rifiutare i vaccini con queste drammatiche conseguenze. Il Dambe invece è il pugilato Haussa e nasce nella casta dei macellai, è uno sport di strada, ogni match dura tre round senza limiti di tempo finché uno dei due si appoggia a terra; tipico del Dambe è il pugno fasciato che assomiglia moltissimo ai combattenti egizi o ellenici, probabilmente gli Haussa vivevano molto più a nord/est. Guardiamo diversi incontri, alcuni molto belli e violenti, con sottofondo una musica incessante, nel complesso mi è piaciuto moltissimo. Cena in hotel e poi a letto.

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1 dicembre, venerdì: la giornata più di impatto del viaggio, perché vedere gli “Hyena Men”, il bambino, i serpenti, i tagli finti, la folla, è stato forte. Gli “Hyena Men” sono una sorta di circo itinerante, di saltimbanchi, che uniscono la magia voodoo agli animali pericolosi come la iena, il serpente, il babbuino. Mettono braccia e testa nelle fauci degli animali con l’obbiettivo di convincere il pubblico che hanno poteri soprannaturali e tutti possono averli acquistando le loro pozioni magiche. E’ un lavoro che si tramanda da padre in figlio, tutti fumano erba e vivono in simbiosi costante con l’animale. Da Kano raggiungiamo il villaggio di Gabasawa a circa un’ora, qua c’è uno “Hyena Man” già vestito ad attenderci, inizia a mostrare i suoi poteri con la sua iena legata e con museruola e i serpenti, come assistente ha un bambino di circa 6/7 anni, ha un coltello con il quale simula di tagliare gola, lingua ma niente, non esce una goccia di sangue. Ma lo spettacolo vero deve ancora venire: la iena viene caricata su una sgangherata golf blu, noi la seguiamo con il pulmino e raggiungiamo un mercato in un villaggio vicino, e qua si accumula una folla notevole di gente, soprattutto bambini, tutti pronti allo spettacolo. Per la Iena non si hanno riguardi, l’animale ha una catena al collo che lacera la pelle, lo “Hyena Man” ci lotta, la sbatte a terra, cade anche lui; poi si passa al bambino, il suo assistente, gli infila un grosso serpente nei pantaloni, prova a tagliargli la gola con un coltello, con la lametta la lingua, poi lo stomaco, ma niente, per fortuna non esce sangue. Lo spettacolo dura all’incirca mezz’ora, un fiume di gente è sopraggiunta, facciamo fatica a muoverci tra la folla. Torniamo a Kano, pranziamo ad un centro commerciale in un KFC, e vi assicuro che in Nigeria è una salvezza perché spesso non c’è altro, prendiamo i bagagli e il nuovo bus nuovissimo che ci porterà a Zaria, poco dopo la partenza nel traffico, dei ragazzi tentano di staccare la targa per poi chiedere il riscatto e per fortuna svitano un solo bullone. Arriviamo in hotel a Zaria alle 17:00, ci riposiamo un po' e usciamo per la cena alle 19:00, la ricorderò perché mi mangio un enorme pesce gatto cotto in cartoccio sulla brace, buono ma quanto era piccante!

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2 dicembre, sabato: risveglio al Fabs Hotel di Zaria, fare colazione qua per me è impossibile: tutto piccante, tutto pesante ma sono a Zaria la città del palazzo colorato dell’Emiro di Zazzau e questo mi basta, è un luogo aspettato, voluto e finalmente raggiunto. Zaria è il nome della città, ma l’Emiro è di Zazzau, perché Zazzau comprende anche i villaggi circostanti. E finalmente posso fotografarmi sotto al palazzo; entriamo, ci fa da guida un dignitario, tutto è colorato a prevalenza di verde, si avvicinano poi altri dignitari per farsi fotografare nei loro bou bou, purtroppo l’Emiro non c’è, è a Port Harcourt e dobbiamo accontentarci, rinunciando all’udienza privata. Poi giriamo per Zaria, ci sono alcune decrepite porte di ingresso, c’è il mercato non bellissimo tranne il “reparto carne” dove ci sono più mosche che carne. Alla periferia di Zaria, nascosto tra le capanne in banco, c’è il vecchio palazzo dell’Emiro che fu abbandonato nel 1910, tutto intorno è estremamente povero, ma sono ancora rimasti e sicuramente restaurati i simboli del popolo Haussa sulle facciate del palazzo, anch’essi coloratissimi. Prima di lasciare Zaria, mangiamo alla catena “Chicken Republic” e poi di nuovo verso Kano, attraversiamo la città e il suo traffico, e andiamo a Gabasawa, più o meno il luogo dove ieri abbiamo assistito allo spettacolo degli “Hyena Man”, per vedere lo “Sharo” la cerimonia di fustigazione che segna il passaggio degli adolescenti all’età adulta. Per assistervi abbiamo pagato un extra di circa 40 euro, da casa la guida quando lo interpellavo sullo “sharo” mi ha sempre risposto che era estremamente difficile vederlo. Quindi ho tutti gli elementi per affermare che lo “sharo” a cui abbiamo assistito era messo in scena per noi: tamburi nella brousse che davano il ritmo, la folla da contorno e alcuni ragazzi che si fustigavano a vicenda sulla pancia con dei bastoni a ritmo del tam-tam, tutto vero nell’aspetto esteriore, i ragazzi avevano realmente segni evidenti, una cerimonia che nel complesso mi è sembrata piuttosto improvvisata, ma in viaggio bisogna sempre provarci, tentare e spesso si scoprono aspetti culturali incredibili, non era questo il caso. Lasciamo Gabasawa al tramonto, siamo in Hotel che è notte e mangiamo lì.

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3 dicembre, domenica: oggi è il giorno della partenza, lasciamo il nord per il sud, un volo domestico ci porterà da Kano a Lagos nel primo pomeriggio quindi utilizziamo la mattina per visitare il mercato della carne di Kano; sicuramente ho scattato foto molto particolari, è lo spettacolo del sangue e dei pezzi di animale, e dell’odore nauseabondo, è come entrare all’inferno, ci vuole stomaco e francamente a me, ad un certo punto ha iniziato a darmi fastidio. Terminiamo la visita di Kano con le “tannery” dove vengono conciate le pelli di coccodrillo, serpente, capra e mucca: anche qui un altro drammatico spettacolo per gli animali, il colore predominante il rosso/bordeaux, le pelli stese a seccarsi, c’è meno cattivo odore perché il luogo è più aperto. Quindi direzione aeroporto, ci salutiamo con Nasit la nostra guida per il nord ed entriamo in aeroporto, fortunatamente i controlli non sono così asfissianti come agli internazionali e una volta dentro ci prendiamo qualcosa per il pranzo in attesa del volo “Max Air”. Il volo arriva puntuale, ma poco prima di salire a bordo, uno steward, mi comunica che l’aereo si sarebbe fermato ad Abuja, noi saremmo dovuti scendere, aspettare e poi riprendere lo stesso aereo per Lagos. In effetti è andata proprio così, sembrerebbe che l’aereo serviva ad un politico locale per recarsi a Sokoto, quindi ad Abuja siamo scesi e poi risaliti qualche ora dopo, nel frattempo abbiamo trascorso il tempo in una “vip lounge” con birra fresca ed aria condizionata. Il risultato però, è stato un ritardo all’arrivo di 4/5 ore, quindi non abbiamo potuto raggiungere Abekouta e abbiamo dormito in un hotel vicino l’aeroporto di Lagos.

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4 dicembre, lunedì: il sud è completamente diverso, innanzitutto il clima, al nord il caldo era secco e sopportabile, al sud è umido, il Sahel è lontano. Il nord è Haussa e musulmano, il sud Yoruba e cristiano; il nord è meno smaliziato verso i bianchi, è meno abituato, è più ospitale, il sud invece è sovraffollato, difficile vedere spazi di verde, c’è traffico, un’enorme bidonville. Nel nord permangono ancora tradizioni feudali, al sud invece tutto ruota attorno alla religione Yoruba poco spirituale e molto più vicina ad una televendita che ad una religione. Senza il nord il nostro viaggio sarebbe stato monco, incompleto: così invece ha rimarcato ancor di più un contrasto tra due mondi all’opposto nella stessa nazione.

Arriviamo ad Abekouta alle 11:00, dopo all’incirca 3 ore. Prima sosta ad “Olumo Rock” il simbolo del popolo Egba (un sottogruppo Yoruba) che abita ad Abekouta, il cui nome significa appunto “sotto alla roccia”: infatti durante le invasioni sia dell’impero Oyo che del potente regno del Dahomey provenienti da est, il popolo Egba si difese sotto questa roccia, negli anfratti e nei ripari, ancora oggi tra queste enormi rocce vive una piccola comunità che sono i discendenti dei guerrieri del 1850. Per salire fino in cima ad Olumo Rock, ci sono due tratti che si possono fare con l’ascensore mentre l’ultimo si sale a piedi e con la vista si domina tutta la città. Poi sotto alla tangenziale di Abekouta è nato un mercato di baracche, e tra queste c’è il settore del “Fetish Market” una galleria stretta dell’orrore, gestito da sole donne offre qualsiasi feticcio una mente perversa può immaginare: dalla mano di un gorilla al teschio di scimpanzé, al pangolino e alle teste dei gatti, i camaleonti essiccati, gli spiedini di topo, i pipistrelli, i serpenti, i canarini, tutto mummificato e a volte anche male. E tra tutti questi orrori le donne urlano, schiamazzano, ridono, ti chiamano, non ti lasciano passare, ballano, vogliono selfie, è una vera e propria esplosione di vita. Pranziamo al compound del ristorante dove avremmo dovuto dormire ieri sera, il posto è molto bello, pulito ed ordinato, peccato che per mangiare un pollo alla brace ci fanno aspettare due ore. Ci alziamo dal tavolo alle 15:30 e andiamo a visitare il palazzo dell’Alake, cioè il capo supremo del popolo Egba: il palazzo di costruzione recente è in stile classico, tutto bianco ed imponente, c’è la sala dei dignitari, le statuette che rappresentano gli Alake precedenti, la sala della giustizia e il museo abiti ed oggetti ed una carrellata di foto dei personaggi famosi tra gli Egba, tra cui spicca naturalmente Fela Kuti, e che conosco l’ex giocatore del Chelsea John Fashanu. Prima di lasciare Abekouta, visitiamo la moschea rossa, che in realtà nasce come chiesa ed è uno splendido esempio di architettura afro- brasiliana. Abekouta è sicuramente la città più moderna e più avanzata della Nigeria e c’è una spiegazione: i primi anni del colonialismo britannico, i re locali di Lagos e Badagry non accettavano i coloni inglesi, così questi si trasferirono ad Abekouta, vi costruirono strade, portarono la ferrovia, facendo di questo piccolo villaggio un esempio di progresso. Partiamo per Osogbo verso le 17:00 ma nonostante siano 130 km, arriviamo dopo 4 ore, le strade sono pessime e il traffico infernale, soprattutto per attraversare Ibadan, una megalopoli di quasi 10 milioni di persone. Ceniamo velocemente in un fast food locale, e poi in albergo alla “Nike Guest House”, le stanze senz’acqua, piene di zanzare, così con tanta pazienza cambiamo albergo e ci trasferiamo all’ “Awesome Htl” che almeno è dignitoso, alle 23:30 sono finalmente nel letto.

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5 dicembre, martedì: colazione rimediata, in hotel non erano pronti ad accoglierci, fuori compriamo caffè e biscotti, una tavola di plastica e sedie, acqua calda e si riesce sempre a trovare una soluzione. La prima visita è al bosco sacro di Osogbo dichiarato monumento nazionale nel 1965 e protetto dall’UNESCO dal 2005. Questo bosco è una delle ultime aree di foresta primaria nel sud della Nigeria. Il villaggio di Osogbo nasce intorno al 1600 sul fiume Osun, ed Osun è la dea dell’armonia, dell’attrazione e soprattutto dell’acqua. Nella santeria cubana diventa dea dell’amore e della maternità tanto che viene sincretizzata con la Madonna, oppure come la Venere africana. Questo piccolo Eden verdeggiante è consacrato ad Osun quindi, e la sua funzione è quella del “ponte” tra umano e divino, tra passato e presente, e disseminato di opere artistiche del “pantheon” Yoruba, Osun ad esempio è rappresentata come una sirena a sottolineare il legame con l’acqua. Tutte le sculture che si trovano oggi nel bosco sacro sono opera di Susan Wenger o dei suoi allievi; Susan Wenger artista, pittrice, scultrice austriaca si trasferì con il marito ad Ibadan nel 1959, qui si ammala di tubercolosi e viene curata secondo la medicina Yoruba; Susan ne rimane affascinata, abbraccia la religione Yoruba, cambia nome in Adunni Olorisha e diventa una sacerdotessa. Morì nel 2009. Passeggiamo per il bosco, c’è anche una sacerdotessa quasi immobile, basta mettergli una banconota tra le mani, ed inizia ad impartire la benedizione come fosse un jukebox! Poi andiamo al “Nike Hand Crafts Center” dove c’è una scuola di Batik, ci viene mostrato come preparano il tessuto e poi come viene disegnato dalle allieve, stranamente però non c’è la possibilità di acquistarli. Per gli acquisti andiamo in una galleria d’arte, ha molti oggetti e tessuti interessanti, spesso troppo grandi per essere trasportati. Pranziamo in una nuova catena di fast food che si chiama “stomach care” con il simbolo dello stomaco! Devo dire che in Nigeria, è meglio mangiare qui piuttosto che nei ristoranti che sono pochissimi e non sempre hanno cibo, e se lo hanno lo speziano alla morte. Prima di lasciare Osogbo andiamo alla casa di Susan Wenger che oggi è stata ereditata dai suoi figli adottivi quindi non visitabile; tuttavia troviamo un po' di gente li fuori e ci fanno entrare solo al primo piano, è una casa di un’artista quindi è tutto piuttosto bizzarro ed interessante. Subito dopo partiamo da Osogbo e dopo due ore di strada siamo ad Ile-Ife, la città dove nasce la religione Yoruba, La Mecca Yoruba oppure la Gerusalemme Yoruba, poiché è qui che il Dio è sceso sulla terra. Poi Ile-Ife fu conquistata e perse completamente il suo peso politico mantenendo ancora oggi quello spirituale. La prima sosta è alla testa dorata di Olokumo che da il benvenuto all’ingresso della città, poi sale con noi in pulmino la guida che è anche una sacerdotessa, e come prima cosa andiamo a comprare 5 bottiglie di Gin “Seaman” da dare in omaggio al Dio e ai suoi preti! Il primo luogo di culto che visitiamo è la misteriosa stele “Opa Oranmiyan”: Oranmiyan era il figlio del dio Oduduwa e molti secoli fa eresse questa specie di obelisco di 5.5 metri decorato con 123 chiodi che vagamente ricorda una zanna di elefante, entriamo, togliamo le scarpe, e le sacerdotesse iniziano a pregare ad alta voce e coinvolgono anche noi, poi prendono uno “shottino” di gin e bagnano la stele, il resto a giro lo bevono tutti. Poi andiamo al tempio dedicato ad Oduduwa con il boschetto sacro dove è proibito l’ingresso: Oduduwa è sincretizzato in Cristo, è il figlio del Dio supremo Olorun, è sceso sulla terra, proprio qui, ad Ile-Ife. Stesso cerimoniale, Gin e preghiera, stavolta però c’è un sacerdote. Ultima visita della giornata il tempio dedicato alla regina Moreni con la sua statua che svetta in cima ad una scalinata, lei è realmente vissuta e viene venerata poiché rappresenta l’eroina che ha salvato la città dagli invasori; anche qui stesso cerimoniale, bottiglia di gin e preghiera. La notte ad Ile-Ife la passiamo in un albergo che da lontano sembra gigantesco e meraviglioso, un gate di accesso imponente, tanti edifici e ciascuno con il nome di un Dio, ma più ci avviciniamo e più si capisce che è solo esterno, come qualsiasi cosa in Nigeria. Le camere sono enormi, ma in quasi tutte i bagni non funzionano, l’energia elettrica va e viene, c’è una moltitudine di personale che non sa neanche dove si trova, insomma un luogo che rappresenta appieno il Paese, un enorme contenitore pieno di disordine. Per non parlare poi della cena, aspettiamo quasi due ore, almeno però è buona.

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6 dicembre, mercoledì: risveglio e colazione ad Ile-Ife, per fortuna avevamo ancora biscotti e caffè di ieri. Oggi iniziamo la visita alle 09:00, vediamo il tempio di Osugun praticamente dentro ad un appartamento con un feticcio informe all’esterno, pieno di resti di animali, ferro e una specie di cera colata arancione: anche qui stesso cerimoniale: gin e preghiera, ma a differenza delle altre si prendono ben 2 bottiglie stavolta. Poi visitiamo da fuori il palazzo dell’Oba di Ife, enorme, rimaniamo nel cortile e visitiamo solo le corti di giustizia dove alcuni cittadini stanno risolvendo le controversie dinanzi ad un giudice. Poi adiacente al palazzo, il museo nazionale, dove sono custodite le 2 teste di Ife in bronzo del re Obalufon II° di notevole fattura, poi numerosi amuleti e maschere Gelede. Lasciamo Ife, e direzione Lagos diretti, con pranzo ad Ibadan. Qui, ci fermiamo ad un ristorante gestito da un indiano, quasi tutti concordiamo che è stato il miglior pranzo del viaggio, tutto ottimo, soprattutto il pane nan. Arriviamo in hotel alle 18:00, siamo a “Kalakuta”: Kalakuta è una palazzina di 3 piani con terrazza e negli anni 70’ era il centro di “Kalakuta Republic” dove Fela Kuti, l’artista, il musicista, il cantante più importante d’Africa viveva con i suoi seguaci contro il regime militare, fin quando gli stessi militari un giorno irruppero a Kalakuta, distrussero tutto, ci furono molti morti tra cui la mamma di Fela, che invece riuscì a salvarsi. Oggi al piano terra c’è la reception con uno shop che vende il brand Fela Kuti, al primo piano il museo con foto, abiti, scarpe, mutande, il sassofono e chitarre di Fela Kuti, al secondo piano le 5 stanze del B&B arredate con gusto e con richiami al mito di Fela Kuti, e infine la terrazza con un lounge bar e musica di Fela. Per me tutto molto emozionante, poiché sono anni che ascolto Fela Kuti e conosco la sua storia. Cena in un bel ristorante all’interno di un centro commerciale.

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7 dicembre, giovedì: oggi è la giornata dell’escursione a Badagry, nonostante siano solo 70 km bisogna fare molta attenzione al traffico, rischiando di rimanere per ore bloccati soprattutto al ritorno, quando siamo stati costretti a partire in fretta subito dopo il pranzo alle 15:30. Un mercante olandese, Hendrik Hertog, nel 1500 comprò questa terra dai locali e qui istituì il mercato, un luogo di scambio tra gli africani e gli europei: Pian piano questo luogo divenne una stazione commerciale e solo ad inizio 1800 iniziò il commercio di schiavi che venivano scambiati con specchi, armi, whisky, è stato orribile guardare il prezziario: uno specchio 20 vite umane, un fucile 50 vite umane, una bottiglia 20 vite umane, e così via. Iniziamo subito con una sfilata di maschere Gelede, sono due, con i seguaci al seguito che cantano e suonano; le maschere Gelede fanno parte della religione Yoruba sono colorate e molto espressive, hanno sembianze femminili ma vengono indossate solo dagli uomini, e sono una vera e propria celebrazione della donna come madre, sposa, nonna, sacerdotessa. Quindi andiamo al museo degli schiavi ricavato in un edificio coloniale del XIX° secolo su due piani, con oggetti come gioghi e catene che evidenziano la brutalità dell’essere umano e tante foto, alcune inedite di ciò che è stato, imponenti all’esterno del museo le due statue che raffigurano due schiavi con le catene spezzate, “Am I not a man and brother?”. Poi proseguiamo con la “Mobee Slave Relics Museum” un museo più piccolo che narra la storia di chef Mobee e la sua famiglia, lui gestiva la tratta degli schiavi ma suo figlio e i suoi successori si adoperarono moltissimo per l’abolizione della schiavitù; anche qui ci sono reliquie come catene e gioghi, in ingresso ci regalano un fazzoletto bianco per asciugare il sudore, un gesto semplice ed inusuale, che mi ha colpito. Il nostro “Black history tour” con con le “Brazilian Baracoon” ovvero i magazzini dove venivano stipati gli schiavi, in stanze buie da tre metri per tre, ci andavano fino a 40 esseri umani, e qui mi impressiona il prezziario di cui scrivo sopra. E’ arrivato il momento della porta del non-ritorno, per arrivarci dobbiamo prendere una barca che attraversa un tratto di laguna piena di mangrovie, dall’altra parte c’è una penisola che però è collegata al continente africano nel territorio del Benin. Scendiamo a terra, fa molto caldo e c’è ancora un chilometro e mezzo da fare a piedi sotto il sole, quindi prendiamo le moto, i ragazzi sono lì ad aspettarci, ci caricano in sella e in pochi minuti siamo davanti all’Oceano Atlantico, nel golfo di Guinea. Il monumento alla porta del non-ritorno è una decrepita costruzione che richiama vagamente la forma della

conchiglia, un aborto edilizio insomma, tocco il mare come tradizione e possiamo tornare indietro; i ragazzi che ci hanno accompagnato in realtà sono contrabbandieri di riso, il governo nigeriano ha imposto il consumo del riso prodotto in Nigeria ai cittadini, un riso di scarsissima qualità e molto costoso da ottenere, quindi conviene comprarlo di contrabbando dalla Cina. Finito il “Black history tour” a Badagry, ci rimane l’ultima attrazione, l’esibizione dello spirito “Zangbeto”, gli Zangbeto sono degli spiriti guardiani, il culto è incaricato al rispetto della legge e dell’ordine, sono molto temuti e rispettati dalla comunità e solitamente girano di notte; il costume è un’enorme ammasso di fieno e rafia e la tradizione vuole che sotto al costume non c’è nulla. Assistiamo all’esibizione sotto ad un gazebo, ci stavano aspettando e ci lasciano i posti in prima fila: arriva lo spirito ed inizia a correre impazzito su e giù, non prima di ricevere in dono il gin “Seaman” sempre molto apprezzato. Sono quasi le 15:00, e con notevole ritardo andiamo a pranzo in un ristorante dove avevamo già preordinato il cibo; mangiamo velocemente e un po' prima delle 16:00 siamo in partenza per Kalakuta, dove arriviamo che è quasi notte alle 18:45. Usciamo poi a cena, in un meraviglioso ristorante, con cibo preparato da cuochi raffinati, veramente buono tutto.

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8 dicembre, venerdì: è l’ultimo giorno del viaggio, abbiamo il city tour di Lagos il cui nome significa appunto “laguna” in lingua portoghese, questa immensa metropoli di circa 25 milioni di abitanti, un mostro di disordine, traffico e caos, slum e grattacieli, folle immense di persone, auto sgangherate e suv con vetri oscurati, un contrasto continuo. Iniziamo con il mercato dei souvenir nel quartiere “bene” di Lekki, enorme, pieno di roba, c’è di tutto e molti oggetti sono belli, è un mercato per stranieri o africani benestanti che devono arredare la propria casa. Torniamo al centro storico di Lagos, nel senso del primo nucleo abitato della città perché di storico ha ben poco tutto è stato ricostruito; tentiamo di vedere le maschere “Igunnuko” dei costumi altissimi, di 4/5 metri, portiamo il gin in offerta, se lo bevono, ci danno la benedizione ma le maschere non è possibile vederle. Più avanti c’è il quartiere afro-brasiliano, cioè quel quartiere che fu abitato e costruito dai neri che liberati dalla schiavitù tornarono nella loro terra d’origine, portando con sé il bagaglio culturale brasiliano. Ma anche qui, tutto è stato ricostruito tranne una casa restaurata che vediamo e il museo che racconta la storia del quartiere, in sintesi, il miglior esempio di architettura afro-brasiliana che abbiamo visto è la “moschea rossa” di Abekouta. È già ora di pranzo, non abbiamo visto moltissimo ma Lagos è questa, e il traffico non aiuta. Nel pomeriggio siamo a “Makoko” l’infinito slum galleggiante direttamente in Laguna dove vivono circa 2 milioni di persone, qualcosa di incredibile, perché un essere umano non può vivere lì, in quelle condizioni, in quella puzza, in quello schifo, un enorme secchio di immondizia pieno di vita, una vita strabordante di bambini che urlano, ridono, ci inseguono. Sono tutte palafitte in legno, canali, vicoli strettissimi e liquami; nonostante avessi gli anfibi ai piedi non sapevo dove camminare ed ho resistito poco, forse 20 minuti, è troppo, veramente troppo. Torniamo in hotel, dove incontro il figlio di Fela Kuti che gestisce il bar in terrazza, e poi a cena.

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9 dicembre, sabato: volo Ethiopian di rientro con scalo ad Addis Abeba. I controlli in aeroporto sono parecchi, tante perquisizioni e tanti oboli richiesti dalla polizia, è tutto molto antipatico, ma si sa, gli africani in generale danno amore molto di più di quello che ricevono, tranne se indossano una divisa, che li trasforma in aguzzini scellerati.

10 dicembre, domenica: arrivo regolare a Roma alle 04:50 del mattino.