Sudan del Nord
5 febbraio, giovedì: in aereo verso Istanbul, sempre lo stesso scalo e spesso sempre lo stesso gate per l’Africa, il 207. Arriviamo a Khartoum che è notte, una vento caldo e piacevole, denso di altri profumi e del ricordo, ci accoglie. Tutte le valige ci sono, compresa quella per l’orfanatrofio piena di vestiti e giocattoli, e ce ne andiamo a dormire all’albergo cinese “Bouganville”; ormai lo so, sono già pronto ad affrontare la prima notte d’Africa insonne, a girarmi e rigirarmi tra le lenzuola.
6 febbraio, venerdì: scrivo sopra un cippo sepolcrale, alle 18:00, al tramonto nel cimitero di “Ahmed Al Nil” dove è in atto la tradizionale, imprevedibile e secolare cerimonia dei dervisci, essa si ripete dai tempi del Mahdi, da quando gli inglesi furono cacciati via e il loro comandante Gordon decapitato sulle scale del suo Palazzo. La giornata è iniziata con una straordinaria colazione sulla terrazza, la brezza fresca del mattino e tutta la città, attraversata dal Nilo che iniziava a svegliarsi, lentamente però, perché oggi è venerdì, è festa per i musulmani, e nessuno ha voglia di lavorare. Prendiamo una specie di pulmino con autista per farci portare in giro, ma non capisce una parola di ciò che vogliamo e spieghiamo, si va a caso, e casualmente ci fermiamo su una strada qualunque per passeggiare attraverso i campi coltivati lungo la riva limacciosa, umida e fertilissima del fiume. Le scarpe quasi affondano nel terreno, qualche chilometro più giù intuiamo la confluenza del Nilo azzurro con il Nilo bianco, un lungo ponte di ferro, un altro giro per strade di Khartoum finché ci porta nel luogo più ovvio, un ristorante occidentale, ci fermiamo lo stesso perché ci sono alberi, è ventilato, siamo esasperati delle inutili spiegazioni ed abbiamo fame. Mangio un panino con il Roast Beef, il pulmino ci riporta in albergo e poco dopo, nel caldo secco del primo pomeriggio tentiamo di raggiungere l’agenzia di viaggio per pianificare il tutto; dalle indicazioni dovrebbe essere vicinissima, ma a Khartoum c’è un elevata difficoltà a farsi intendere, perciò si procede per tentativi, e alla fine il tuc-tuc prende la traversa giusta. Perlomeno in agenzia oltre alla logistica, mi faccio scrivere, in arabo, il nome dei luoghi dove andare e visitare: per il pomeriggio scegliamo il suk di Omdurman sull’altro lato del fiume: siamo fortunati a prendere la via dell’artigianato e antiquariato, con calma e ben riposati si potrebbero fare acquisti interessanti, ma non è oggi il nostro caso anche perché tra poco cominciano i dervisci. Intanto il caldo fa impazzire la testa, unito alla polvere che entra nel naso e i fumi degli scarichi automobilistici, traffico, clacson, il fisico inizia ad accusare la botta del primo giorno. Tuttavia siamo al cimitero, la cerimonia inizierà alle 17:00, inganniamo il tempo bevendo del thé e mangiando frittele di pastella zuccherate: poi eccoli, i dervisci cominciano a cantare e ballare in un piccolo cerchio, nel frattempo raccolgono offerte; poi questo cerchio si allarga sempre più e sempre più persone arrivano, iniziano processioni, urla, ma oltre ai dervisci e alla loro perfomance e il contesto ambientale che fa tutto il resto: dove le bancarelle che vendono dolciumi, acqua fresca e bibite sono poggiate direttamente sulle lapidi scritte in arabo, il sole tramonta dietro la piccola moschea verde; un luogo incredibilmente travolgente ed anomalo.
Cala la notte su Khartoum, noi torniamo indietro, mangiamo un buonissimo “Shawamra” (così chiamano il kebab) presso un ristorante di strada siriano e beviamo una coca-cola; per tornare in albergo è quasi un
film, nessuno sa dove si trova, riusciamo ad intuire che siamo nel quartiere, ma quale è la strada? Ci vuole un’ora di tentativi ma riusciremo a dormire sul nostro letto. Nottata caldissima, mi alzo parecchie volte solo per bere, e poi ancora bere.


7 febbraio, sabato: oggi si parte, via dalla caotica città, verso il deserto, il “western desert”, dalla parte ovest del Nilo. Il nostro autista per questi giorni è Moussadak, un omaccione bello robusto che ispira sicurezza. Ci viene a prendere alle 09:00 fuori dal bouganville, andiamo a fare un po’ di spesa al mercato: verdure e frutta, sale, zucchero, sapone, dentifricio, schede telefoniche, pane, sigarette e ghiaccio, un enorme blocco da mettere nella cassetta frigo, durerà per qualche giorno. Lasciamo alle nostre spalle la periferia di Omdurman, poco dopo non c’è più nulla, qualche acacia, sabbia e sporadiche case in banco; in una di queste compriamo un pollo fritto conservato nelle bustine nere di plastica, si mantiene caldo anche perché più le ore avanzano e più al sole è impossibile stare. Nel pomeriggio sostiamo per un thè a Tam Tam, un punto di ristoro per camionisti nel nulla, anche perché con questo caldo è impossibile montare il campo, bisogna aspettare almeno le 17:00, quando le dune o i sassi iniziano ad allungare la propria ombra. Ci sistemiamo in una incantevole radura tra le dune arancioni di sabbia finissima, 4 acacie che fanno un po’ di ombra, e i meloni del deserto, perfette sfere bianche grandi come bocce quando sono secche, altrimenti sono verdi e costituiscono un alimento e fonte di liquidi per i cammelli. Mettiamo su un caffè, poi montiamo le tende e giochiamo a carte prima di iniziare a cucinare. Per cena stasera un ottimo sugo con le melanzane, moderatamente piccante, condirà la pasta, mentre Ernesto frigge delle patate superlative, aiutato nella cottura anche dal vento che alza la fiamma. Infine, mandarini e pompelmi come frutta. Naturalmente, come consuetudine nel deserto, a letto presto.
8 febbraio, domenica: sto scrivendo da Soleb, seduto su una pietra scolpita 3000 anni fa, e almeno 300 tra moscerini e mosche che tentano di entrare anche nelle orecchie. Accanto alle rovine c’è il polveroso e geometrico villaggio, perché le case nubiane sono decorate con mille poligoni e cerchi combinati assieme, i portoni colorati, tanta fantasia cromatica che risalta con i colori naturali del banco, del bianco, del cielo terso e della polvere. Poi a pochi passi c’è sempre il fiume Nilo, la polvere diventa terra limacciosa, inizia il verde intenso, le palme, i campi coltivati, le palme, in uno stacco netto: deserto e vita.
Stamattina smontato il campo, come prima cosa abbiamo gonfiato le gomme, ieri le avevamo portate basse per camminare sulla sabbia; poi una lunga strada diritta che taglia un deserto brullo e sassoso fino a Dongola: qua cerchiamo di raggiungere la riva del fiume e finiamo in una specie di Luna Park sul fiume, passeggiata senza meta finché arriva l’ora del pranzo. Si mangia con Moussadak in un ristorante locale: un sugo cipolloso con varie verdure e nel mezzo qualche pezzo di montone, si intinge il pane come accompagno e si mangia con le mani che poi potranno essere lavate negli appositi catini. Riprendiamo la
stessa strada asfaltata e dritta per circa un’ora, poi si devia a destra sullo sterrato che segue il Nilo più da vicino e attraversa innumerevoli villaggi nubiani, tento di ricordare il nome di qualcuno ma mi perdo presto. In questa zona gli abitanti sono particolarmente in lotta, non so quanto pacifica, con il governo che vorrebbe costruire la diga. Verso le 17:00 del pomeriggio siamo al primo sito archeologico, quello di Sesibi, nei pressi della 3° cateratta, sono rimaste in piedi solo tre colonne mentre il resto è ancora da scavare, risale al faraone Akenaton. Tra Sesibi e Soleb c’è un piccolo tratto di asfalto, e Soleb è veramente spettacolare, parzialmente ricostruito, ad oggi sembra abbandonato, molti sassi con bassorilievi sono sparsi ovunque, alcuni catalogati con un numero. Soleb sembra sia stato costruito dal figlio dell’architetto di Luxor ed è dedicato al dio Amon. Un magnifico palmeto divide il sito dal fiume con campi coltivati a melanzane, insalata, pomodori, peperoni, a perdita d’occhio. Prima di preparare la cena faccio una doccia con i secchi gentilmente concessa dalla casa nubiana che ospita le nostre tende nel proprio cortile. Stasera preparo una matriciana, è ottima, ma è solo per noi, il maiale non possono mangiarlo per ovvie ragioni. Prima di andare a dormire il vecchio della casa mi mostra una foto scolorita e lacera di un’italiana: si chiama Michela Giorgini, dal 1957 al 1977, stette qui a Soleb per ricostruire il tempio, come archeologa dell’Università di Firenze. Stavolta la notte è stata decisamente più fredda.


9 febbraio, lunedì: oggi andiamo in barca, per raggiungere l’isola di Sai, una striscia di terra nel mezzo del Nilo, lunga 12 km e larga 4, ma con tanta storia da scoprire e raccontare. L’imbarco dista pochissimo da Soleb, qua c’è Adil che con la sua barca a motore, prima ci porta a fare un giro intorno alla ricerca dei coccodrilli, ma non ci sono stamattina, poi attracchiamo e l’unico land rover anni 60’, tutto ferro, è lì ad aspettarci. La prima tappa è la chiesa cristiana, sono rimaste solo 4 colonne in piedi e attorno tanti cocci; quindi al forte ottomano, semidistrutto, che a sua volte fu costruito sulla città dei faraoni, infatti riemergono tantissimi reperti egizi, tra cui splendide colonne, lastre granitiche decorate con aquile, civette, geroglifici … pezzi di storia millenaria che riemergono qua è la, dimenticati e disordinati dal tempo. Vicino a queste emotive rovine, ci sono due grosse “qubbe” ovvero tombe per persone di rango, al centro di un vasto cimitero musulmano: le ossa riemergono qua è la nella terra, teschi e femori, le prendo, le tocco, ormai sono solo dei pezzi di calcare, si sgretolano, e il vento si porta via la polvere. Nel frattempo arriva il caldo, l’autista della Land Rover sembra sparito assieme a suo figlio piccolo che non smette mai di tossire, ma dove? Poi ricompare sempre dal suo nulla e ci accompagna al cimitero di Kerma, cumuli di pietra circolari del diametro di 7/8 metri in pieno deserto, appartengono a quella che fu la più remota civiltà, risalente al periodo neolitico, intorno al 7500 a.C. Questo è stato il tour dell’isola di Sai, torniamo dal nostro traghettatore Adil che ci riporta sulla riva sinistra del Nilo dove Moussadak ci aspetta. Tornando a Soleb attraversiamo un villaggio improvvisato, fatto di baracche di lamiera, sporco e disordinato, è quello dei
cercatori d’oro, qua solo polvere, buche ed immondizia, però c’è aria di possibile ricchezza, non so quanto, ma…
Ci fermiamo a mangiare sotto un incantevole palmeto lungo il Nilo, una specie di colazione sull’erba, con pane, pomodori, cipolla e parmigiano. Dopo pranzo c’è il sito archeologico di Seddeinga, costituito da un’unica colonna circondata da grossi massi squadrati e intagliati, poi tante basi di quelle che furono piramidi, quindi sepolcri, al massimo di 7 metri di lato, in alcune si scende ma non c’è nulla, almeno per i nostri occhi non scientifici. Più divertente invece è “Jebel Doucha”, una grossa duna di sabbia adagiata ad una montagna che guarda direttamente sul fiume, si sale su in cima e netto è il contrasto tra fiume azzurro, fascia verde del palmeto e sabbia gialla dell’infinito Sahara; poi ti butti giù ed inizi a rotolare nella sabbia. Ritorniamo al cortile della casa nubiana di Soleb nell’ora dell’ozio più totale, si può solo rimanere all’ombra a leggere aspettando che i moscerini ti mangino un po’ e tu mangi i datteri secchi duri come ceramica e le arachidi dell’aperitivo gentilmente offerto dalla casa. Al tramonto una bella doccia con i secchi ed una lunga passeggiata tra i campi di fave e fagioli; a cena, invece una matriciana, tanto per finire il maiale che con il caldo aveva già abbondantemente sudato nella sua plastica sottovuoto.


10 febbraio, martedì: ospitalità nubiana: sto scrivendo disteso su un letto barocco con lenzuola arancioni finemente ricamate, nel corridoio di una casa enorme con le pareti dipinte di verde acido e sotto ad un grosso ventilatore che fa aria e scaccia via le mosche, nel villaggio di Tombos. Stamattina lasciamo il cortile di Soleb con vista rovine e scendiamo a sud lungo la riva sinistra del Nilo, strada veloce ed asfaltata fino a Dongola dove sul lungo ponte attraversiamo il fiume passando sulla riva destra, questa è più verde, più ampia, più movimentata, anche perché in passato esisteva solo la strada che collega Wadi Halfa con Khartoum. Sosta pranzo e spesa al mercato nella cittadina di El Burghec: nel souk prendiamo olio, patate e sapone per i piatti, e su consiglio di Moussadak mi compro un bellissimo Jalabia verde, fresco e comodo. A mangiare in uno dei classici ristorantini locali, i bicchieri sono ex lattine di conserva dei pomodori, piatto unico con ottimi bocconcini di montone ed un primo sale di mucca veramente eccezionale. Dopo pranzo, sotto al sole cocente andiamo, svogliati, al primo sito archeologico della giornata: quello della civiltà di Kerma, pre-meroitica, dove al centro di una vasta area campeggia la Defuffa, edificio di culto in sgretolamento ma antichissimo. Dall’alto si osservano tutti i confini delle varie strutture della città, le vie, le case, tutto ancora da scavare, ma la mia ignoranza non mi permette di andare oltre a questa semplice comprensione. Annesso al campo della Defuffa c’è un museo, almeno qui l’aria è fresca, dove sono conservate le 7 meravigliose statue dei faraoni, ritrovate tutte assieme poiché spezzate e sepolte in una buca da un loro successore per cancellarne la memoria, ed invece ha sortito l’effetto contrario. Oltre alle statue il museo conserva molti monili, terrecotte, anfore e strumenti di lavoro. Poi da Kerma andiamo verso Tombos, passeggiando le enormi pietre di granito lungo il fiume sono spesso pezzi di storia con
innumerevoli iscrizioni geroglifiche. Siamo all’altezza della 4° cateratta e questo tratto non è navigabile, sempre a Tombos c’è la celebre statua del faraone sdraiata a terra, bella e abbandonata ai lati di una strada sterrata. E quindi la casa nubiana dalle pareti verde acido: Aldo sta insegnando ad un bambino a fare le ranocchie con gli oricami, Moussadak invece sta imparando a giocare a scopa con noi, bevo il mio thè e mi riposo. A dormire andiamo lontano dal villaggio, in un deserto grigio e pietroso, comunque bello: Moussadak cucina, frigge melanzane e prepara una salsa con aglio, yogurt salato e lime, Ernesto frigge le patate ed io il risotto agli asparagi. Silenzio e pace, mentre il cielo azzurro se ne va e lascia il posto alle stelle, che si presentano una ad una.


11 febbraio, mercoledì: sono a Karima, proprio sotto la montagna sacra del Jebel Barkal, a scrivere sul tavolo in ferro sporcato dagli schizzi del sugo di tonno che ha condito i nostri spaghetti, ospitati in una casa nubiana. Stamattina alla sveglia, insieme al sole si è alzato quasi contemporaneamente un forte vento da nord, e per tutta la giornata è stato così: una foschia gialla che talvolta diventava perfino nebbia, facendo male sul viso. Dal deserto grigio di Tombos partiamo per Old Dongola, circa 4 ore di piste indecifrabili nel deserto, a volte asfalto, ma non so Moussadak come faccia ad orientarsi tra le acacie, unica struttura verticale che può dare riferimenti. Per strada compriamo omelette e pollo da mangiare a pranzo, dentro alle comode bustine di plastica nere. Purtroppo il vento a Old Dongola è molto insistente: ci sono le 6/7 colonne del periodo meroitico ancora in piedi da fotografare, lassù in alto una fortezza che doveva essere una chiesa cristiana, a destra di essa un villaggio fantasma abbandonato da anni, e un enorme muro di cinta che delimita tutta l’area. Nella vallata sottostante ci sono una decina di “qubbe”, enormi al centro di un cimitero islamico; tutto questo vento, la polvere, non fanno che contribuire a dare un aspetto decadente e solitario al tutto. A pranzo ci offre ospitalità una casa nubiana, sarebbe stato impossibile mangiare all’aperto. Nel pomeriggio vediamo El Kurru, qua c’è ancora moltissimo da scavare, dell’esterno vediamo solo rovine e basi di enormi piramidi oramai consumate dal tempo, ma qui c’è la possibilità di scendere dentro ad una camera mortuaria e poterne ammirare tutti gli affreschi che essa, nei secoli, ha conservato. La volta è affrescata di stelle, l’intonaco azzurro è quasi scomparso, c’è il sole da una parte e la luna dall’altra, poi faraoni, scarabei, scritture geroglifiche, qualcosa di imperdibile a queste latitudini. Da El Kurru, Karima è vicinissima: vediamo prima il gigantesco monolite del Jebel Barkal e le 6 piramidi sotto, alcune distrutte: saliamo sulla montagna sacra, 10 minuti per essere in cima e si domina tutto, il Nilo, la città, le piramidi, gli scavi archeologici sotto, e i falchi sopra che volteggiano. A pensare che, tanti secoli fa, una parte del Jebel Barkal era rivestita di oro e la ricchezza dei faraoni risplendeva sul mondo. Le piramidi sotto sono più belle da lontano che da vicino, anche perché a parte la loro forma non presentano niente di rilevante. Quindi gli spaghetti con il tonno già menzionati, almeno stasera c’è un lavandino e i piatti possiamo lavarli bene.


12 febbraio, giovedì: che freddo al mattino a Karima, poi con l’avanzare delle ore il sole ha iniziato a scaldare, anche troppo. Sotto al Jebel Barkal c’è un piccolo museo, l’entrata è sorvegliata dal corpo di una grosso ariete in pietra con la testa spezzata, all’interno c’è qualche reperto interessante da ammirare. Più in là c’è la grossa piana degli scavi dove lavorano archeologici dell’università di Firenze: uno di essi ci spiega qualcosa tra il freddo e la polvere, ad esempio gli innumerevoli cocci che sono ovunque, non erano altro che contenitori per il pane che poi venivano spezzati per poterlo mangiare, un po’ come se fossero delle buste di plastica di 2000 anni fa. Altri archeologici italiani stavano lavorando all’interno di una galleria dentro il Jebel Barkal, restauravano degli affreschi straordinariamente belli dedicati al dio Amon, gentilmente ci fanno entrare ma non possiamo fotografare. Dopo Karima, andiamo alle piramidi di Nuri, sono grandi e numerose, tutte in fila, ma anch’esse sono più belle da lontano che da vicino, del resto per un semplice viaggiatore come me, sono solamente sassi su sassi. Per il pranzo riusciamo a comprare il primo sale dell’altro giorno, il pane fresco e le alici, il tutto si sposa perfettamente: la consumiamo in un anonima baracca lungo la strada dritta e polverosa che taglia in due il deserto di Bayuda, abitato solamente da nomadi. Poi il viaggio verso Atbara riprende, ma mi addormento perché il paesaggio è sempre lo stesso, monotono deserto. La città di Atbara è nel punto dove il fiume omonimo confluisce nel Nilo; Moussadak ci accompagna all’interessante museo della ferrovia sudanese, essa fu voluta dal generale britannico Kitchener nel 1897, e fu la prima linea ferroviaria d’Africa, necessaria per sconfiggere i dervisci e riconquistare il Sudan, 10 anni dopo il disastro di Gordon Pascià. Nel museo ci sono alcune locomotive dell’epoca, il cancello della “Victoria Station” di Khartoum, foto d’epoca, memorie, documenti. Purtroppo ad oggi da Atbara non è più possibile raggiungere Port Sudan in treno, era una mia idea, poiché la tratta è rimasta solo per i treni merci, non passeggeri; dobbiamo scegliere l’autobus, ce ne sono 7 di 7 agenzie diverse, partono al mattino e arrivano la sera. Ad Atbara ci fermiamo a dormire al modesto albergo “Praa Hotel”, bagno in comune, e due camere doppie, io la divido con Moussadak che ogni tanto prega.
Usciamo a passeggiare per la città con un tuc-tuc che ci porta al centro, visitiamo il mercato di gioielli e stoffe, ma non c’è nulla di bello da comprare, l’oro è lavorato in modo barocco, le stoffe sono cinesi, tuttavia ne approfitto per farmi tagliare la barba. La sera fa freddo, c’è vento forte, infatti per la cena indossiamo i giubbotti: siamo all’aperto fuori dall’albergo, ci servono fagioli pestati, salse piccanti e pane in unico piatto da dividere in tre, senza posate naturalmente.
13 febbraio, venerdì: sento Moussadak alzarsi, sta andando a pregare perché oggi è venerdì, io mi tiro su dal letto tanto non aveva più senso continuare a dormire dopo una notte passata a coprirmi dal vento e le orecchie con il rumore del ventilatore, è vero che almeno scaccia via le zanzare ma mi ha costretto a
dormire con il giubbotto. Insperatamente fuori dall’albergo c’è una donna che vende bombe fritte con zucchero a velo e cafè, così facciamo colazione ad Atbara che è ancora buio.
Si va verso sud, verso Naga, il sito archeologico è nel mezzo di una savana, tra acacie ed erba secca e si divide in due parti: la prima è la più famosa e più bella, quella che conserva ancora un soffitto ma nella seconda c’è un viale accompagnato da arieti e all’interno un sensazionale altare scolpito su una pietra bianca, completamente differente da quelle che stanno intorno. Dopo Naga visitiamo Mussawarat che è più o meno vicino, mezz’ora di sterrato, e si trova nello stesso ambiente naturale; il sito di Mussawarat è più esteso ma più distrutto e disordinato, in confronto Naga è una splendida bomboniera. Tuttavia non mi dimenticherò delle statue, ormai dimezzate, che sorvegliano l’entrata di un tempio, lì dentro ho pensato a lungo; inoltre ci sono bellissimi elefanti scolpiti in pietra. Riprendiamo l’asfalto, pranzo nel solito ristorante sulla strada con bocconcini di pecora ed altre salse, poi direzione Meroe, che archeologicamente dovrebbe essere l’apice turistico del viaggio. Le piramidi di Meroe sono moltissime, quasi tutte ricostruite ma molto belle, all’interno sono piene di bassorilievi e geroglifici scolpiti nella roccia, attorno la sabbia gialla del Sahara, e con il tramonto, è un trionfo dei colori caldi, arancione, giallo e marrone che contrastano il cielo. Dall’altro lato della strada che porta a Meroe c’è la città reale di Meroe, ovvero dove c’era la vita, del resto le piramidi sono un cimitero: anche qua una moltitudine di cocci sparsi, qualche piccolo accenno di edificio o colonna ancora rimasti in piedi, il bagno termale ben conservato, quindi un bosco di acacie, un pastore riporta il suo gregge di pecore all’ovile, i contadini ritornano dai campi di fave e piselli che si estendono laggiù fino al fiume Nilo, laddove tramonta il sole, e la sensazione di veder rappresentata una pagina della Bibbia. Dormiamo in un motel vicino al sito archeologico, sede di un distributore: poiché abbiamo ancora della pasta e del pesto ci concedono la cucina per prepararci la cena e questa era veramente una cucina da incubo, solo confusione, grasso ovunque e nero, sporco, puzza, tanto che quando l’acqua bolle, nel pentolone una schiuma viene a galla come se ci fosse della carne dentro, invece era solo acqua. Certamente non abbiamo mangiato il più buono piatto di pasta del viaggio, anche perché vedere con i propri occhi quello schifo è condizionante. Un po’ di nutella con il pane e a letto, in questo motel senza cuscino e senza asciugamani.


14 febbraio, sabato: partiamo dal motel che è l’alba, le piramidi di Meroe sono appena illuminate dall’aurora, noi stiamo risalendo verso Atbara, dove alle 10:00 abbiamo l’autobus per Port Sudan, biglietti già fatti due giorni prima; solo una sosta caffè sulla strada prima di arrivare al terminal degli autobus con buon anticipo. C’è una gran folla, e noi spicchiamo come fossimo dei Mongoli alla stazione Termini; tuttavia l’attesa supera qualsiasi previsione, via via sono partiti tutti per Port Sudan, mancava solo la nostra compagnia, e alle 12:00, dopo due ore di attesa, concordiamo con Moussadak un prezzo per farci accompagnare da lui, accetta, ci facciamo rimborsare i biglietti e via ancora con lui per tutta la giornata.
Sono imprevisti cronici in Africa, da mettere sempre in conto. Stavolta si attraversa l’Eastern Desert, tutto uguale, sabbia e miraggi laggiù in fondo. Sosta pranzo nel primo pomeriggio nel solito piacevole luridume con il ful, i friggitelli, felafel e uova soda; mentre mangiavo mi guardavo attorno, l’intonaco, la luce, i commensali, il nero, la terra, i fuochi della cucina, pensavo al Caravaggio, e probabilmente le taverne romane della sua epoca non dovevano essere tanto diverse.
Dopo il deserto iniziano le montagne, inizialmente con piccole rocce e la ferrovia continua a seguire la strada, è da Atbara che lo fa ma mai un treno è passato, solo qualche vagone abbandonato oppure stazioni fantasma; finchè dalle rocce si passa alle montagne vere e proprie, saliamo fino all’Aqaba Pass, e poco dopo, non è più un miraggio, le case di Suakin, il Mar Rosso. L’Old City della mitica Suakin dell’800, il porto e i suoi arabeschi, è oggi un luogo che sembra essere passato sotto un intenso bombardamento, sono pochissimi i muri ancora in piedi, solo macerie, l’unica costruzione appena visitabile è la chiesa cristiana, ma, in un incredibile contrasto, si passeggia per queste vie su un grazioso e ordinato vialetto in pavè che porta a 3 edifici nuovissimi, scintillanti nel loro bianco, due sono moschee, l’altro ha la bandiera turca e il portone di ingresso è difeso da due cannoni di bronzo. Pochi metri più giù altri cannoni, pieni di ruggine, completamente erosi dal sale, di un epoca che non esiste più, baluardi in ferro. Insomma Suakin è quanto più di surreale possa esserci, uscendo dal paese un carosello di auto stava festeggiando la vittoria di una qualche partita di calcio, ce ne andiamo così, mentre il sole è quasi tramontato dietro le montagne dell’Aqaba Pass e alle 19:30 siamo a Port Sudan. Ci sistemiamo in uno dei migliori alberghi della città, il “Basiri Plaza”, un lusso sfrenato per un luogo simile e per il nostro viaggio. Ci laviamo, finalmente, e per cena il tuc-tuc ci porta in un formidabile ristorante, azzurro, con le tavole dei pesci appese alle pareti, la sega del pesce sega sopra il nostro tavolo, infatti si chiama il “Fish Market”, si mangia: il pesce imperiale, tre tranci di cernia fritti e gamberoni, mancava solo un buon vino bianco ma quaggiù non si può.
15 febbraio, domenica: nottata di zanzare, tanto da avere nostalgia della tenda; all’01:30 sono sceso giù in reception per reclamare un fornelletto con piastrine. Alla fine, tardi, ho dormito e la colazione è stata buona ed abbondante al self service del Basiri. Andiamo al mercato del pesce nella zona portuale e commerciale di Port Sudan, non a caso qua arrivano i binari del treno che si infilano direttamente dentro a grossi capannoni, dove la merce viene stoccata. Il pesce è freschissimo, ci sono bei tagli grandi di svariate qualità, parecchie cernie, e gran parte di esso è ancora vivo. Per terminare il tour della città andiamo al souk, che non è compresso e stretto, ma si sviluppa tutto sotto ai portici, caratteristica architettonica di Port Sudan; qua vendono di tutto, e quasi tutto è cinese. Pagato il conto dell’albergo abbiamo fretta di mare, e in 30 minuti di taxi siamo al “Red Sea Resort”: finalmente l’acqua e il caldo, il resort è nel nulla, attorno a se non ha niente, noi ci sistemiamo in un bungalows senza bagno, una semplice capanna, ma del resto siamo solo noi e i bagni in comune sono solo nostri. Pranzo con spiedini di gamberi e peperoni, poi riposo, e infine il bagno in mare, ma l’acqua è bassa, praticamente è come se stessimo camminando sulla barriere corallina e il salto nel blu è lontanissimo, è difficile anche nuotare. Più tardi andiamo a raggiungere a piedi un isolotto di fronte a noi, una tartaruga marina appena ci vede scappa via, mentre i granchi hanno i loro nascondigli nella battigia piena di legno, coralli e conchiglie. Poi una lunga passeggiata lungo la spiaggia al tramonto. Finalmente alla sera si vede qualcuno, c’è Hassan il proprietario e con lui Renè ed Andrea (la sua compagna) che fanno parte dello staff. Hassan è un giovanotto e concordo con lui il programma dei prossimi giorni, immersioni comprese. C’è un altro ospite al Red Sea, è Manuel, un brasiliano che lavora in ambasciata a Khartoum, è qua per qualche giorno di vacanza, è stato anche a Roma e parla un buon italiano da prete, insomma non una grande allegria…
16 febbraio, lunedì: comincio a sentire la lunghezza del viaggio, forse il non far niente qua al mare, oggi la colazione era pronta alle 08:30 ma ero sveglio già da un po’. Con molto calma la piccola barca a motore del villaggio ci ha portati, con pinne e maschera, a largo del “Red Sea” per lo snorkeling, dove il reef è quasi a pelo d’acqua: si vedono moltissimi pesci, Nemo e tutti i suoi amici che nuotano placidamente sui coralli, splendida esperienza. Risalito sulla barca mi adagio a prendere il sole e quasi mi addormento, spalmandomi tanta crema solare, meglio esagerare questi primi giorni. Torniamo al Resort per il pranzo, oggi scelgo di mangiare il pollo alla yemenita, mi riposo sotto una capanna quindi mi metto a scrivere queste quattro righe per ricordarmi la giornata, nel frattempo ha iniziato ad alzarsi il vento. Oggi anziché l’isolotto scegliamo la punta sud della costa, in un misto di nuoto e cammino quando possibile, ma l’acqua diventa sempre più bassa e torbida, non ha senso continuare e torniamo all’isolotto di ieri. Alla punta sud ci arriviamo successivamente via terra, aggirando il golfetto per la passeggiata al tramonto, qua la sera vengono coppie di innamorati o famiglie con bimbi da Port Sudan a farsi fotografie o passeggiare. Quindi doccia e cena. Successivamente René inizia a spiegarmi i rudimenti del diving per iniziare a preparare l’immersione di domani a Sanganeb, misuro muta, giubbotto ed imparo a respirare; un cane stasera ha provato a mordermi, peccato.
17 febbraio, martedì: faro di Sanganeb, ore 19:00, uno e forse il più meraviglioso tra i luoghi mai visitati. Stamattina ci siamo svegliati con la solita calma, dovevamo partire per le 11:00 invece sono arrivate le 12:30 e alle 14:00 dopo tanto sole sulla barca entriamo nel turchese atollo di Sanganeb, siamo pronti ad andar sotto, sarà una sorpresa, soprattutto grazie a René che per me è stato un ottimo istruttore. Infatti sott’acqua c’è un’altra dimensione, ho avuto delle difficoltà iniziali nel trovare il giusto bilanciamento tra gav e respiro e conseguente equilibrio marino. Poi mi sono dedicato ai pesci, e alla barriera corallina. Finito il diving, sono esausto ed affamato, mangio 3 banane di fila, poi andiamo a sistemarci nel faro. Inizialmente i 4 guardiani, che qua svolgono un turno di 15 gg, non volevano farci dormire, era solo una vana resistenza che presto a ceduto. Infatti ci hanno concesso una comoda stanza con tre letti della foresteria, ne hanno anche un’altra con 4 letti dove si sistemano gli altri. Sanganeb per me è magia, nient’altro, un incanto: sono salito fin su in cima tramite una centenaria scala a chiocciola, e da lassù si riesce a vedere la curvatura terrestre. Ci hanno perfino permesso di fare una doccia, poi ho cucinato io per tutti degli stratosferici spaghetti all’arrabbiata, ne butto giù un 1 Kg per tutti, noi, il nostro staff e i guardiani: sono quelle serate incredibilmente belle, quando sorridi anche per andare a pisciare la notte, scendevo giù dalla scala e poi a mare con i pesci notturni che nuotavano sotto. Prima di andare a dormire sono andato con René e Andrea a scattare foto notturne del faro, bellissime anche queste. In camera, il vento del mare, salino, che entra dalle finestre e il rumore del generatore a gasolio che tiene accesso il faro.


18 febbraio, mercoledì: quando scrivo sono già alla capanna n.3 del “Red Sea”. Alba a Sanganeb, a sorpresa è tutto coperto da stratocumuli e il sole non si vede. La sveglia al faro naturalmente è altrettanto rilassata, il capitano della nostra barca se ne va non so dove, noi lo aspettiamo fino alle 10:30, e pure stamattina ho un’altra occasione per immergermi. Stavolta con molta più calma, siamo soli io e René perché la bombola per Bilal non c’è, andiamo giù e non torniamo più su a prendere aria per 50 minuti filati e il giardino marino me lo godo molto di più: i pesci non si scansano, come stare in un acquario gigantesco, inizio a prendere confidenza, apprezzo l’assenza di gravità, ruoto, faccio capriole, come se fossi dentro al cartone di Nemo. Quando risaliamo la barca è lontana e ce la facciamo a nuoto molto faticosamente. Poi si riparte per tornare sulla terra ferma e a metà strada ci accompagnano splendidi delfini, nuotano talmente vicino che possiamo quasi toccarli. Pranzo al resort, riposino pomeridiano, poi altra lunga passeggiata alla punta nord, al cimitero delle conchiglie, dove scopro che gli indigeni del posto, musulmani, hanno segnato il terreno con delle grosse conchiglie a forma di moschea, orientata ovviamente verso la Mecca. Stasera a cena si cambia, cucinano la pizza (congelata) e le patatine fritte. Dopo cena René mi mostra le splendide foto del diving di questi giorni.
19 febbraio, giovedì: oggi giornata bruttissima, il vento ha soffiato forte tutta la notte, le nuvole si sono abbassate, faceva quasi freddo, e il sole non è mai uscito. Tuttavia, avevamo in programma la terza immersione, non vedevo l’ora di andare sott’acqua dopo aver cavalcato le onde per mezz’ora con quella barchetta cercavo solo la tranquillità e il silenzio del fondale marino. Infatti il paradiso è proprio laggiù; indossiamo la muta invernale perché fa freddo, sono durato solo 45 minuti perché ho sforzato di più con le braccia per mantenere l’equilibrio e fronteggiare la maggior corrente sottomarina. Anche per il pranzo ci propinano la pizza, poi riposo e passeggiata, oggi puntiamo al verde alle nostre spalle, verso ovest, verso la strada che collega con Port Sudan: è il territorio dei pastori Beja, c’è un cammelliere che ci saluta, vuole una sigaretta ma altro non è possibile comunicare. Stasera a cena ci sono 20 ospiti sauditi, almeno un po’ di movimento. Dopo cena i ragazzi della cucina organizzano una specie di festa, dove si balla ma sono solo uomini, uno di loro ha portato una bottiglia di plastica con il “Raghi”, alcool praticamente puro di contrabbando, infatti la nasconde gelosamente sotto la giacca, inoltre c’è anche un po’ di maria.
20 febbraio, venerdì: <>, questa frase riassume questi 5 gg sul Mar Rosso, una calma estrema in tutto, senza nessuna fretta gli eventi si sono mossi attorno al nostro ozio. Stamattina dopo colazione abbiamo preso un taxi per andare alla spiaggia di Al Arous, qua c’è un villaggio turistico abbandonato da almeno dieci anni, capanne di pescatoti, un decrepito ex ristorante di legno, immondizia ovunque, ossa di animali sparse qua e la, gusci d’uova, ma il posto sarebbe comunque bello, nonostante il suo declino qua c’è la spiaggia e il mare è incantevole; René dice che è un covo di ladri e prostitute. Dista solo 20 minuti d’auto dal nostro resort, che forse lì avrebbe trovato una collocazione migliore, chissà. Ritorniamo al nostro bungalows, è ora di fare le borse, una partita a scopa e siamo ai saluti: bello e affettuoso quello con René e Andrea, noi europei ci salutiamo e continuiamo a guardarci girandoci ancora per l’ultimo cenno, gli africani no, ti salutano calorosamente e poi non si voltano più, vanno per la loro strada, ormai sei già il passato. Il taxi che ci porta in aeroporto è lo stesso che stamattina ci accompagnato a Al Arous, ha preferito aspettare e il pesce comprato stamattina e lasciato nel portabagagli sgocciola inevitabilmente sui nostri zaini. Ad arrivare in aeroporto impiega un’ora, anche perché il taxista deve prima fermarsi dalla moglie e lasciargli il pesce e per poco, nelle vie dissestate di Port Sudan, non prendiamo ad un incrocio un ragazzino sul motorino, che comunque cade ma per fortuna senza farsi male. In aeroporto merenda con pane, uova e formaggio; il volo è tranquillo, il servizio a bordo eccellente con cioccolatino finale, i voli interni africani sono ancora un lusso per il Paese e i
passeggeri vengono serviti e trattati come accadeva in Alitalia negli anni ’70. Fuori dall’aeroporto di Khartoum c’è il taxista mandato dal “bouganville” con il cartello “Welcome Back Alessio”, a cena stasera usciamo a piedi e mangiamo un ottimo kebab di pollo in fondo alla via principale, in un ristorante turco.
21 febbraio, sabato: inizia l’ultimo giorno d’Africa, non sono nemmeno le 8 e salgo in terrazza a godermi la piacevole colazione, come il primo giorno. Scrivo dall’aeroporto di Khartoum, è già notte, e ci si mette pure un black-out totale proprio durante il check-in, un qualcosa di impensabile in un posto simile, al diavolo la sicurezza e viva l’approssimazione di questo continente. Questo la cronaca di una giornata intensa a Khartoum. Prima tappa al Museo Nazionale, tantissimi reperti provengono da Nuri seppur le piramidi di Nuri tra quelle viste sono le più malandate e meno interessanti, al piano superiore sono esposte pitture copte provenienti da una chiesa nei pressi di Wadi Halfa, mentre all’esterno 3 grandi capannoni ospitano 3 templi completamente ricostruiti. Nell’insieme è un bellissimo museo, tuttavia pieno di soldati e controlli. Dopo il museo cambiamo un po’ di euro al mercato nero, poi visitiamo l’altro museo, quello più tipico e più emotivamente toccante rispetto al precedente, più asettico e catalogato: mi riferisco al museo del Mahdi, si trova davanti alla sua imponente tomba all’interno della casa del suo successore, con foto, armi e costumi dell’epoca. Pranziamo con un panino e nel pomeriggio torniamo al souk di Omdurman, infinito e devastante, ma non faccio acquisti, il tappeto che volevo era troppo costoso, per non parlare del piatto enorme d’ottone ricamato di arabeschi, non aspettatevi di trovare prezzi bassi. Ritorno in albergo e riesco subito per farmi fare barba e capelli, per quest’ultimi è la prima volta in Africa e non vengono proprio male. Poi altra cena dal turco, stasera pollo alla piastra e attesa fino alle 24:00 del taxi per l’aeroporto; per poco non ammazzo di botte il ragazzo dell’albergo cinese, pretendono sempre troppo e la loro disonestà mi fa ribrezzo.
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22 febbraio, domenica: volo notturno, scambio ad Istanbul, ed arrivo regolare a Roma, ora di pranzo. Alla prossima …..