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Trekking sul Tassili, Algeria

La genesi di un viaggio parte sempre da lontano: l’idea esce dal cervello come una piantina dal seme, molte di esse muoiono altre diventano alberi, molti viaggi ho fatto e qualcun altro abortito, ma, il trekking sul Tassili aveva una spinta particolare, la mia monomania per il gran Dio di Sefar. Avevo giurato 6 anni fa a Djanet di salire su un giorno, per scoprire un’era sconosciuta dell’umanità, dove grazie ai libri di Henri Lhote, appresi di bizzarre pitture rupestri, misteriosi disegni, che narrano di un tempo remoto: ammirandoli per giorni sulla roccia ho capito che non era però un tempo “preistorico” inteso nell’accezione negativa del termine cioè fuori dalla storia, primitivo, scimmiesco, piuttosto quei disegni mi hanno raccontato un’era dell’umanità dove gli animali venivano allevati, il cane era già un nostro amico, si combatteva, si cavalcava e si adoravano gli Dei, lassù c’erano fiumi d’acqua pieni di pesci e meduse, forse un Eden o almeno così mi piace pensare. E tra i tanti Dei, alcuni diavoli altri astronauti, c’è ne è uno che l’hanno chiamato il “Grand Dio di Sefar”, perché è alto quasi 3 metri e la sua silhouette non lo definisce piuttosto ne alimenta il mistero.

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L’altopiano oggi è un luogo della terra aspro, duro, pieno di sassi e sabbia, sferzato dal vento, con un solo punto d’acqua, un luogo invivibile: un viaggio non per tutti, senza comodità, senza acqua, senza elettricità, senza connessioni, che magicamente per noi 14 viaggiatori si è trasformato in un’esperienza di vita indimenticabile, grazie al contributo di ognuno il tempo è volato via tra risate, confidenze, racconti, emozioni creando amicizie che spero continuino nel proseguo delle nostre vite. Il tutto grazie allo staff, la guida Mohamed, il cuoco Mudir che ogni giorno cucinava per 27 persone, gli 11 tra asinieri e aiuti cuoco e 36 asini che hanno trasportato tutti i nostri bagagli, i viveri e l’acqua.

22 aprile, sabato: aeroporto di Roma Fiumicino, ore 12:30, ci ritroviamo tutti lì, provenienti da tutta Italia, anche perché il diretto per Algeri è solo uno, tutto regolare, anzi ci fanno perfino sbrigare a salire a bordo perché l’aereo deve partire e di panino me ne mangio soltanto uno. Arrivati a destinazione non abbiamo nessuna fretta, lasciamo che tutto l’aereo faccia le pratiche VISA davanti a noi, finché non ci chiamano, del resto il volo per Djanet è alle 22:40 e sono solo le 15:30, l’aeroporto è lo stesso va cambiato solo il Terminal, dall’internazionale al nazionale, 10 minuti di passeggiata tranquilla mentre i cambia valute al nero ci tartassano per tutto il tragitto, e a dir la verità non è nemmeno pessimo il loro cambio, sicuramente migliore della banca. Nella lunga attesa chi prende un taxi e fa un giro ad Algeri (tra l’altro città fantasma perché giorno di festa di fine Ramadan), chi gioca a burraco, chi legge e chi passeggia. Il volo è regolare, arriviamo finalmente a Djanet all’01:30 di notte, e dopo le laboriose formalità doganali con passaporto ritirato a tutto l’aereo per controlli, finalmente ci lasciano uscire. Fuori c’è l’aria del deserto, l’aria fresca e secca della notte, impieghiamo circa mezz’ora ad arrivare al lodge di Djanet perché l’aeroporto è molto lontano dal centro abitato, prendiamo le stanze e buonanotte, tra qualche ora inizierà l’avventura vera e propria.

23 aprile, domenica: un grazioso risveglio, così penso a quella mattina, perché appena uscito dal lodge avevo davanti agli occhi il fuxia dei fiori di bouganville e la sabbia del Sahara con il cinguettio degli uccelli: facciamo colazione, baguette e marmellata e poco dopo siamo già in partenza, un po' assonati, via velocemente da Djanet con i pick-up carichi, verso il punto di inizio del trekking, circa mezz’ora di strada. Lì ci aspetta la guida Suleymane e qualche asino, il grosso della carovana è già partito, sono le 10:30 del mattino. Sotto al sole, non è sicuramente il miglior orario per affrontare quella che sarà la tappa di trekking più dura della giornata, ma quando si è in viaggio i tempi vanno razionalizzati e non si può fare altrimenti. Per salire sull’altopiano del Tassili ci sono 4 passi, noi saliamo per “Akba Tafelelet”, non c’è ombra, subito ci troviamo ad affrontare un sentiero in salita tra grosse rocce, che conduce al “Tefetis Plateau”, una specie di enorme gradino per arrivare fin su, qua c’è la prima sabbia e facciamo una lunga pausa, aspettando tutti, ricompattarci e poi ripartire. Il percorso prevede un tratto in piano attraverso una valle, ma ben presto ricomincia a salire e parecchio, stiamo affrontando il “Tin Nsmar” ovvero il percorso dei chiodi, perché talvolta bisogna saltare e arrampicarsi su enormi massi e dei chiodi fissi potrebbero aiutare. Ad un certo punto sul sentiero troviamo uno scatolone di cartone con i nostri panini, acqua e dolcetti, è il nostro pranzo che il resto dello staff già salito ci ha lasciato, mangiamo e ci riposiamo in una stretta gola all’ombra. Riprendiamo il percorso, l’ultimo tratto di salita, chiamato “Azezgià” è il peggiore, molto ripido, bisogna arrampicarsi con le mani sulle rocce facendo molta attenzione a non far cadere pietre a chi è dietro di noi, poi all’improvviso, la salita diventa leggermente più dolce, pochi metri, e si apre davanti a noi un immenso plateau di roccia, siamo ufficialmente sul Tassili, a circa 1600 metri sul livello del mare, sono le 16:15. Da questo punto in poi le salite sono finite, bisogna solo camminare verso l’orizzonte, e sognare che un giorno remoto di migliaia di anni fa quello era un pascolo pieno di bovini, capre ed erbetta fresca. Arriviamo al primo campo del viaggio, quello di “Tamrit” che il sole è quasi tramontato, la passeggiata è semplice, notiamo una piccola pozzanghera di una pioggia recente non più di qualche giorno e il primo cipresso millenario, avrà 2000 anni, un po' sofferente ma accarezzarne la corteccia ha un fascino primitivo e sprigiona il profumo di resina di questa straordinaria creatura vivente. Arriviamo al campo, montiamo naturalmente tutte le tende, e solo qui mi rendo conto di quanti asini sono con noi, dello staff e tutto il resto. L’aperitivo è già pronto, poi arriverà la cena, tutto è eccezionale, non solo la qualità del cibo, la cucina, ma anche il modo di presentare il cibo, i bicchieri in vetro ad esempio, la luce, una cura dei dettagli che per la prima cena potrebbe essere quasi normale, invece perdurerà per tutti gli altri campi, dopo ore di trekking sotto il sole. Dovessi dare un voto, sarebbe 10 e lode, perché è impossibile fare meglio di così.

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24 aprile, lunedì: si parte dal campo alle 07:30 dopo colazione, noi con la guida, perché tutto il resto dello staff rimane ad ordinare e caricare i bagagli sugli asini. Oggi iniziamo a vedere le prime pitture rupestri: la prima aerea che visitiamo è quella di “Tan Zoumaitak”, ben presto siamo dentro un labirinto di arenaria, rocce modellate dal vento e dall’acqua, e guardando bene, con “occhio clinico”, c’è la raffigurazione di un carro trainato da cavalli sovrapposti, poi più in la omini dalle teste filiformi, bovini e cammelli con accanto scritte in “tifinagh” antenata dell’attuale lingua Tuareg, il “tamaseq”: queste pitture appartengono al periodo più recente, la rappresentazione del cavallo è datata intorno al 1200 a.C. sicuramente utilizzato dalla civiltà che ai tempi dominava il Sahara, i Garamanti, mentre i cammelli con le scritte sono ancora più recenti, almeno 5/600 a.C. più o meno quando fu introdotto il cammello dall’Arabia. Gli studiosi classificano infatti questi due periodi come “cavallino” e “camelino”, stranamente l’arte rupestre sahariana ha avuto un’involuzione nel tempo, raggiungendo notevoli picchi artistici intorno al 10.000 a.C., spiegabile con il progressivo inaridimento del territorio.

Lasciamo “Tan Zoumaitak” e camminiamo su un pianoro basaltico, una lunga passeggiata fino alla zona di “Sefar Bianco”, sono le 12:30, da ora in avanti iniziano le meraviglie. Pranzo alle 13:00 con pollo al curry, un’insalata e un buonissimo involtino fritto con il formaggio, Mudir il cuoco, lo aveva preparato ieri notte, instancabile. Proprio vicino al nostro campo, ci sono pitture molto belle, un ariete, una mano e soprattutto l’uomo Nasone che sta andando a caccia tenendo l’arco in mano.

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Alle 16:00 del pomeriggio inizia la passeggiata a “Sefar Bianco”, e qui, a mio avviso vediamo le più belle pitture in assoluto, anche perché a soli 10 minuti di cammino dal nostro campo, c’è proprio lui, il grande Dio di Sefar, e se sono qua con questo meraviglioso gruppo, lo devo soprattutto a lui! Girare per “Sefar Bianco” non è facile, invece è facilissimo perdersi o farsi male, poiché il labirinto di arenaria qua diventa sempre più complesso, spesso ci sono salti o buche improvvise, passaggi in tunnel di roccia, tra dune di sabbia intatta. La prima pittura che vediamo è il diavolo col tridente che probabilmente tiene in mano una gallina, poco dopo il grande Dio, che suggestivamente è stato dipinto in un luogo aperto, sembra quasi un anfiteatro, un luogo di culto senza dubbio, e sotto di lui in adorazione tanti omini imploranti. Non volevo lasciarlo, non volevo andarmene, perché dopo anni ho realizzato uno dei miei sogni! Proseguiamo a camminare, vediamo tante altre pitture, una giraffa, una scimmia, tante scene di caccia, una donna con un casco. Torniamo al campo praticamente al tramonto, cena e poi la straordinaria serata che andrà avanti fino all’una di notte, i nostri tuareg cantavano e danzavano, “super tuareg” il motto!

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25 aprile, martedì: oggi il nostro campo non si sposta rimaniamo un intero giorno qui, esplorando le zone nei dintorni. La zona che esploriamo è “Tin Tazarift” che ha il colpo d’occhio più bello dell’altopiano a mio parere, infatti rispetto a “Sefar” le rocce sono più alte, c’è più sabbia e più dune, e moltissimi archi, diciamo che è più ariosa in un aggettivo. Le pitture rupestri che vediamo appartengono quasi tutte al periodo delle “teste rotonde” tra il 7000 a.C. al 9000 a.C.: probabilmente sono state realizzate da un gruppo umano di ceppo negroide che molto probabilmente si cibava di funghi allucinogeni, spesso rappresentati, figure molto strane e fantastiche, c’è ad esempio un uomo con la testa di fungo, oppure dipingono ombre, rituali religiosi. Sicuramente è l’apice artistico dell’altopiano, tutte le pitture successive non arriveranno più alla magia di quel periodo. Torniamo a pranzo alle 13:15, naturalmente il cuoco Mudir anche oggi si è superato, poi siesta pomeridiana oppure gruppo carte “uno”. Nel frattempo arrivano le nuvole, da lontano un grosso cumulonembo fa sentire il suo tuono, probabilmente giù a Djanet sta piovendo, qualche misera goccia arriva anche a noi, speriamo, la popolazione ne ha troppo bisogno. Si riparte alle 16:00, questo pomeriggio andiamo all’esplorazione della zona che viene chiamata “Sefar Nero”, forse meno bello nel complesso perché c’è pochissima sabbia e tante rocce basaltiche nere, ma c’è un punto in cui sembra proprio di trovarsi in un incrocio tra due strade, due strade arcaiche di 10.000 anni fa. Le pitture di “Sefar nero” sono stupefacenti perché in esse c’è un collegamento diretto con le tribù Senoufu della Costa d’Avorio, ancora oggi durante i rituali si vestono così come furono disegnate, evidenti le scarificazioni sulla pelle identiche alle attuali, poi ci sono giraffe molto ben fatte e le famose tre maschere, anch’esse antenate dell’arte negroide. Prima di tornare al campo, ci fermiamo su una roccia dominante a vedere il tramonto, e laggiù piccolo piccolo il nostro campo, c’è un’aria fresca, le nubi che si stanno dissolvendo, il sole che inclina i propri raggi, e un meraviglioso gruppo che vive un’esperienza straordinaria. Stasera a cena Mudir ci prepara il pane sotto la sabbia, ne fanno due belle pagnotte che poi verranno sbriciolate e messe insieme ad un sugo di carne, nel frattempo mentre mangiamo qualcuno dello staff ha ucciso una vipera cornuta! Oltre al pane, di quella sera non potrò mai dimenticare “Bella Ciao” cantata attorno al fuoco, il nostro 25 aprile. Dopo cena un fuori programma, andremo dal grande Dio di Sefar in notturna, con le luci frontali si parte camminando tutti in fila indiana perché perdersi è facilissimo. Guardando le nostre ombre proiettate giganti sulle rocce, ho pensato a quell’uomo che 10 millenni fa girava con una torcia e vedeva un gigante, impressionato forse lo dipinse pensando che quel gigante fosse proprio Dio oppure uno spirito. E’ semplice e piacevole viaggiare con la propria mente davanti al grande Dio, siamo tutti in silenzio, le stelle sopra di noi, sdraiati sulla sabbia, persi in noi stessi, nei nostri sogni. Probabilmente uno dei momenti più belli del viaggio, era proprio dove volevo stare, quel luogo sognato per anni, nel silenzio assordante del Sahara.

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26 aprile, mercoledì: risveglio a Sefar, oggi il campo va smontato, tuttavia ritorneremo comunque a pranzo lì, e dopo si parte. Infatti, non abbiamo ancora trovato la pittura rupestre dell’ “Uomo che nuota”, la zona è un labirinto e spesso le stesse guide hanno difficoltà a trovarle, soprattutto se non si dispone di una tavola con le varie pitture, al proposito consiglio il libro di Henri Lhote “Alla scoperta del Tassili” dove troverete numerose raffigurazione e spiegazione dei vari dipinti. Infatti torniamo a “Tin Tazarift” nello stesso

posto di ieri mattina, e proprio dove la guida ci aveva mostrato il bivacco di Henri Lhote durante i suoi mesi sull’altopiano con la roccia annerita dal fumo, a pochi metri il capolavoro, metto direttamente la foto sotto:

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Ritorniamo al campo soddisfatti, e andiamo a vedere l’unica guelta con acqua rimasta in tutto l’altopiano, l’aver fatto due notti di campo lì, non era affatto casuale, poiché in questo modo gli asini hanno bevuto e le taniche sono state tutte riempite di acqua per cucinare e lavare. Se continua a non piovere, anche questa guelta si prosciugherà come le altre e fare un trekking di 7 giorni lassù sarà impossibile. Arriviamo che ci sono anche gli asini e qualche asfodelo fiorito, alcuni di noi scendono tra i massi e non è facilissimo, ma rinfrescarsi la testa con acqua fresca non ha prezzo. Nella guelta è impressionante vedere i segni dell’acqua lasciati sulla roccia, oggi non è rimasto nemmeno un metro ma in passato arrivava fino in cima, almeno 7/8 metri, inoltre colpisce la mia attenzione visiva il cambio cromatico, finalmente c’è il verde. Dopo la guelta di nuovo al campo a pranzo, mangiamo e ci riposiamo ingannando il tempo giocando ad “uno”, nel frattempo lo staff carica tutto sugli asini e verso le 15.30 si parte, per raggiungere il nuovo campo, nel frattempo anche oggi c’è aria di temporale, solo poche gocce arrivano a noi, qualche tuono in lontananza e tanto vento. Il campo è a “Tin Rassoutine”, lo raggiungiamo alle 17:00, e questo è sicuramente il campo più scenografico e più bello tra tutti, questa zona infatti è caratterizzata da pinnacoli altissimi di arenaria, tutte torri irregolari, alcune pendenti, tra le dune. Inizialmente il vento ci crea un po' di problemi, poi passato il temporale torna la calma e si possono piantare le tende tranquillamente: ceniamo in un luogo riparato tra le rocce, sembra una stanza, e alcuni asinieri abbrustoliscono direttamente sul fuoco le interiora di una lepre precedentemente catturata.

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27 aprile, giovedì: dal camp più bello del viaggio si parte, oggi il trekking è più lungo e impegnativo, più o meno sempre tra i 1600 e i 1700 metri asl, è questa principalmente una tappa di trasferimento verso Jabbaren. Inizialmente attraversiamo un pianoro sassoso, incontrando qualche cipresso del Tassili, che inspiegabilmente continua a vivere sotto il sole, tra le rocce e il vento; ad un certo punto la nostra carovana di asini ci sorpassa e non dimenticherò mai quella visione immortalata dalle foto, una scena biblica, ancestrale, così come oggi era 4/5000 anni fa. Queste zone di passaggio, sulla cartina sono chiamate come Tin Kani e Tin Ronane, ma tra le due, c’è il passaggio più bello di tutto il Tassili: un canyon con tante dune e una grande bottiglia d’arenaria rovesciata, un luogo che toglie il fiato per quanto è bello. Dopo il canyon un altro pianoro, ancora più sassoso che ci porterà fino al camp di Alaneudoumene, è ora di pranzo inoltrata. Oggi non abbiamo pitture rupestri da vedere, ci riposiamo soprattutto, e alcuni di noi ne hanno molto bisogno visto che i primi dolori di pancia iniziano a colpire un po' tutti, uniti con il caldo e il sole. L’unica escursione che ci concediamo è ai cipressi lungo il wadi poco lontani dalle tende. Di questo campo ricorderò sempre l’alba, meravigliosa.

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28 aprile, venerdì: ecco ero rimasto all’alba del giorno prima, magica. Le condizioni sanitarie del gruppo sono sicuramente migliorate, la nostra infermiera ha fatto punture di plasil a tutti praticamente! Quindi strada per Jabbaren, oggi il percorso non ha ombra, tutto sotto il sole, è molto duro un po' per tutti, perché la stanchezza accumulata è tanta. Arriviamo tra i grandi sassi di Jabbaren ad ora di pranzo, mangiamo tra i sassi e aspettiamo che il sole scenda un po' per visitare l’altra galleria d’arte rupestre più famosa del Tassili, nel frattempo qualcuno dello staff cattura un’iguana completamente nera. Partiamo alla visita di Jabbaren, che a differenza di Sefar molto più labirinto, si presenta molto più simile ad una città, con ampi viali e strade che intersecano, sicuramente è più arioso. La qualità delle pitture è ottima, ma a livello figurativo preferisco quelle di Sefar, qui vediamo strani uomini-coniglio che cacciano, una specie di gigante astronauta, le meduse, un tapiro, e tante raffigurazioni pastorali. Torniamo al campo che è notte, rischiando pure di perderci, qua a Jabbaren c’è l’unico punto dove il telefono prende e per fortuna noi lo sappiamo solo dopo. L’ultima cena sul Tassili, le mance a tutti e le partite di “uno” sotto ai grandi massi, termina così quest’altra intensa e bella giornata.

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29 aprile, sabato: oggi si scende, il nostro trekking sull’altopiano del Tassili è stato meraviglioso ma un po' tutti abbiamo bisogno di uscire da questa bolla che ha amplificato i rapporti umani, che ci ha fatto sentire speciali, fortunati ad aver vissuto insieme questa esperienza, quasi una famiglia. Scendiamo dal passo “Akba Aroum” che praticamente è proprio sotto al sito di Jabbaren. Una lunghissima discesa, tornanti che serpeggiano lungo il vallone, e verso le 11:00 del mattino siamo già giù. Qua abbiamo da camminare qualche km per raggiungere il luogo convenuto con gli autisti delle jeep, ci siamo, arrivano tra gli applausi e ci fermiamo però per l’ultimo pranzo preparato da Mudir il cuoco, stavolta si è superato con gli ingredienti freschi e l’acqua! La strada per Djanet non è tanta, saranno 20/30 minuti, ma prima di andare ci fermiamo alle “Tombe solari” misteriosi cumuli concentrici disseminati in tutto il Sahara datati all’era Neolitica, poi alla “Roccia dell’Elefante” uno scherzo del vento e dell’acqua, quindi una lunga corsa sulle dune fino al capolavoro dell’arte rupestre sahariana: “La Vache qui Pleure” dove ritorno molto volentieri dopo 6 anni. Torniamo a Djanet, ma non ancora in hotel, preferiamo provare ad acquistare qualcosa al suk, ma non c’è granché, quindi la meritata doccia che porta via la polvere e la sporcizia di una settimana, è quasi sera. Abbiamo i voli notturni, siamo tutti consapevoli che questa notte la passeremo in aeroporto, ma prima di lasciare Djanet, Mohamed ci ha fatto preparare una sontuosa cena: il montone cotto sul girarrosto, nella sabbia, ancora una volta mangiamo seduti a terra ma è l’arrivederci più bello dal Sahara, il mio luogo del cuore.

Non solo la passiamo in aeroporto la notte, ma ritarda anche di due ore e mezza, alla fine siamo ad Algeri alle 06:00 del mattino.

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30 aprile, domenica: da Djanet ad Algeri ci sono due mondi completamente diversi: Djanet è un’oasi nel cuore del Sahara dove comandano i Tuareg, si parla la loro lingua e si rispettano le loro tradizioni, Algeri potrebbe essere una città europea, è una metropoli sul mare, che scoppia di traffico, ha i suoi boulevard, i suoi maestosi palazzi, il porto e un golfo stupendo sul mar Mediterraneo. All’aeroporto ci aspetta Samera, è lei dalla voce suadente, che ci porta tutto il giorno in giro: inizialmente l’idea era quella di andare al sito archeologico di Tipaza, sul mare, e pranzare là, a circa 20/30 km, ma il traffico ce lo impedisce. Quindi prima facciamo una colazione lunga ed abbondante in un caffè, poi cerchiamo un cambio ma è estremamente difficile e perdiamo solo tempo a fare su e giù, visitiamo quindi la chiesa di “Notre Dame d’Afrique” e poi esausti, ricordo che non abbiamo dormito, ci facciamo portare in albergo, per riposare 2 ore e pranzare in autonomia, peccato che alla reception dell’albergo le procedure assegnazione stanza durano 15 minuti a persona e quasi un’ora la passo lì. Alle 15:30 nuovamente tutti insieme per visitare, con guida, la casbah d’Algeri: le condizioni sono piuttosto decrepite, visto che dovrebbe essere un luogo a tutela UNESCO, e che, comunque, rappresenta grazie anche al cinema, uno dei simboli dell’Algeria. Qua e là ogni tanto qualche bel murales celebra le gesta dei mujaidin contro l’oppressore francese, saliamo su una bella terrazza con vista sul golfo, ma niente di più. Dopo la casbah ognuno è libero di girare come vuole per le vie commerciali di Algeri, ci disperdiamo, per poi ritrovarsi a cena alle 20:00 in uno splendido ristorante di pesce, dove si può bere, vino e birra! E’ l’atto conclusivo di questo viaggio, il miglior finale possibile.

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01 maggio, lunedì: volo per Roma in ritardo di altre due ore, ma pazienza, non mi interessa perché porto con me ricordi bellissimi di una settimana straordinaria, lassù dal grande Dio di Sefar.