Togo e Benin
8° GIORNO: Partiamo alle 07:00 ma lasciamo Fada N’Gourma alle 08:00 perché una ruota del pulmino va sostituita. Siamo alla frontiera del Burkina alle 10:00, le pratiche di uscita dal paese sono piuttosto veloci. Dal Burkina al Benin ci sono 20 km di terra di nessuno, siamo a Porga. Qui nemmeno scendiamo dal pulmino per aspettare Mohamed che stava andando a prendere il visto, ma uno stupido poliziotto grassone inizia ad urlare, intimandoci che dobbiamo rimanere fermi sotto una tettoia e non possiamo assolutamente fumare perché danneggiamo la sua salute, nel mentre passa un grosso tir che brucia olio più della benzina. Su 8 visti necessari ce ne sono solo 7 disponibili, ne manca uno a cui viene rilasciato un foglio con un timbro, e quell’uno non ce lo fanno pagare. Siamo in Benin. Sosta pranzo a Tanguiela all’ hotel Baobab, dove mi mangio un buon cous cous di verdure, in questo paese saremmo dovuti andare alla succursale dell’ospedale “fatebenefratelli” di Padre Fiorenzo ma non abbiamo tempo. Subito dopo Tanguiela la strada inizia a salire, su per leggeri tornanti, stiamo entrando nella catena montuosa dell’ Atakora, cambia anche la vegetazione, più lussureggiante, e, cade qualche gocciolina di pioggia. Prima di andare al villaggio Taneka, ci fermiamo a Natitingou per prendere l’albergo e ordinare la cena, proviamo al famoso all’albergo di Madame Miriam ma è pieno, occupato dal personale di una ONG francese, quindi, ripieghiamo altrove. Il villaggio Taneka si trova a circa 1 ora di strada, dopo il paese di Copargo: situato sull’omonima montagna, è composto da capanne rotonde con tetto conico, terminante con una giara d’argilla capovolta. La parte alta del villaggio è abitata dai sacerdoti dei feticci vestiti con una pelle di capra, di cui, il grand feticheur completamente nudo. Sembra che l’etnia Taneka abbia occupato la montagna nel corso del IX sec. d.C., alcuni ricercatori hanno ipotizzato che sono i discendenti della misteriosa cultura Koma, scomparsa molti anni fa nel nord dell’attuale Ghana. A completamento della visita, incontriamo il re dei Taneka, un bel grassone vestito di colori sgargianti e lo scettro del comando, che risponde con un interprete alle nostre domande, regna da 5 anni su 3500 sudditi! Al ritorno a Natitingou ci fermiamo lo stesso al negozio di Madame Miriam per fare acquisti, ma, lei non c’è e non ci sono i prezzi sugli articoli, quindi comprare è difficile. Cena in albergo con cous cous e verdure; voglio ricordare la battuta del cameriere alla richiesta di un caffè... “demain matin!!!” risponde schietto.


9° GIORNO: colazione con il caffè promesso ieri sera, poi prima di ripartire da Natitingou visitiamo l’adiacente negozio di artigianato, ci sono articoli molto belli. Scavalchiamo la catena montuosa dell’Atakora, qua e là, ai lati della strada iniziano a comparire le caratteristiche “Tata” abitazioni fortificate dei Somba così chiamati in Benin e dei Tamberna come vengono chiamati in Togo, ma in realtà è lo stesso gruppo etnico. Il popolo è quello dei Betamaribé, uno delle popolazioni africane che meno ha subito l’influenza della cultura occidentale durante il colonialismo, lasciando pressoché inalterato il proprio stile di vita. Hanno mantenuto fedeltà assoluta alle proprie tradizioni animiste, prova ne è la presenza di grandi feticci, a forma fallica, all’entrata delle loro case. Le dimore di singolare bellezza, sono in forma di minuscoli castelli costruiti su tre piani. Architetti di avanguardia come Le Courbusier hanno tratto ispirazione dalla plasticità delle forme di queste dimore fortificate. Per queste loro caratteristiche l’Unesco ha dichiarato tutta la valle dei Tamberna patrimonio dell’umanità. Il tipico complesso di case chiamate “Tata” è formato da una serie di torri collegate tra di loro da uno spesso muro interrotto da un unico ambiente di ingresso, che serviva ad intrappolare il nemico per poi colpirlo con una pioggia di frecce. Questi straordinari edifici simili a fortezze contribuirono a scongiurare le invasioni delle tribù vicine e, alla fine del XIX secolo, anche dei tedeschi quando l’odierno Togo divenne una colonia dell’impero tedesco col nome di Togoland. La vita quotidiana in una “Tata” ruota intorno ad un alta terrazza, costruita con tronchi ricoperti di argilla, dove gli abitanti della casa cucinano, fanno seccare i raccolti di mais e miglio e trascorrono buona parte del loro tempo. Abili costruttori, i Tamberna, usano soltanto argilla, legno e paglia senza l’ausilio di alcun utensile. Le pareti degli edifici sono in banco, un misto di argilla cruda e paglia utilizzata come legante. Le torri, sormontate da pittoreschi tetti conici, vengono utilizzate come granai, mentre gli altri ambienti fungono da bagni, camere da letto, e, durante la stagione delle piogge, anche da cucina. Gli animali vengono tenuti sotto la terrazza, al riparo dalla pioggia. Di fronte al recinto si trova talvolta un sacrario con un feticcio, oppure si possono notare teschi di animali appesi sulle pareti interne o sulla porta d’ingresso.
Dopo questa lunga e dovuta digressione sulle “Tata” continuiamo il nostro viaggio, che nel frattempo passa dal Benin al Togo senza una frontiera vera e propria, infatti, scendendo e risalendo sul pulmino per visitare le numerose abitazioni dei Tamberna abbiamo anche il tempo di partecipare ad una messa evangelica, dove tutti insieme cantano il giorno del signore, certo, stride e non poco, con l’animismo radicato e naturale dell’ambiente circostante. All’ora di pranzo inoltrata siamo al paese di Natitongu dove oggi è giorno di mercato, Mohamed ci lascia qui per
qualche ora, poiché nel frattempo va a prendere i visti di entrata in Togo a Kara. Prima mangiamo un piatto di riso e poi passeggiamo per l’imponente e variopinto mercato, grande e molto animato, persino con un gruppo di giovani cantanti e danzatori che si esibisce. La nostra guida ritorna alle 1700, e, anche stavolta manca un visto che dovrà prenderlo l’indomani mattina. Arriviamo a Kara che è quasi buio, io vado in moto con un ragazzo dell’albergo a prenotare un ristorante per questa sera ed inizia a piovere, l’unico acquazzone del viaggio me lo becco in pieno.


10° GIORNO: Quando mi alzo la cucina dell’albergo non è ancora pronta per preparare la colazione e faccio una passeggiata fuori, l’Africa si muove già da un pezzo, chi lavora e chi va a scuola. A Kara prima di andar via passiamo all’ufficio preposto per il rilascio dei visti e in pochi minuti prendiamo quello di cui abbiamo bisogno e che ieri non c’era. Mohamed ha da fare, vuole cercare qualcosa di interessante e deve sostituire il relais della batteria del pulmino, riesce a trovare una festa sulle montagne in programma domani sera ma non se ne fa niente, non possiamo perdere due giorni a Kara. Noi nel frattempo beviamo un caffè e alle 11:00 partiamo, dopo circa un ora ci fermiamo in una scuola vicino alla strada: incontriamo il preside che ci introduce a visitare tutte le classi dalla prima alla quinta, presentandoci come una delegazione italiana. Banchi di legno, una lavagna con i numeri scritti in francese ed una illustrazione di fusto, radici e chioma di un albero, forse era la lezioni di scienze, i bambini sono tutti vestiti uguali, un grembiule giallo sporco, prima sono seri e silenziosi poi si scatenano in urla e risate quando stiamo per andarcene: è stata una visita semplice, inaspettata e commovente. La sosta per il pranzo è a Sokodà, mentre mangiamo il solito riso con salsa piccantissima e pasta di igname, la loro patata dolce, Mohamed e Issa vanno a riparare la marmitta del pulmino. Ripartiamo, la strada verso Atakpame, dove arriviamo alle 19:00, è trafficata da molti camion, che, dal porto di Cotonou o Lomé risalgono verso tutta l’Africa occidentale. La ricerca dell’hotel non è fortunata, il primo non ha acqua, il secondo ha solo due stanze, il terzo e l’Hotel “de l’Amitie”, il peggiore di tutto il viaggio. E’ un hotel ad ore, tanto che, un giovanotto con dama se ne va contrariato perché abbiamo occupato tutte le stanze, e la mia è senza bagno, praticamente un garage, ceniamo allo stesso hotel, stasera c’è il pesce dorado, sembra un’orata fritta, ma il buio molto nasconde.


11° GIORNO: partiamo da Atakpame con arrivo previsto ad Abomey. Sulla strada incontriamo pittoresche donne Peul, poi la frontiera: prima quella di uscita dal Togo dove impiegano un tempo interminabile per trascrivere tutti i nostri dati su un vecchio registro poi l’entrata in Benin, qua dobbiamo riprendere il visto valido per 48h ma ne mancano 3, quindi aspettiamo circa 2 ore che un ragazzo col motorino li va a prendere. Quando lasciamo la frontiera è ora di pranzo e ci fermiamo in un paesino a 2 km per mangiare pane e omelette, nel caldo terribile delle 14:00, senza un alito di vento. Arrivo alla mitica ex capitale del sanguinario regno del Dahomey, Abomey, alle 16:00, siamo direttamente al museo Historique d’ Abomey che si trova all’interno dei palazzi reali del re Glelé e re Ghézo. Infatti ogni re del Dahomey ha costruito un proprio palazzo reale che, oggi, si trovano disseminati insieme a numerosi templi per tutta la città. Sono delle costruzioni ad un unico piano, di colore ocra, decorate con numerosi bassorilievi, i tetti sono in lamiera e purtroppo stona con il tutto, poiché un tempo erano in paglia. Nel museo non si può fotografare, sono esposti oggetti molto interessanti come gli scettri di tutti i re, i troni di tutti i re, compreso quello più celebre, poggiato su 4 teschi umani del re Ghézo, arazzi dell’epoca, vestiti ed armi. L’intero complesso per la sua particolarità, essendo una delle strutture architettoniche più imponenti dell’Africa occidentale (si estendono su 44 ettari con 4 km di mura alte 10 metri) è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. All’esterno del museo, c’è un centro artigianale dove vendono arazzi in stoffa ricamati a mano e statuette in bronzo. Prima che cali il sole andiamo a bere qualcosa di fresco, poi ci sistemiamo in dei bungalows puliti e spaziosi immersi in un giardino tropicale, è un ottima sistemazione. Ceniamo sempre qui con hamburger e patatine. Mohamed invece è andato a cercare, con una persona del posto, se c’è la possibilità di assistere ad un rito voodon poiché Abomey è la capitale spirituale di questa religione, più antica del cristianesimo, di origine ancestrale; torna tutto eccitato proprio quando stavamo terminando la cena e ci annuncia che siamo molto fortunati ma dobbiamo sbrigarci perché il rito è già iniziato. Il luogo è relativamente vicino all’hotel, stanno celebrando un rito funebre dedicato ad un anziano morto il giorno prima. Sotto ad un grande albero illuminato da fari c’è un grosso assembramento di gente, come ci vedono arrivare ci intimano di andare via, che non è il posto per noi, siamo osservati da almeno 200 persone; poi Mohamed lavora di diplomazia, unge le persone giuste e siamo ammessi, ci fanno togliere le scarpe e sedere. Intanto inizia il tam tam dei tamburi, una processione di circa 10/15, uomini, donne e travestiti, entra nell’arena ed inizia a danzare in modo sfrenato, sono vestiti con abiti tipici, cavigliere, bracciali e un bastone ricurvo che vedremo raffigurato in parecchi bassorilievi nei templi di Abomey. Il ballo dura circa un’ora, continuano fino
allo stremo, poi la cerimonia finisce e tutta la folla si riunisce nella casa per la veglia funebre alla salma, noi non siamo ammessi. E’ stato bello ma avevo la sensazione di non c’entrare nulla tra di loro.




12° GIORNO: la mattina la dedichiamo ai palazzi reali rimasti, prima quello del re Akaba ma è chiuso e possiamo vedere solo le imponenti mura rosso ocra dall’esterno, poi sulla strada alla ricerca di altri palazzi ci fermiamo a scattare foto ad un tempio, quello di Zomanodou, che mostra bei disegni di draghi, pipistrelli, guerrieri stilizzati all’africana, ma imprudentemente qualcuno di noi sale con le scarpe sul tempio, il sacrilegio è compiuto! Una vecchia megera, che sembra essere la sacerdotessa del tempio, ci insegue a bastonate e urlando frasi incomprensibili, dietro di lei 7/8 giovanotti che la difendono, blocco il bastone e la situazione si scalda ulteriormente, Mohamed cerca la mediazione, ma non c’è niente da fare, dobbiamo pagare il sacrificio per quello che abbiamo fatto, che consiste in 1 montone e 7 polli, l’equivalente di 40000 franchi, riusciamo a scendere a 35000, sembrano accontentarsi e ce ne andiamo frettolosamente. E’ stato un siparietto grottesco ma loro non scherzavano e la sacerdotessa sputava bava dalla bocca. Proseguiamo la visita dei palazzi, quello dell’ultimo re Béhanzin e molto bello e all’interno espone anche oggetti dell’epoca. Béhanzin dovette arrendersi ai francesi nel 1900, fu esiliato con tutta la sua famiglia alla Martinica con una modesta pensione, successivamente morì in Algeria; oggi una grande statua di bronzo lo raffigura al centro di Abomey, come ultimo eroe della resistenza ai colonizzatori. L’ultimo palazzo che visitiamo è quello del re Agonglo, con molti bassorilievi sui sovrani e sul leggendario figlio Hwemu che ritornò sulla terra dal mondo del vudù, incarnato in un pesce. Partiamo da Abomey a mezzogiorno, poco dopo ci fermiamo alla vicina Boichon per
cambiare soldi in banca e pranzare; questa cittadina sembra essere il centro finanziario e commerciale di Abomey, da cui dista solo 6 km, infatti qui i francesi costruirono la stazione e la ferrovia proprio perché avevano paura della terribile capitale del regno del Dahomey.
Scendiamo sempre più a sud, e alle 16:00 siamo all’imbarcadero di Calavi per salire su una pinasse e visitare il villaggio di palafitte sul lago di Ganvié. La navigazione dura poco più di un ora, andata e ritorno, molte delle palafitte sono in completo abbandono, alcune ospitano negozi di artigianato, altre un alimentari, una scuola e due alberghi: sembra che il popolo di Ganvié si siano qui rifugiati il secolo scorso per sfuggire alla tratta negreria poiché i re del Dahomey avevano il tabù dell’acqua. Dopo il lago, qualche chilometro ancora a sud e finalmente il mare, siamo sul lido di Cotonou, all’hotel “Le littoral du soleil”, direttamente sulla spiaggia. Finalmente la piacevole brezza marina anche se le nostre camere molto essenziali sono caldissime e dotate di un vecchio ventilatore. Ceniamo con ottimi spiedini di pesce, passando il dopocena sulla spiaggia sotto le stelle.


13° GIORNO: finalmente giornata libera e sveglia libera, in realtà è l’unico giorno del viaggio in cui mi sono annoiato, si era deciso di passare tutta la giornata al mare. Al mattino, per fortuna, siamo andati a Cotonou centro. Altri ne hanno approfittato per spedire le cartoline direttamente all’ufficio postale, poiché le cassette non esistono, altri per fare un pò di shopping, altri per passare alla libreria e visitare la cattedrale; del resto la caotica e inquinata Cotonou non offre nient’altro. Ritorniamo al mare a mezzogiorno, metto il costume e vado a fare il bagno nelle nervose acque dell’oceano, bei cavalloni su cui c’è da divertirsi. Il cielo è velato, la spiaggia è molto grande e ogni tanto gruppetti di pescatori tirano su le reti cariche di pesce. Finisco di leggere il mio libro, mangio, prendo il sole e appunto, mi annoio, quasi non vedo l’ora di togliermi le ciabatte e rimettermi gli scarponi per muovermi lungo le rosse piste africane. Per la cena organizziamo qualcosa di speciale, dovevamo riscattare la giornata: l’aragosta, la cucinano molto bene, forse con troppo aglio. Altra serata in riva al mare e tutti a letto, domani l’ultimo spostamento.


14° GIORNO: Dopo un abbondante colazione in spiaggia carichiamo il nostro pulmino e, per arrivare a Ouidah che si trova 40 km ad ovest sul mare, percorriamo la bellissima “route des peches”, la strada dei pescatori che segue parallela la spiaggia attraverso un palmeto da cocco infinito, alto e svettante. Talvolta si incontrano capanne di pescatori e piccoli bungalows, e un ragazzino più veloce di un babbuino sale su una delle palme e fa cadere noci di cocco, Mohamed ne acquista diverse e ci dissetiamo con il latte di cocco. Il palmeto termina proprio alla “porta del
non ritorno”, patrimonio Unesco, il monumento eretto a ricordo dei 12 milioni di schiavi imbarcati su quel lido, per quella che è stata la più grande e terribile deportazione della storia dell’umanità. Cento metri più avanti c’è un altro monumento che, invece, ricorda il giubileo dell’anno 2000 quando il Papa visitò il paese. Dalla porta del non ritorno comincia la strada degli schiavi, 4 km dritti, che terminano al centro della cittadina di Ouidah, all’albero dell’oblio, dove gli schiavi prima di essere imbarcati venivano fatti girare, per dimenticare la loro terra. Questi luoghi visivamente non dicono nulla, sono commoventi per la storia a cui hanno assistito, simboli di una immane sofferenza. Nella tranquilla cittadina di Ouidah, forse la più turistica e la più ordinata di tutto il viaggio, visitiamo il “museo nazionale di storia”, ricavato in un fortino portoghese del 1800, contiene vari reperti che testimoniano la tratta negriera. Ouidah offre anche il tempio dei pitoni, un’attrattiva Kischt per turisti, in una stanza che dovrebbe essere il tempio ci sono una trentina di piccoli pitoni, nulla di eccezionale. Direzione frontiera Benin/Togo, dove, anche se il visto di 48h è scaduto ieri, non ci fanno pagare multe o tangenti varie, anzi, le operazioni di passaggio sono piuttosto veloci, per il Togo, invece, avevamo già il visto di 7 giorni preso a Kara. A qualche km dopo la frontiera sta Aneho, un piccolo villaggio sul mare, proprio dopo la foce del fiume che entra in mare, qua ci fermiamo a pranzare: ha una buona spiaggia con le palme alle spalle, e volendo, può rappresentare una valida alternativa al lido di Cotonou. Prima di arrivare a Lomé e sistemarci in albergo era nostra intenzione andare al mercato dei feticci di Vogan che sta poco prima, quest’ultimo non è grande e si trova in uno spiazzo, vendono gli oggetti più orribili che si possano immaginare, ma appena scendiamo ci chiedono dei soldi per l’ingresso, la situazione si scalda e per principio ce ne andiamo. Poco dopo siamo all’hotel “Aurore” di Lomé, sul lungomare, una buona sistemazione centrale. Qua ceniamo insieme a Mohamed ed Issa ed è arrivato il momento dei saluti, infatti devono viaggiare tutta la notte e il giorno dopo per ritornare ad Ouagadogou. Un bell’abbraccio e quasi mi commuovo, spero tanto di incontrare Mohamed al prossimo viaggio nel Sahel.
15° GIORNO: giornata tranquilla, approfitto per visitare il Museo del Golfo di Guinea, adiacente al nostro albergo, è una collezione privata di uno svizzero, che ha raccolto oggetti di qualità come maschere, costumi, porte, armi, in tutta l’Africa, dal Congo alla Mauritania, molto bella e curata, una visita riassunto di tutta l’arte afro che abbiamo visto durante il viaggio. Alcuni si perdono nello sterminato mercato di Dantkopa facendo acquisti molto interessanti, io del resto, non avevo più soldi. Il tempo se ne va, e siamo di nuovo all’aeroporto, per andarcene dall’ Africa.
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